Patissêrie des rêves: letteralmente, pasticceria dei sogni.
E’ questo il nome di questa importante apertura, una tra le prime (il primo in assoluto, in vantaggio di un paio di mesi, è stato Pascal Caffet) di un grande pasticcere francese sul suolo italico. E se per molti questo è soltanto il suadente nome di un’insegna francofona, per gli appassionati e addetti è una notizia sensazionale, in quanto dietro questo nome si cela uno dei più grandi pasticceri moderni della Ville Lumière: Philippe Conticini, insieme al suo socio Thierry Teyssier.
Quel Conticini -giusto per dare un ordine di grandezza- inventore dello studio e della presentazione dei dessert in verrines, quindi in bicchiere anziché come da sempre in piatto: il papà, insomma, della verticalizzazione del dessert.
Complice anche il tanto rumore di Expo, quest’apertura è avvenuta praticamente in sordina; e così, ancora un po’ intontiti dai cambiamenti portati dai sei mesi di esposizione universale, ecco ai primi di dicembre l’inaugurazione di questa nuova pasticceria milanese, la decima della galassia “…des rêves” dopo 6 punti vendita a Parigi, due a Londra e uno a Kyoto.
Due vetrine affacciate su corso Magenta, praticamente a ridosso di Via Meravigli, attraverso le quali è ben visibile, come fosse una teca in gioielleria, l’espositore delle torte e delle monoporzioni sotto campane in vetro refrigerate, marchio di fabbrica di Conticini: quest’isola illuminata, insieme alle tende da sole rosa sgargianti, attira non pochi dei curiosi sguardi di passaggio.
Una volta entrati, l’ambiente è molto simile ad una fiaba, non solo per la colorazione bianca/rosa degli arredi, ma anche grazie alla quantità di meraviglie in vendita. All’ingresso vi accoglierà il banco in vetro, per un caffè in piedi o l’asporto, con esposta la pasticceria (composta prettamente da choux e biscotti ai vari gusti) e la viennoiserie classica: croissant, pain au chocolat, kouign amann, madeleine, chausson, financier…
Proseguendo verso l’interno, oltre agli espositori di cioccolatini, biscotti e dolcezze varie, la vetrina continua con le proposte salate: quiche, sandwiches, tartine e panini, tutto disponibile in formato “finger” da assaggio, o più grande da pranzo. Tutto il comparto salato è sviluppato e realizzato con la consulenza di Brendan Becht, chef patron di Zazà Ramen in via Solferino.
Sul retro invece un piccolo spazio con una manciata di tavolini, per un totale di una ventina di coperti stretti, permette la degustazione in loco. E’ questo l’angolo di paradiso regno delle monoporzioni, veri e propri piccoli gioielli di pasticceria, dal livello nemmeno troppo distante da quello della casa madre parigina e, chiaramente, disponibili anche da asporto. Buona la Saint Honoré, molto buona la millefoglie, sublimi la Tarte au Citron e la Paris Brest, davvero di alto livello. Buona anche la viennoiserie, anche se più ordinaria rispetto alla pasticceria. Disponibile infine, anche servito al tavolo, qualche piatto salato.
Complice l’apertura sette su sette, da mattina a sera con orario continuato, questo spazio si rileva estremamente versatile per colazione, pranzo, uno spuntino veloce, una merenda, un aperitivo, tutto quando preferite. Prezzi mediamente corretti, vista anche l’alta qualità espressa.
Insomma, nessuna scusa: indirizzo imperdibile, a Parigi come a Londra… ora anche a Milano.
La saletta, con vista sul cortile interno e sul laboratorio.
Croissant, tradizionale (con intruso, un biscotto al cioccolato) e alla crema. Buoni, non fanno gridare al miracolo ma comunque si elevano e svettano nella dozzinale offerta media “da bar” italiana. Considerando poi che il croissant tradizionale è prezzato 1,30€, meno di molti prodotti malamente decongelati…
L’interno dei croissant. Notevole la lievitazione e la farcitura.
