Passeggiare per via Veneto evoca ogni volta emozioni particolari. Si sale, leggermente, ed il battito cardiaco aumenta di velocità, un po’ per la salita, un po’ perché ci si rende conto di essere al cospetto di un posto pieno di storie, degne di essere raccontate solo da chi vi ha davvero partecipato. Edifici maestosi, hotel prestigiosi e caffè con verande sui larghi marciapiedi accompagnano la passeggiata. Svoltato l’angolo gli alberi spezzano le luci dei lampioni e d’un tratto ci si trova sotto l’Hotel Eden. Costruito nel 1889, fratello dell’hotel Hassler, mette un senso di leggera inquietudine di primo acchito, per via delle sue dimensioni smisurate. Poi, una volta saliti in terrazza, un aperitivo con piano bar placherà gli animi scossi, e il panorama della città eterna che si espande a perdita d’occhio farà sognare anche il i più arcigni.
In cucina lo chef Fabio Ciervo, allievo di maestri come Michel Roux e Martin Berasategui, coordina e dirige una brigata numerosa con fermezza e rigore nell’unica cucina, anch’essa panoramica, che fa capo a tutti i ristoranti dell’Hotel. La sala, che sarà rimodernata a breve riducendo il numero di coperti del ristorante gourmet La Terrazza, si presenta elegante e sobria, conscia di essere all’ombra del panorama più bello del mondo, che grazie alle vetrate che corrono lungo tutte le pareti è apprezzabile da ogni tavolo.
Essendo all’interno di un Hotel storico, il servizio si presenta classico, impostato, attento e cortese. Nonostante la chiara impostazione internazionale del locale, la carta dei vini, che ci si aspetterebbe ricca dei grandi nomi italiani e francesi e di etichette di ricerca, risulta piuttosto carente e deludente proprio sotto questi aspetti.
Nessuna sorpresa invece dal menù che lo chef ha plasmato, ricorrendo a grandi classici, senza ovviamente lesinare sull’utilizzo di materie prime così dette “elitarie”. Foie gras, astice e caviale si rendono i protagonisti di piatti preparati con una tecnica sopraffina, dal chiaro orientamento francese. L’aver lavorato in alcuni tristellati sparsi per l’Europa consente al cuoco di padroneggiare tutte le tecniche di lavorazione da associare ai vari prodotti, spingendosi verso una ricerca di perfezione stilistica. Questo perfezionismo però, nel prosieguo della cena, tenderà a rendere l’esperienza, seppur assolutamente piacevole, particolarmente monotona e uniforme, e l’assenza di piatti più espressivi o creativi si è fatta sentire in maniera evidente.
Il punto più alto della serata è la triglia in crosta mediterranea con patate marinate, tartare di alghe e olive kalamata, che accenna solo timidamente i temi di una maggiore ricerca e cifra stilistica.
Fabio Ciervo dimostra già oggi una solidità invidiabile, ma la sua cucina forse è a un bivio: per intraprendere una strada ambiziosa che gli potrà aprire le porte dell’alta cucina deve fare un salto di qualità, aprire la mente e ragionare da grande cuoco, non solo da irreprensibile professionista. Con maggiore personalità e meno rigidità anche l’Hotel Eden diventerà, ne siamo certi, una tappa obbligatoria per tutti gli appassionati (e incontentabili) gourmet.
La mise en place.
Il pane fatto in casa.
La schiacciatina.
I grissini.
Uovo di quaglia, tartare e caviale. Buon inizio.
Capesanta, acqua d’ ostriche, emulsione di indivia e mela verde. Cottura del bivalve millimetrica ed accostamento con la mela e l’indivia delicato e raffinato.
Fegato d’oca con chutney di mela annurca, sauternes e zafferano. L’immancabile foie gras, declinato in maniera tanto corretta quanto scolastica. Presentazione forse un po’ demodé.
Raviolini del plin ripieni di baccalà, pecorino siciliano DOP e radicchio rosso di treviso. Un bel passaggio, dosato, tecnicamente perfetto. Nulla da dire.
Triglia in crosta mediterranea con patate marinate, tartare di alghe marine e olive Kalamata.
