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Sepia by Niko

Il cuoco talassologo

Senigallia è meta nota ai gourmet. Qui sventolano gli stendardi di due fra i più rinomati ristoranti italiani: la Madonnina del Pescatore e Uliassi. Ma, oltre loro, un terzo locale – certo, più piccolo e più informale (stile bistrot) ma decisamente valido – si trova in questa sorridente e pigra cittadina di mare, adagiata sulla costa adriatica. In alcuni spazi del Palazzo del Duca (qui regnavano i della Rovere), giusto in faccia alla quattrocentesca rocca progettata da Luciano Laurana con tratti sì marziali ma comunque ispirati a classica eleganza, si incontra il ristorante Sepia by Niko.

Proprio così, «sepia», con una “p” sola, perché – come sanno gli scienziati naturalisti – il vero nome della seppia, secondo la classificazione di Linneo, è sepia. NikoPizzimenti il family name – lo sa bene, e non potrebbe essere altrimenti, perché fra pesci, molluschi, crostacei e quant’altro viva nelle equoree profondità ci è nato e cresciuto. Il padre del nostro, infatti, è pescatore di lungo corso: proprietario di un motopeschereccio ormeggiato giusto a poche centinaia di metri dal locale del figlio. Il particolare non è di poco conto perché al Sepia si mangia pesce di giornata, che arriva perlopiù dall’imbarcazione di famiglia. E a ben scrutare la non vasta carta delle vivande ce ne si accorge immediatamente, anche perché la proposta cambia ogni primo giorno del mese. Il mare non regala i suoi “frutti”, indistintamente, tutto l’anno: le cozze si trovano in estate, quando invece è assai più raro imbattersi in calamari, polpi e seppie. Le triglie prediligono i mesi autunnali. I meravigliosi scampi quelli invernali. Mentre per i grandi pesci pelagici è meglio attendere il periodo caldo. Niko tutto questo lo sa e, come fine talassologo, studia e interpreta la materia prima con passione, mediando una sua idea di cucina marinara fra Marche e Sicilia. Già, perché dalla Trinacria arriva la famiglia Pizzimenti: e di un’isola lontano dall’isola, più vicina al Monte Conero e alla “spiaggia di velluto” che alla Scala dei Turchi e alle saline, raccontano i piatti del Sepia. Piatti intrisi di ricordi sedimentati attraverso le generazioni, di usi arcaici che, nel lampo creativo, si svelano contemporanei, di tradizioni tradìte e tràdite. In un magma di impeto e di sentimento che mai è però nostalgia.

Piatti mediterranei

Assodato che la materia prima, preziosa o povera che sia, che giunge dal mare qui è davvero top e a km zero, parliamo delle capacità del cuoco. Niko ha una ottima conoscenza delle basi della cucina classica: muove i primi passi nel mondo dei fornelli frequentando l’istituto alberghiero di Senigallia (dove, fra gli altri, ha avuto come insegnante un giovanotto di nome Mauro Uliassi…) e quindi si sposta per lavoro prima in Francia (e la terrina al forno di polpo, caciocavallo e nduja è indizio di questo passaggio…) e poi, per dieci anni, nella lontana Australia.

Questo cosmopolitismo del cuoco – che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un annichilente (e, per chi è seduto a tavola, noioso) stile fusion – in realtà è percepibile più nel suo atto del fare che nel suo fatto. Cioè più nella conoscenza delle tecniche utile a costruire un buon piatto piuttosto che nel piatto stesso (giusto come esempio si potrebbe citare l’estrazione a freddo di senape selvatica che accompagna la pasta mista di Gragnano allo scorfano). E più negli azzeccati e tutti italici abbinamenti – tranquilli, per fortuna nulla di astruso! – che in una “spruzzata” di inutile esotismo. Il risultato prende forma in pietanze solari, d’impianto “mediterraneo”, saggiamente costruite e accattivanti già sotto il profilo aromatico. E, benché complesse gustativamente – come i capelli d’angelo con lepre “alla pantesca” e anguilla glassata – ben bilanciate negli elementi, nei contrappunti sapidi e iodati, e nelle sensazioni (anche tattili, come – per esempio – per il crudo di gamberi rosa, che non è ‘tartarizzato’ ma semplicemente battuto, per salvaguardare le fibre della dolce carne e la sua consistenza).