La Tartine petit déjeuner. Pan Brioche, burro francese e marmellata. Grandissime le marmellate, all’albicocca e all’amarena.
Una tradizionale Quiche lorraine (piccola) con pancetta, uovo ed emmental.
Le monoporzioni. Ottima la Tarte citron, perfettamente bilanciata…
…sublime la Paris Brest, una piccola meraviglia…
…e “solo” buona la millefoglie, a cui mancano una punta di acidità e dolcezza nella crema, fin troppo neutra, per essere eccellente. Sfogliatura e caramellizzazione della sfoglia invece perfette.
Molto curato anche l’asporto. Mini sandwiches…
…e monoporzioni, tenute ferme da una miriade di piccole linguette in plastica, che riprendono la forma del logo della pasticceria.
Non c’è probabilmente altra città europea, al momento, in cui trovare una tale varietà e qualità di cibo giapponese: negli ultimi anni Parigi, insieme a Londra, ha visto fiorire un impressionante numero di pasticcerie e tavole dedicate alla gastronomia del Sol levante.
Il sushi, senza dubbio una delle preparazioni giapponesi da esportazione di maggior successo nel mondo, non fa eccezione: sono almeno tre i grandi indirizzi parigini da non mancare.
Tra questi c’è certamente Jin: Takuya Watanabe, sushi master e proprietario di questo locale, ha creato un vero gioiellino che, dal cuore del lusso parigino, catapulta il cliente per un paio di ore in un sushi bar di Tokyo.
Un bel locale, pensato dell’architetto Jun Yonekawa, in stile giapponese con qualche piccola contaminazione occidentale: quindi è d’obbligo il grande bancone in legno dove prendere posto e godere delle preparazioni di Watanabe e del suo aiutante.
Il livello del sushi è veramente alto, non troppo distante da un locale medio-alto della capitale giapponese.
Grandissima qualità del pescato, quasi esclusivamente di origine europea.
Riso (giapponese) ricco di aceto quindi dalla forte spinta acida, chicchi ben sgranati, utilizzo spericolato del wasabi in alcune portate.
Qualche divagazione (ad esempio l’utilizzo del caviale) sempre e comunque molto convincente, sapiente uso delle marinature: il fegato di rana pescatrice è una portata che non dimenticheremo facilmente.
Sul perché nessuno decida di aprire un locale di questa qualità in Italia è domanda a cui non riusciamo a dare una spiegazione. In una città come Milano, ad esempio, troverebbe senza dubbio terreno fertile anche a questi prezzi (certamente non popolari).
Stiamo ad aspettare, fiduciosi… nel frattempo non possiamo che invidiare i cugini transalpini.
Astice, cavolfiore, aceto.
Tonno (o-toro) con caviale: un boccone da imperatore.
Sashimi di branzino, sale, wasabi.
Tonno (akami), soia e daikon.
Fegato di rana pescatrice, peperoncino, salsa ponzu.
Rombo.
Cappasanta.
Scampo con corallo.
Seppia.
Orata.
Ricciola.
Sugarello.
Sgombro.
Tonno rosso (akami).
Salmone.
Maki di tonno.
Tonno (chu-toro).
Uova di salmone.
Brodo all’astice.
Pere e mascarpone.
Abbiamo pensato di mettere insieme un po’ di materiale della nostra ultima trasferta parigina: consigli, suggestioni, opinioni, ovviamente legate al mondo del cibo.
Per uno spuntino veloce ma di qualità, o per portarvi un pezzo di Parigi a casa stipando la vostra valigia al massimo possibile.
Voilà…
La Galerie- Plaza Athénée
Se avete voglia di immergervi un paio d’ore nel lusso di Avenue Mointagne, adagiati su comodi divanetti e allietati dal suono celestiale di un’arpa, le déjeneur al “La Galerie” dell’Hotel Plaza Athénée potrebbe fare al caso vostro.