Petto d’anatra challandais con la sua coscia confit, indivia caramellata, kumquat siciliano e salsa di Chartreuse. Piatto leggermente squilibrato a favore del sentore di agrumi presente nel fondo.
Duetto di granita citronella e gin.
Crema di limone amalfitano. Qui viene fuori il carattere campano dello chef. Buon pre dessert.
Tiramisù croccante in chiave moderna con crema al Baileys, spugna e ganache al caffè, gelato al Baileys.
La piccola pasticceria.
Una delle splendide sale dell’Hotel.
La vista su Roma.
Sulle capacità imprenditoriali dello chef-talent scout Antonello Colonna sembra superfluo tornare, avendone egli dato prova nel corso degli anni in diverse occasioni.
Con l’apertura tre anni fa del Vallefredda Resort, l’abile imprenditore ha lasciato il campo al visionario esteta determinato a realizzare i propri sogni.
Sì, perché non ad altro che alla realizzazione di un sogno si può attribuire la creazione dal nulla di questa vera e propria cattedrale nel deserto.
Pensandoci bene il termine cattedrale non sembra forse quello più idoneo a rendere l’idea della struttura concepita e realizzata tre anni fa in località Vallefredda, parte di Labico, borgo natio dello chef; mai costruzione è sembrata, infatti, in più perfetta simbiosi con la natura dando l’impressione all’avventore che arriva qui di sorgere, ergendosi, da essa e non di essere edificata su essa.
Non siamo esperti di architettura ma la bellezza e il fascino che si respirano in questo Resort, in piena armonia con l’ambiente circostante, trasmettono di default piacevolezza e sensazioni positive.
Gli spazi, la luce, il vetro, i particolari dell’arredamento cui non sono estranei nomi come Le Corbusier e Cassina, le opere esposte nelle ampie sale, le numerose facilities a disposizione dei clienti dell’albergo, sono la manifestazione della volontà dello chef di creare qualcosa che soddisfacesse in primis il desiderio di vedere le proprie aspettative di cliente esaudite.
Così un’atmosfera che più easy non si può, l’assoluta elasticità riguardante gli orari per fare colazione, pranzo e cena, il silenzio di una piccola oasi incontaminata, sono il degno corollario di un progetto profondamente sentito.
Non poteva mancare in tale disegno la parte dedicata al core business dell’imprenditore Antonello Colonna e cioè un ristorante di livello adeguato.
La cucina, affidata a uno staff giovane e volenteroso è chiaramente ispirata allo stile che da decenni caratterizza lo chef e cioè un utilizzo di ingredienti di pregio e rigorosamente selezionati, per lo più a km zero, ancorati a ricette piuttosto tradizionali, spesso dalla pronunciata territorialità, che danno luogo a piatti dall’enunciato essenziale eseguiti con grande professionalità.
La versione proposta a Vallefredda risulta più lineare rispetto a quella della porta rossa di labicana memoria o alla magnifica vetrina romana all’interno del palazzo delle esposizioni, tavole con cui non è possibile non fare un confronto diretto.
La linearità cui si fa riferimento è da ascriversi in questo caso, però, alla limitata presenza di suggestioni e guizzi degni di nota, in grado di dare un più persistente rilievo alle pietanze.
Si oscilla tra impeccabili e golosi piatti, come il lombo di agnello affumicato e animelle o l’ennesima variazione di maialino croccante, ad altri dalla genuinità un pò scolastica, come i ravioli di cannellone e la vignarola di coniglio.
La sosta trascorre comunque lieta, e il livello attuale della cucina sembra poter essere considerata una fase transitoria verso le potenzialità di cui è dotato un resort concepito con tale cura e prodigalità di idee.
Amuse bouche: pollo e… pannocchia. Pollo fritto nel glucosio.
Baccalà mantecato. Baccalà mantecato, filo d’olio, vellutata di patate e bottarga di tonno.
Lombo di agnello affumicato. Cotto a bassa temperatura e affumicato, al centro animelle brasate, riduzione di porto.
Gnocchi di patate alla cenere, sfilacci di coniglio e cipollotto. All’interno gnocco impastato con cenere di cipolla.