Uno dei tratti distintivi dei piatti del Sepia è poi la piacevole, e non stucchevole, nota di rotondità, indotta dalla succulenza, che accompagna la deglutizione del boccone, data – per esempio, nei due crudi iniziali – da una bisque di riduzione di soli carapaci di gamberi rosa (quindi senza l’utilizzo della parte della testa) che accompagna il già citato battuto di gamberi, e dal burro acido nel quale viene appena ripassato il crudo di calamaro (con pomodoro arrosto, senape, mollica e olio alla carbonella) per togliergli la possibile sensazione di pelagico.

Capitolo a parte meritano i dolci. Ai tavoli del Sepia gli epigoni di Ciacco possono divertirsi: decisamente goloso, ma ancora una volta non stucchevole, è per esempio il Brownie al cioccolato con uva di Lacrima di Morro d’Alba e crema di arachidi. Ma soprattutto da non mancare sono i cannoli di ricotta alla siciliana. Le cialde sono preparate giornalmente e sono farcite solo pochi secondi prima di essere portate a tavola. Una delizia! Il servizio, diretto da Giulia, la moglie di Niko, è assai efficiente e cortese. E la carta dei vini – che ha ovviamente un occhio di riguardo per le etichette siciliane (ma non mancano le altre regioni d’Italia e una bella selezione estera) – permette di bere bene a prezzi corretti.

La Galleria Fotografica:

L’inizio della saggezza è il silenzio.

Pitagora (575 a.C. – 490 a.C.)

Mistica del genius loci

Il villaggio di Hunawihr sulla route des vins d’Alsace è un luogo magico, almeno così mi piace ricordarlo visto che saranno quasi dieci anni non ci torno. La chiesa di Saint-Jacques-le-Majeur con affianco il cimitero sommerso dalle vigne è un luogo incantato dove farsi seppellire e chissà, riposare per l’eternità, a crederci. 

Qualche settimana fa sono andato a Segesta, la mia prima volta. Segesta è un altro di quei luoghi mistici dove percepisci fin da subito un’energia campestre che ribolle sottoterra e magnetizza l’aria in superficie: la magia del genius loci. Bello inerpicarsi sul colle mentre la gran parte dei turisti si fa traghettare dal bus. Man mano che si sale si accede a una visione commovente del Tempio, sull’altro colle accerchiato da vigne lavorate, boschetti di macchia, gole scoscese. Una volta raggiunta l’Acropoli sul monte Barbaro stesi a occhi chiusi su uno dei gradoni del teatro greco, il sole sulla pelle trasmette una carica di vitalità, una forza interiore che è impossibile razionalizzare a parole, parole, parole.

Costruito alla fine del III sec. a.C il teatro di Segesta – esempio luminoso di architettura greco-ellenistica – conteneva oltre 4000 persone oltre al coro e agli attori, fantasmi dispersi, presenze invisibili che elettrizzano un’aria che pare carica del loro vissuto precristiano. Tra uno scarico di turisti e l’altro riesco a vivermi un minuto di silenzio sacro, solleticato dalla brezza del golfo di Castellammare giù in fondo al panorama. Avevo portato con me un libretto di Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia tratto da La vita errante (1890) da cui ho sottolineato questa frase sulla definitiva perdita di bellezza architettonica del mondo moderno:

Attualmente, ogni architettura è morta (…) sembra aver perduto quel dono di costruire la bellezza con le pietre, quel misterioso segreto della seduzione per mezzo delle linee”.

Variabili singolari e determinanti

Passeggiando tra i frammenti della storia antica, si può comprendere benissimo quello che dice il fotografo Josef Koudelka in merito all’ombra e alla luce giusta per fotografare le rovine delle civiltà passate. Radici era la mostra dedicata ai siti archeologici più importanti del Mediterraneo che Koudelka ha fotografato in bianco e nero. Dall’alba al tramonto, alcune foto di un dettaglio di rovina, colonna, statua è tornato a scattarle più volte in giorni diversi perché perso il minuto esatto di intersezione di luci/ombre del preciso momento ricercato dal suo occhio, avrebbe dovuto attendere il giorno successivo alla stessa ora, minuto, secondo per ritrovare lo scatto giusto. Una densa riflessione fotografica sull’irreversibilità del tempo nello spazio.