Questo è il regno di Alain Ducasse e del pluripremiato pasticcere Christophe Michalak: oltre alle ottime proposte salate, avrete infatti anche la possibilità di ordinare i dessert al piatto di uno dei Pastry Chef più bravi di Parigi (quindi del mondo).
Inutile dire che tutto ha un costo, ma, tra un buonissimo té Grand Oolong e un eccezionale Club Sandwich all’astice (questo davvero difficilmente perfettibile), non avrete grossi rimpianti al momento del conto.
Croque Monsieur.
Club Sandwich tradizionale.
Club Sandwich all’astice.
Christophe Michalak: Millefoglie caramellizzata, crema leggera alle tre vaniglie (Tahiti, Madagascar e Messico).
Cafè Stern
Da settembre 2014 c’è un piccolo pezzo di Italia al 47 di Passage des Panoramas: i fratelli Alajmo, assieme all’ormai mitico Gianni Frasi della Torrefazione Giamaica di Verona e David Lanher (proprietario di Racines), hanno infatti ridato vita a questo storico atelier d’incisione. Il lavoro di ristrutturazione è stato affidato a due colossi (Dominique Averland e Philippe Starck) e il risultato non poteva che essere grandioso. Veramente bellissimo questo “caffè all’italiana”, pieno di fascino e storia.
Ai fornelli c’è Sergio Preziosa, e questo potrebbe già essere un buon motivo per fermarsi a pranzo o a cena.
La nostra però è stata solo una sosta veloce per goderci un sorso d’Italia grazie a un caffè a regola d’arte.
Da riprovare con più calma.
Pastificio Passerini
Non potevamo non passare a salutare uno degli chef italiani più apprezzati sulla scena parigina: in attesa dell’apertura del suo nuovo ristorante (prevista in primavera), Giovanni Passerini diverte e si diverte con uno dei grandi classici della cucina italiana, la pasta ripiena.
Vi regaliamo qualche immagine del cantiere e del nuovo pastificio.
Du pain et des idées
Il primo consiglio degli acquisti è legato a questo fantastico panificio al 34 di Rue Yves Toudic. Impossibile resistere al meraviglioso banco: buonissimo il pane all’uvetta e noci, eccezionale il pain des amis, ma è la crosta del pane tradizionale che vi conquisterà definitivamente.
Fromagerie Griffon
E, assieme a un buon pezzo di pane, cosa c’è di meglio di un grande formaggio?
Questo è davvero il paradiso per gli amanti del genere, una bellissima selezione di formaggi affinati in proprio, un vortice di profumi stordente.
Fate la vostra scelta e poi fate mettere tutto sotto vuoto: azzeramento degli odori garantito, così come è garantito il godimento quando li mangerete a casa.
La Famiglia Rebellato
Buonissima pizza a due passi dalle Halles, grazie al lavoro di Gennaro Nasti. Sala confortevole o asporto, per gustare un impasto leggerissimo in versione classica o con condimenti più elaborati, comunque con materia prima di qualità.
Dersou
Il posto più alla moda della Ville Lumière di questi tempi. Chef giapponese, Tafu Sekine, che propone cucina fusion asiatica, con il suo socio francese Amaury Guyot, grande mixologist. Uno spasso, in cui trovare posto è impresa ardua. Passateci il sabato alle 12, perché per il pranzo non accettano prenotazioni e potreste trovare due sgabelli al bancone, il posto migliore.
Boutique Yam’Tcha
Nella vecchia sede del ristorante Adeline Grattard ha lasciato suo marito, che gestisce questa deliziosa sala da tè cinese. Infusioni magnifiche accompagnate da eterei bun salati e dolci e da qualche piatto del giorno (eccellenti i ravioli). Una sosta veramente piacevole in un contesto di rara, semplice eleganza.
“Il Maestro: conoscitore profondo di una disciplina, che egli possiede integralmente e che può insegnare agli altri nella maniera più proficua” (Enciclopedia Treccani)
Quindi non solo la conosce, ma la possiede, se ne appropria, tanto da poterla manipolare a piacimento e addomesticare per dare forma al proprio pensiero.