Ravioli di cannellone. Ravioli ripieni del ripieno del cannellone, pomodoro e parmigiano.
Vignarola di coniglio, crema di pistacchi, zucchine e piselli.
Maialino croccante con verdure.
Biscotto ghiacciato con cioccolato bianco e pistacchio, mousse ai canditi, salsa di lampone.
Marchesa al cioccolato, crumble di mandorle e susine.
Soufflée alla nocciola e salsa di cioccolato.
Petit four.
Sempre grande Dagueneau.
Particolare sala da pranzo.
Sala.
Vista giardino.
Reception.
Francesco Apreda rappresenta una delle poche e solide certezze gastronomiche del panorama attuale della capitale.
E’ uno chef mai banale, data la sua incredibile curiosità e voglia di ricerca che lo ha portato ad approfondire diverse culture culinarie, soprattutto dell’Estremo e Medio Oriente, con cui ha avuto molti contatti nel suo incessante peregrinare. Le ha approfondite queste culture fino a padroneggiarle completamente, fondendo felicemente queste esperienze con la sua anima fortemente mediterranea in un blend unico di sapori, profumi e consistenze.
Il termine fusion, che può destare facilmente perplessità per un suo ricorrente utilizzo atto a dissimulare idee approssimate e confuse, assume qui un senso compiuto.
La sicurezza dello chef traspare anche dalla messa a punto di tecniche e accorgimenti che danno vitalità e sostanza alla sua cucina originale e davvero stimolante.
Un esempio è un piatto come lo spaghettoro al pomodoro e basilico, quasi spiazzante in una tavola del genere, sintomatico della capacità di dare sfumature diverse a ciò che appare, a prima vista, decisamente scontato. Ma la scelta dello chef è quella di esaltare il concetto di rivisitazione aggiungendo valore all’originale, non sottraendone.
Ecco allora un pomodoro San Marzano, che, frullato con aglio e aceto e successivamente filtrato, fornisce l’acqua in cui viene cotta la pasta che ne assorbe tutta l’acidità. A completare il quadro varie consistenze di diversi tipi di pomodoro che conferiscono notevole vivacità al piatto nonché una concentrazione persistente e significativa.
Sulla stessa linea concettuale si pongono i diversi modi di veicolare l’umami nei tagliolini alla seppia: nelle interiora del cefalopode mantecato col suo fegato, negli spinaci frullati con alga kombu e nell’alga nori di cui è fatta la pasta. Una serie di glutammati naturali che conferiscono sapore e leggerezza al tempo stesso.
Ogni spezia è impiegata con encomiabile accortezza, vero strumento per completare ed esaltare una pietanza, come nello splendido risotto dove una carezza soavemente piccante accompagna l’astice in modo ammirevole.
Più in generale, ogni portata è espressione di una sintesi riuscita tra grande padronanza dei fondamentali e la complementare, cosmopolita passione dello chef per le scuole gastronomiche che hanno forgiato la sua esperienza professionale: in primis il Giappone, con il suo rigore e il suo equilibrio, e l’India con ingredienti e spezie delle sue millanta cucine regionali.
Il tutto in una sala dai cui tavoli vicini alle vetrate si gode una vista spettacolare sulla città eterna e in cui il servizio, adeguato al livello del ristorante e dell’albergo che lo ospita, è piacevolmente privo di quelle ingessature formali che potrebbero facilmente alterarne la scioltezza.
Uova di quaglia in tempura su crema di peperoncino agrodolce, soia e polvere di lime, cannoli di riso con baccalà, polvere di pomodori e capperi e patè di olive nere e crema di maionese, frittelle di fiori di zucca e bianchetti polvere di curry.
Bruschetta di pane di Lariano, guacamole, pomodori, aglio nero, carpaccio di ricciola, olio extravergine liofilizzato, portulaca.
Selezione di pani. In evidenza il croissant al finocchio, i grissini alle noci con sesamo e la burrata con paprika dolce.
Gelatina di alga Kombu, mousse di melone, crumble di taralli, peperoni allo cherry. Felice rivisitazione del prosciutto e melone.
Terrina di foie con pistacchi e ciliegie al maraschino, betel nut (noce gommosa indiana dalle mille virtù) e galgant (spezia acida simile allo zenzero).