Il pensiero sullo scatto giusto esprime la misura del momento unico sull’epoca di vendemmia oggi e non domani, adesso e non dopo, perché la maturità raggiunta delle uve sulla pianta decide il carattere del vino, la sua grana, il suo equilibrio fenolico e zuccherino, l’interpretazione singolare che il vignaiolo vuole dare a quell’uva trasformata in vino. Questo genere di variabili che a occhi distratti sembrano dettagli trascurabili, in verità sono dettagli peculiari che fanno la differenza nella distinzione tra arte, artigianato, industriale, seriale, umano, meccanizzato.

Un tema che genera molta angoscia nel vino è quello del prezzo dell’uva a seconda se ci si trova in zone rinomate o in areali dove si produce per fare quanto più volume a prezzi ridicoli che non stimolano nessun contadino a fare qualità anzi infondono pressappochismo e furberia truffaldina tanto in chi produce quanto in chi imbottiglia. Si bombardano le vigne di diserbanti per produrre quanta più uva tanto con le fatiche che costa lavorarla per bene visto quello che la pagano a quintale non vale la pena neppure perderci tempo e denaro. Alcamo, Marsala e il trapanese in generale sono territori vitatissimi, ma purtroppo chi lavora la terra con un progetto di cura della vigna, di prescrizione qualitativa e devozione alle fatiche della campagna per produrre vini genuini da agricoltura sana, sono ben pochi visionari. Aldo Viola, Nino Barraco, Vincenzo Angileri, Pierpaolo Badalucco, sono quelli che mi vengono in mente per primi. In vigna a contrada Guarini da Aldo Viola si è ragionato sul fatto che è sempre più difficile distinguere chi è vignaiolo-contadino perché lavora la terra, mantiene la vigna da cui fa il vino e spesso fa fatica a generare indotti da reinvestire nella sua attività, dall’imprenditore agricolo che investe sulla terra per ottenere profitto. Certo entrambe le retoriche, quella del contadino eroe che arriva a stento a fine anno produttivo e quella del cittadino o dell’intellettuale convertito alla vita bucolica hanno generato parecchi mostri, distorsioni esibizionistiche e atteggiamenti modaioli davvero degenerati nel mondo del vino soprattutto da quando ce ne stiamo tutti a osservare ed essere osservati nel teatrino degli orrori passivo-aggressivi dei social. 

Il vino degli amici

Bisognerebbe coltivare il desiderio di separare le cose dal rumore che esse fanno come insegnava Seneca, ma oggi il rumore è predominante su tutto e su tutti, dall’irrealtà virtuale a quella fattuale, ed è sempre più difficile anche soltanto tendere alla saggezza pitagorica che anteponeva il silenzio alla parola. Difatti più delle parole Aldo, dopo aver “camminato la vigna” assieme, ha imbastito una colazione energizzante all’ombra di un gelso. Il pasto povero ma ricco dei contadini: sarde sotto sale pucciate in olio e aceto, che abbiamo gioiosamente innaffiato con più di qualche bicchierozzo del suo ossidativo “ruby” senza etichetta, il vino degli amici, vino che non è in vendita perché l’amicizia non ha prezzo, né retorica, né commercio.

Mandrarossa e il Vermentino Bio

Mandrarossa, top brand della menfitana Cantine Settesoli, dal 1999 produce vini che della Sicilia sanno raccontarne la biodiversità. Lo studio di oltre vent’anni, volto ad individuare le migliori combinazioni tra varietà di vitigno e tipologia di terroir – nell’analisi del comportamento delle uve su diversi terreni e attività di microvinificazione – portano ad una gamma di vini unici nel panorama siciliano: gli “Innovativi”, il Cartagho – 100% Nero d’Avola -, la linea “Storie Ritrovate” – ovvero “i vini di contrada”, “i vini dell’Etna” e il Passito di Pantelleria DOC -, il Calamossa (da uve bianche autoctone), e i “Varietali”.

Territorio e identità

Tre sono i territori vocati della Sicilia dalle mille sfaccettature dove Mandrarossa ha voluto approfondire il rapporto cultivar/terroir: Menfi, Etna e Pantelleria. In ognuno di questi areali, le cinque diverse tipologie di suolo – sabbioso, argilloso, medio impasto, calcareo e limoso – conferiscono ai vini struttura e personalità, in sintonia con ognuna varietà di uva.