Come altro definire Pierre Gagnaire?
Come incasellare la sua cucina, così personale, così fuori dagli schemi, così grandiosa?
Uno stile unico, che segue il solco segnato più di 30 anni fa, rinnovandosi di continuo.
La tavolozza degli ingredienti è il mondo, la mano sicura: il solo utilizzo delle spezie richiederebbe approfondimenti di pagine e pagine.
Una cucina che richiede umiltà, sia da parte del cuciniere, disposto a prendersi i suoi rischi, sia (e soprattutto, diremmo) da parte del cliente che, inevitabilmente spogliato delle sue tante sicurezze, deve accettare con palato vergine, quindi senza preconcetti, di mettersi nella mani del suo intrattenitore.
Qui, come in pochi altri posti, questa condizione d’animo è essenziale per cercare di approfondire una esperienza che altrimenti risulterebbe caotica, a volte sgraziata, spesso confusa.
Il rischio è parte integrante di questa cucina e gli regala spessore e vitalità.
Trovare il giusto equilibrio o, ancora meglio, il giusto ritmo: a questo mira Gagnaire, ma lo fa in un modo assolutamente sconvolgente, procedendo per giustapposizioni e non necessariamente per contrasti.
Perché l’obiettivo primario resta il gusto, l’appagamento del cliente.
Ecco allora che decine di ingredienti nei piatti trovano sempre un filo rosso che li tiene insieme: non si può ragionare solo di eleganza, finezza o estrazioni di sapori, logica che regna sovrana in questi anni 2000 ma che spesso può trovare compimento solo in cucine minimali caratterizzate da quattro, cinque ingredienti al massimo. Gagnaire deve necessariamente fare in modo che i suoi ingredienti sussurrino per evitare il caos, fa pensare quasi a una “intonazione” dell’ingrediente, una registrazione del “timbro” per trovare il giusto suono.
Quindi niente scontri radicali ma stratificazioni leggere che portano a un risultato tanto classico quanto moderno. Sarebbe impossibile definire l’età di questo cuoco solo degustando la sua cucina: un giovinetto con l’esperienza di un 65enne.
Impiattamenti volutamente dal tratto grosso, quasi rustici a volte, certamente istintivi.
Come riescano a gestire una proposta alla carta come questa e un menù degustazione completamente diverso, in una cucina di poco più di 30 metri quadri, rimane un mistero, ma lascia immaginare una disciplina e una precisione del gesto maniacale.
Cucina quindi inclassificabile, che entusiasma con grande facilità: in evoluzione continua, in movimento e mutamento e per questo difficilmente inquadrabile in un voto che, per sua natura, è statico e fotografa un momento.
Troverete una personalità strabordante che, con generosità assoluta, mette tutto sé stesso nei piatti che propone e che modifica di continuo.
Seguito da una squadra che, in sala e cucina, fa i salti mortali.
In particolare, un servizio di sala di livello assoluto: molte delle preparazioni vengono rifinite al tavolo (e non potrebbe essere altrimenti vista appunto l’esigua dimensione della cucina).
Grandi professionisti: dal Direttore Herve Parmentier, al maitre Elimane Kane fino allo Chef sommelier Patrick Borras. Forse un unico appunto va mosso per un locale di questo livello: l’eccessiva “fretta” iniziale nel chiedere le ordinazioni, probabilmente dettata dalle necessità dell’esigua cucina, ma non giustificabili in un locale come questo.
Abbiamo poi avuto il piacere di essere serviti da Gianluca Modafferi, italiano, arrivato a Parigi senza nemmeno conoscere la lingua e ora da 4 anni chez Gagnaire. Una bella storia di un lavoratore serio, nel cui sguardo si vede la passione vera per il proprio lavoro e il desiderio di fare passare una serata unica all’ospite di turno.
Se siete appassionati di questo mondo, se amate davvero i ristoranti, non potete mancare una visita in Rue Balzac 6.