Fluida di pomodoro con mozzarella, verdure in ceviche, patata viola peruviana, caviale. Piatto più leggero di quanto lascerebbe presagire la presenza della mozzarella. Caviale superfluo.
Tris di tartare: gobbetti su pane all’olio, scampi con carote, gamberi rossi con taccole e fresella alla soia, rinfrescante cetriolo aromatizzato al lime e pepe a mò di zenzero giapponese tra una tartare e l’altra.
Tagliolini all’umami di seppia alla piastra, semi di finocchio selvatico e purea di spinaci
Spaghetto Verrigni, purea di pomodoro confit di tre pomodori diversi, polvere della buccia, pomini essiccati, parmigiano fluido.
Risotto all’astice cotto in infuso di verbena e blend di spezie Mombay dolcemente piccante.
Ravioli al vapore con coniglio e olive, asparagi e ricotta al rosmarino
Triglia, tartufi di mare, carbone di melanzana, spugne al prezzemolo e purea di ceci.
Vitello in casseruola al fieno, anguria piastrata, finferli e bianchetti.
Secreto (costato) di maiale, mango, miele di eucalipto, parmigianina di patate, pepe verde.
“Ciliegie” con sherry e mollica di pistacchio.
Yogurth con cioccolato bianco, frutti di bosco, crumble e caramello.
Luna (sfera di zucchero soffiato) con spuma di cheesecake al lemongrass, frutti di bosco, cupole di champagne e spumante.
Interno…
Cannoli di mango e albicocca, ghiacciato di cocco, terra chai (ispirata al tè chai fatto con tè darjelling, latte e varie spezie con cardamomo, cannella, zenzero).
Petit fours
Cristal
Dom
Roederer rosé
Interno
Esterno lontananza
Roma…
Era il 2008 quando il bravo Flavio De Maio decise di lasciare la storica insegna di Felice a Testaccio per fondare poco distante, di fianco allo splendido Monte dei Cocci la sua osteria: Flavio al Velavevodetto.
E mai scelta fu più felice, visto il successo che da subito la sua nuova creatura registrò, fino a diventare oggi un indirizzo da tutti ritenuto imperdibile per gustare una grande cucina romana dura e pura, senza troppi orpelli.
Poi, nel 2012, Flavio raddoppia e nel borghesissimo quartiere Prati nasce il Velavevodetto ai Quiriti che, manco a farlo apposta, è in breve tempo diventato anch’esso un locale di grande successo.
Abbiamo deciso, per una volta, di visitare le due realtà gemelle, per verificare se entrambe sanno offrire la stessa qualità. Il risultato non è affatto scontato, perché se il locale di Testaccio si merita le 2 cipolle, quello del quartiere Prati ne raggiunge a malapena una.
Entrando nei particolari delle due esperienze iniziamo da qualche considerazione di carattere “ambientale”.
La sede di Testaccio ha l’atmosfera tipica dell’osteria romanesca e, quindi, accoglienza a tratti sbrigativa, servizio veloce, mise en place essenziale. Tipicamente romano anche lo spazio esterno che qui è oltremodo gradevole. Ovviamente di carta dei vini manco a parlarne, ci si alza e si fa un giro all’interno dove si sceglie la bottiglia da una mensola adibita a cantina, ma per fortuna quanto meno ogni bottiglia ha indicato bene in evidenza il prezzo.
Un po’ più (ma mai troppo) di tono l’ambientazione da Velavevodetto ai Quiriti, dove vi accoglierà con una calorosa stretta di mano niente di meno che Michele Nusdeo, quello del Glen Grant, sì proprio lui, “l’intenditore” del noto spot pubblicitario di qualche anno fa. Ovviamente qui la carta dei vini c’è, ma lo spazio esterno, sul marciapiede, è assai meno bello.
La cucina? Anzi, le cucine? Iniziamo dai due piatti da non perdere, uno per sede.
A Testaccio grandissima la Matriciana, limitandoci alle osterie la migliore mangiata a Roma, equilibratissima, piena di gusto.