Il primo di questi è il “Menfishire”, i cui 500 ettari di vigneti di proprietà, nella zona sud-ovest della Sicilia, godono di un’altitudine di 440 m.s.l.m, un clima fresco e asciutto, l’intenso irraggiamento solare e l’influenza del mare che porta con sé venti caldi da sud e forti escursioni termiche. Qui si producono vini di alta qualità dalle uve autoctone Grecanico e Nero D’Avola, i cosmopoliti Sirah, Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay, e ancora il Fiano, il Viognier, Petit Verdot, l’Alicante Bouschet, lo Chenin Blanc, il Sauvignon Blanc.

La winery di Mandrarossa, sorge in questi luoghi, in contrada Puccia, a sud di Menfi dove si integra perfettamente con il territorio circostante, dalle dolci colline adornate di vigne degradanti verso il mare. Ai piedi dell’Etna, troviamo il territorio definito “Mons Gebel”, 4 ettari selezionati dove si coltivano, gli autoctoni Carricante e Nerello Mascalese, che restituiscono altrettanti vini unici e di carattere. Le uve Zibibbo, invece, provenienti dai 2 ettari vitati di varie zone dell’isola di Pantelleria, chiamata “Cos Syra” dai greci, si fondono nel profumato Passito omonimo DOC – “Serapias”.

Larcéra Vermentino Terre Siciliane Igt Bio 2021

Nei comuni di Menfi, Santa Margherita di Belice e Contessa Entellina, nella parte sudoccidentale dell’isola, Mandrarossa ha dedicato 5 ettari alla produzione biologica di un vitigno caratteristico di regioni come Toscana, Sardegna e Liguria: il Vermentino. Questi vigneti su suoli calcarei di medio impasto, consentono all’apparato radicale delle viti di farsi spazio oltre i 2 metri di profondità, ottenendo riserve idriche e sali minerali, conferiscono ai grappoli freschezza e struttura. Alleate preziose sono anche le escursioni termiche che caratterizzano questi territori in prossimità del mare e ad altitudini tra i 200 e i 390 m, e l’esposizione a sud che garantisce luce e calore alle viti per grande parte della giornata.

Il Larcéra Vermentino Terre Siciliane IGT Bio 2021, nuova etichetta della linea “Innovativi”, si aggiunge alle altre tre già certificate VIVA, che rappresentano l’impegno della cantina menfitana alla sostenibilità in ambito agronomico e produttivo nel desiderio di mantenere un territorio integro.

L’annata 2021, che ne inaugura l’etichetta, è stata particolarmente favorevole per quanto riguarda le condizioni climatiche, garantendo ai frutti buona maturità ed un conseguente irrisorio intervento in cantina. Questo 100% Vermentino in purezza, a seguito del raffreddamento delle uve, della decantazione di 36 ore e della conseguente fermentazione che termina 6 mesi in acciaio, ne restituisce un’inedita espressione dell’alloctono vitigno.

Il Larcéra Terre Siciliane IGT, che richiama il nome di una contrada di Menfi, si presenta dunque di un bel giallo brillante, dalle note al naso di pera williams, fiori bianchi quali la fresia e l’iris bianco, elegante e fruttato, piacevole nella sferzata salina finale e nella leggera piccantezza, di buona persistenza al palato. Un’adesione profonda a ciò che restituisce la terra di Sicilia.

Cusumano, una storia illuminata

La terra di Sicilia è profondamente intrisa di luce, nelle sue terre, nel suo mare cristallino e nel sole che la illumina.

Cantina Cusumano ha una storia altrettanto legata alla Sicilia e alla sua luce. Fondata nel 2001 da Alberto e Diego Cusumano, produce vini che sono l’espressione dell’energia che questa luce imprime nei grappoli. Una luce che scalda i vigneti delle cinque tenute di proprietà: Ficuzza a Piana degli Albanesi in provincia di Palermo, San Giacomo a Butera (Caltanissetta), Presti e Pegni sulle colline di Monreale, Monte Pietroso a Monreale, San Carlo a Partinico (Palermo). Un tratto distintivo quello della luce che si evidenzia nei terreni ricchi di trubi bianchi, formazioni geologiche di età pliocenica il cui esempio più noto è la Scala dei Turchi, che riflettono ed amplificano la potenza del sole. Dalla Tenuta di San Giacomo a Butera e dalla materia calcarea e bianchissima dei questi suoli, nasce Fosnuri, il nuovo vino della cantina.