Dal Maestro: Pierre Gagnaire.
La lunga serie di amuse bouche:
Uva ghiacciata ripiena di capperi e salsa di mela.
Tonno e seppia.
Sablè al Parmigiano.
Tapenade, cracker al limone, rapa e ribes.
Nocciola, salsiccia e sfoglia di patata.
Lattuga.
Il pane, perfetto.
E avanti con altri amuse-bouche.
Velllutata di zucca, stilton, mousseline all’olio d’oliva, pompelmo.
Lumache alle ortiche, rutabaga.
Sorbetto al Beaujolais, tamarillo, cavolo.
Caillettes di seppia, txistorra, crema di carciofi, puntarella.
Rouget-Caviar.
Triglia di scoglio bardata di lardo di Colonnata, scottata e poi terminata su un letto di telline all’anice stellato, con brunoise di finocchio ai grani di senape.
Salsa Eriang.
Le preparazioni vengono spesso portate in sala per fare vedere il metodo di cottura e poi sporzionate.
Grasso di petto di maiale laccato, cubi di goyave, polvere d’arancia.
Consommé chiarificato di pesci di scoglio allo champagne, quenelle di caviale osciètre.
Anemoni di mare al nero di seppia, mousse di crauti, cavolfiore al caviale pressato.
Palamos.
Gamberi di Palamos passati qualche istante al forno, seppioline e polpetti all’omiza (schisandra chinensis) e radicchio di Treviso.
Crema ghiacciata di merluzzo al prezzemolo, gelatina al Cava.
Foie gras arrostito, acciughe demi-sel e gernika, tartare di tonno rosso, physalis et tomatillo.
Trippe e kokotchas di merluzzo al tagete, olive nere al peperoncino di Espelette.
Turbot.
Rombo cotto in un burro di vaniglia, citronella e melissa.
Gambero rosso all’ Acquavite di houx, mousseline Ranavalo. (Un’acquavite dal sentore quasi muschiato).
Gratin di cipolle rosse all’ajowan (detta anche erba del vescovo. Si ottiene una spezia dal gusto leggermente amaro e piccante).
Pane bagnato, gelatina di pompelmo al mascarpone, Paris boutons (champignons) aux citrons confits.
Agneau.
Carré di agnello dell’Aveyron all’origano.
Ccrumble Vert : aglio rosa, chorizo, cipollotto.
Animelle, rognone e trippe rivestiti di jus di cottura al vadouvan (mix di spezie), radicchio di Treviso.
Sella in omento, carpaccio di rape rosse, rapa bianca al Roquefort.
Papillons Noirs (pasta di sanguinaccio), datteri medjoul, radicchio di Castelfranco. Condimento Dundee-Peeky.
Veau.
Costoletta di vitello del Limousin profumata alle erbe, curry e carvi (cumino dei prati). Arrostita in casseruola, déglacée al Rhum Angostura.
Indivia, trombette dei morti e mango.
Orecchia croccante, crosne (stachys affininis), bacche di sambuco.
Testa di vitello in un jus all’angostura.
Prugna, scalogno confit, riso nero della piana del Po al caffè.
Il secondo servizio del vitello, con pere e lenticchie.
Piccola pasticceria.
Millefeuille.
Millefoglie croccante, crema all’ Acquavite di houx.
Mandorle e nocciole caramellizate, praline rosa.
Ananas allo zafferano, mousse di frutto della passione al sedano.
Mela reine de reinette confit, coulis di mora.
Cioccolatini finali
I vini scelti dalla ampia carta.
Età complicata, 45 anni, se hai talento. Non più “giovane promessa”, non ancora “venerato maestro” si rischia di finire nella terza e meno fortunata delle categorie arbasiniane.
A meno di non riuscire a essere da subito un classico, avere un’impronta personale salda che si può far evolvere con misura nel tempo restando stabilmente un riferimento.
E’ il caso di Jean-François Piège, da poco al timone di questa sua nuova impresa dietro la Madeleine, una novità che pare già un’istituzione.