Ai Quiriti da non perdere il Tonnarello Cacio e Pepe che, per noi, vince la palma del migliore della città (sempre per quanto riguarda le osterie ovviamente) a pari merito con quello di Felice a Testaccio anche se molto diverso. Più pastorale quello di Felice, più morbido questo del Velavevodetto, perfettamente mantecato, non si corre il classico rischio di una forchettata che sa di pepe e la successiva in cui si sente solo il pecorino. Eccellente.
Nel complesso, comunque, abbiamo preferito abbastanza nettamente la cucina della sede di Testaccio.
Da Velavevodetto ai Quiriti, a parte la Cacio e Pepe da oscar e delle fantastiche polpette di bollito (da premio anch’esse) non tutto ci ha convinto appieno. In particolare, tra l’altro, abbiamo trovato la Carbonara poco equilibrata dominata dal gusto di bruciaticcio del guanciale e una matriciana alquanto scarica di sapore.
Diverso il discorso a Testaccio dove nessun piatto ha deluso e dal Supplì di coda al Tonnarello Cacio e Pepe, dalle Polpette al sugo ai Fiori di zucca ripieni e fritti tutto è davvero ottimo.
Insomma, oggi, Flavio al Velavevodetto a Testaccio insieme ad Armando al Pantheon e a Cesare al Casaletto è proprio l’osteria romana che piace a noi.
Ad Majora.
Supplì di coda della sede al Testaccio
Cacio e pepe della sede al Testaccio.
Cacio e pepe fantastici della sede ai Quiriti.
La Carbonara da rivedere della sede ai Quiriti.
Ravioli alla Velavevodetto, sede al Testaccio.
Fantastica la matriciana della sede al Testaccio…
…e la sua versione “deludente” della sede ai Quiriti.
Polpette al sugo (Testaccio).
Se nel segmento della ristorazione “alta” Roma ha visto, nell’ultimo lustro, un discreto numero di locali aggiungersi di anno in anno al panorama cittadino, dobbiamo invece constatare come nell’Urbe i grandi nomi della pizza siano più o meno gli stessi da parecchio tempo.
Non che i soliti noti ci abbiano stancato, ma certo ci piacerebbe che nuovi pizzaioli andassero ad allargare il campo delle alternative.
Giancarlo Casa è, ormai, dalla fine dello scorso millennio, uno dei nomi di riferimento della scena della Capitale, e La Gatta Mangiona è il suo quartier generale.
Dimenticate covi gourmet di nuova generazione, minimalismi ed interni di casearia definizione cromatica: l’ambiente è quello di una qualunque pizzeria, sovraffollato di tavoli e di gente e gonfio dello strepito delle tavolate. Dobbiamo però precisare che, malgrado l’affollamento, la gestione dei forni ha del miracoloso se è vero che le attese, con la cortese collaborazione degli imperdibili fritti, fra i migliori di Roma, e di una carta dei vini di insolito interesse per una pizzeria, difficilmente varcano la soglia del fastidio.
La carta, chilometrica, contempla tanto un gran numero di pizze, antipasti, primi e sfizi quanto una selezione non così minima di alternative per chi non desidera lanciarsi a pesce sul carboidrato: oltre ad essa è però di fondamentale importanza, prima di ordinare, dare un’occhiata alla lavagna delle pizze e dei fritti del giorno, giacché qualche bella sorpresa è sempre in agguato, come la buona pizza Aromatica (in apertura).
Lo stile della pizza non è napoletano, e non è in fondo neppure romano: il cornicione è in equilibrio fra sofficità e croccantezza, ben lievitato e con una leggera tendenza alla biscottatura che penalizza gli esemplari meno riusciti in cottura. Pregevoli le materie prime utilizzate, non assolute ma in assoluta compatibilità con la richiesta di circa dieci euro per una pizza, certamente giustificati per il livello dell’impasto e degli ingredienti.
Due esemplari dei fritti (ma sarà meglio abbondare, in particolare con i supplì): fiore di zucca fritto e calzoncello con caciocavallo, peperoni e capperi.
Patate e pancetta al pepe nero con fiordilatte.
Fiori.
Margherita. Di cottura poco felice.
Crema al Mascarpone con passito di Pantelleria ed amaretti.
Dalla cantina.