Fosnuri di Cusumano

In questo 100 % Syrah in purezza, i cui vigneti sono coltivati nei bianchi terreni a 450 m.s.l.m., con esposizione a sud, la luce si fa “doppia”: quella del sole e quella riflessa dalla terra. Lo stesso nome, che nasce dall’unione del termine luce in greco – fos φῶς e in arabo nuur نور, ovvero due volte luce, racconta della luce del sole di Sicilia che ne irraggia le viti direttamente e indirettamente dal riflesso del suo suolo bianchissimo. Un “concentrato” di luce che viene dal cielo, e dalla terra stessa, che unito alla forte escursione termica tra il giorno e la notte e alla vicinanza con il mare garantiscono le condizioni ottimali per la perfetta e succosa maturazione delle uve e la loro acidità. La raccolta manuale, la diraspatura delicata per vibrazione, la macerazione di almeno 25 giorni e la maturazione in fusti da 5 ettolitri per almeno 18 mesi, portano a racchiudere una storia fatta di luce nelle 3000 bottiglie prodotte.

Fosnuri si aggiunge alle altre referenze della cantina Alta Mora sull’Etna, brand che unisce le contrade di Guardiola, Pietramarina, Verzella, Feudo di Mezzo e Solicchiata sull’Etna.

Ma la potente luce di Sicilia che è fonte di ispirazione per i fratelli Cusumano, è anche il motore e focus di un progetto organizzato dagli stessi Diego ed Alberto insieme a Perimetro. A maggio, il “cinematografo” Vittorio Storaro, insignito di ben tre premi Oscar per “Apocalypse Now”, “Reds”, “L’ultimo Imperatore”, girerà un video che avrà come principale protagonista la Sicilia, e la sua luce. Partendo dai contenuti fotografici e video creati da Vittorio Storaro, “maestro della luce”, Perimetro coinvolgerà una community di fotografi con la Open Call “Lightland”. Le immagini, che saranno pubblicate sul canale Instagram @cusumanowinery, verranno premiate e giudicate dallo stesso Storaro e diventeranno il motore di una raccolta di fondi a scopo benefico. Il ricavato sarà devoluto all’Istituto Mario Negri, ente morale impegnato dal 1961 nella ricerca biomedica al servizio della salute pubblica.

Alla scoperta del Nero d’Avola con Sicilia Doc

Nerboruto e potente, vellutato e ammaliante, il Nero d’Avola cela una sorta di doppia identità che di primo acchito potrebbe farlo sembrare un vino scontroso. Tuttavia approfondendone la conoscenza emergono quelle qualità che te ne fanno apprezzare la compagnia. La sapidità apportata dalla vicinanza al mare, i tannini mai troppo ruvidi, l’avvolgenza delle bottiglie più evolute che, come spesso capita a cose e persone, si ammorbidiscono nel tempo. Il Nero d’Avola è un vino dalla forte personalità. Come un vecchio pescatore, burbero e scolpito dal mare, che però è in grado di ammaliare chi lo ascolta con le sue storie, ricche sia di esagerazioni che di brutale realtà.

Storie che si è avuto modo di conoscere e approfondire in quel contesto di esagerata bellezza che è Villa Igiea, storico palazzo di Palermo appartenuto a Ignazio e Franca Florio e che oggi reca le insegne del marchio di lusso Rocco Forte Hotels. Tra quelle pareti affrescate con alcune delle più belle illustrazioni in stile Art Nouveau di Ettore De Maria Bergler e le sale adornate con gusto affacciate sugli splendidi giardini della villa e, più in fondo, sul mare, è andata in scena una tre-giorni di degustazioni, seminari e momenti di approfondimento dedicati a due vitigni iconici di questa terra: Nero d’Avola e Grillo.

Un evento nel quale il Consorzio di tutela vini Doc Sicilia non solo ha voluto rendere omaggio agli interpreti del territorio e alle diverse espressioni vitivinicole nelle quali esso si articola, ma anche presentare il progetto SOStein: 24 aziende, con oltre 40 milioni di bottiglie, intente nella promozione della sostenibilità ecologica della regione Sicilia, la più ampia superficie vitata italiana a conduzione biologica.

Da Palermo a Milano

Un secondo incontro con questo vitigno si è avuto, poi, a Milano, in quello che potrebbe definirsi il tempio Art Déco della gastronomia milanese: il ristorante Cracco in Galleria. Qui, al fine di evidenziare lo stretto legame del vitigno con il territorio, i sette campioni sono stati serviti alla cieca, con la sola indicazione dell’annata e della provincia di provenienza. Il tutto declinato in un abbinamento coraggioso, con il menù interamente vegetariano proposto da Carlo Cracco. Ebbene, il vegetale non ne ha risentito affatto e la proposta è stata convincente; a ulteriore dimostrazione della grande versatilità di questo vino.

Le caratteristiche del Nero d’Avola

In occasione del grande evento tenutosi a Palermo sono stati circa cinquanta i Neri d’Avola portati in degustazione. Una raccolta imponente a rappresentanza delle annate più giovani disponibili sul mercato, che ha dunque permesso di conoscere i diversi stili approntati dalla singola cantina e, con uno sguardo più ampio, le macro-differenze dovute alle rispettive zone di coltivazione.  

Vitigno a bacca nera tra i più diffusi in Sicilia, se i territori della tradizione erano rappresentati da Pachino e Vittoria, dalla fine del 1800 si diffonderà in tutte le province siciliane, fino a diventarne l’indiscusso protagonista. Del resto i suoi non sono pregi da poco conto. È un vitigno con una buona capacità di accumulare gli zuccheri, senza che questa caratteristica vada ad inficiare sull’acidità complessiva, che risulta sempre elevata. Alla vista si presenta dunque carico di colore, ma in bocca non è mai stucchevole grazie all’acidità, prevalentemente tartarica, che fa ordine sul palato riequilibrando la componente alcolica e la tannicità, ben presente ma mai troppo aggressiva. Al naso spiccano gli aromi primari, con costante percezione di ciliegia, fragola e violetta, ma anche di note vegetali e speziate.

Le macro aree enologiche

Il profilo organolettico del Nero d’Avola cambia nettamente a seconda del clima e del suolo sul quale insiste. I polifenoli risultano infatti maggiori al diminuire dell’acqua e all’aumentare dell’esposizione solare, mentre le componenti aromatiche variano a seconda del suolo. Sui terreni argillosi profondi, che in estate permettono di accumulare buone riserve idriche, i vini risultano più freschi, sapidi e leggermente amaricanti. Sui terreni limoso-sabbiosi, ricchi di scheletro, non molto profondi e tendenzialmente siccitosi, il profilo aromatico si fa più complesso, spostandosi verso sentori speziati e di frutta secca.

Illustrati in maniera puntuale dall’enologa Lorenza Scianna, di seguito la panoramica dei diversi territori.

Cinque vini che ci sono piaciuti

Palermo

Donnafugata – Sherazade 2020

Da vigneti coltivati tra Palermo e Marsala, su suoli argillo-calcarei, nasce il Sherazade. Un vino dal colore brillante, dove accanto al netto sentore di ciliegia emergono subito le note speziate del pepe nero e più delicati accenni balsamici. In bocca il tannino è suadente e il nettare scivola via in una piacevole carezza al palato, vellutata e fresca.

Caltanissetta

Duca di Salaparuta – Passo delle Mule 2019

Il terreno a composizione mista calcareo-silicea dà vita a un vino intenso e dalla piacevole sapidità. Al naso protagonisti sono i frutti, con marasca in primo piano e qualche spezia a contorno; al palato il vino dimostra tutta la sua bevibilità nonostante il grado alcolico elevato.

Agrigento

Planeta – Plumbago 2019

Nato da appezzamenti diversi, con scheletro abbondante a Ulmo e mediamente calcareo a Dispensa, il Plumbago rappresenta l’immediatezza del frutto. Al naso si palesano subito prugne mature, more e datteri, integrate da un corollario a base di cacao. Al palato è morbido, con tannini ben integrati.

Cantine Settesoli – Mandrarossa Cartagho 2018

Dai suoli calcarei e sabbiosi di Menfi, a breve distanza dal mare, prende vita questo vino di grande eleganza. Alla marasca si affianca la nota resinosa del pino, mentre in lontananza si palesano richiami mentolati e balsamici. Al palato emerge una piacevole mineralità, che ben stempera la rotondità generale dell’assaggio.

Trapani

Baglio oro – Ceppineri 2016

Ci spostiamo a Marsala, su terreni di medio impasto tendenzialmente argillosi. Con qualche anno in più di affinamento sulle spalle, questo vino mostra tutto il carattere del vitigno. Al naso spiccano note salmastre e fumé, tabacco e frutti che diventano piccoli e dai sentori più scuri, come il ribes nero. Una viva freschezza rimette al suo posto la generosa morbidezza, il tutto in un piacevolissimo equilibrio, che perdura a lungo sul palato.