Sala piena a ora di pranzo, con uomini d’affari ma anche vecchie coppie benestanti del quartiere e giovani appassionati, un bel mix che testimonia il successo già ottenuto dalla sua proposta, anche per l’attenzione a dare a tutti la giusta offerta: oltre alla carta, un menu déjeuneur a prezzo più che abbordabile, il menù stagionale e quello ancora più esteso, il “signature”, con le sue creazioni di maggior successo.
L’esperienza è davvero appagante, perché la cucina si conferma quella che era già ai tempi del Crillon: pienamente nello spirito del tempo e, nel contempo, di grande scuola, l’impronta di un cuoco attento a quello che succede intorno ma consapevole di una forte identità ancorata a una lunga tradizione. Sin dagli amuse-bouche, si percepisce meticolosa cura di ogni dettaglio estetico e grande attenzione al gusto, la bellezza a tutto tondo che si può ritrovare così piena in poche tavole (la più affine, nella nostra esperienza, quella di Anne-Sophie Pic). Anche se, nel nostro plurimo passaggio, abbiamo riscontrato qualche piccolo appiattimento di gusto e rotondità, con mancanza di concentrazione, che ci ha fatto propendere per la non piena valutazione. Ma che crediamo che stia nelle corde del cuoco che, a così breve tempo dall’apertura, deve ancora rodare macchine e meccanismi e che saprà certo incuriosirci con maggiori slanci di quelli attuali, che comunque abbiamo già intravisto in molti passaggi.
Se le cappesante sobbollite con castagne, acetosella, e succo di clementine, sono un’entrata di grande eleganza, i colpi al cuore arrivano dopo, con le formidabili animelle e, soprattutto, con il merluzzo giallo, capolavoro di modernità: il pesce, cucinato alla perfezione ça va sans dire, si defila dal suo ruolo di protagonista per farsi pura texture e lasciare spazio alle mille sfumature delle verdure fermentate che lo affiancano. L’idea, alla Piège, di un piatto fusion.
Capitolo a parte per i dolci, a cui sovrintende la dolce Nina Métayer, reduce da un’esperienza televisiva, ma soprattutto, con uno di quei bei curriculum che un giovane pasticciere può costruirsi a Parigi (da Alleno, tra le varie tappe). Bellissimi davvero, i dessert, e di grande impatto anche gustativo, a partire dall’amuse-bouche, un “blanc manger coulant” che è un prodigioso mix con l’Île flottante, in cui la tecnica raffinata consente questa formidabile ibridazione. A seguire altre due meraviglie come dessert principali, che declinano con grande creatività i temi della frutta di stagione -il mandarino- l’uno e il cioccolato l’altro, per chiudere con una crema pasticciera al bergamotto che è un trionfo della memoria d’infanzia. Non si capisce bene perché servito in una doppia ciotolina, ma si ringrazia perché se ne potrebbero mangiare di gusto anche quattro, di porzioni.
Servizio pienamente in linea con la proposta di cucina e l’ambiente: professionale e sapiente, ma anche accogliente, simpatico, moderno, contribuisce a rendere questo un passaggio obbligato per il gourmet a Parigi di questi tempi.
L’apparecchiatura
Gli amuse-bouche.
Le cappesante.
Animella, trattata “comme un mijoté moderne” con il suo succo di cottura.
Il merluzzo.
Particolare del meraviglioso pane.
Il blanc manger coulant, prima e dopo.
Meraviglioso mandarino, rosa, pasta di babà e, tocco di genio, sesamo.
Nocciole, latte di mandorla ghiacciato, gelée di limone.
Crema pasticciera al bergamotto.
Chiusura con strizzata d’occhio ad altre sfere passate.
Siamo tornati anche una seconda volta a trovare Piège, questa volta a cena, scegliendo alla carta.
Una conferma ulteriore dello stato di grazia di questa cucina, uno stile ed un modo personale di traghettare la cucina classica francese ai giorni d’oggi.
Una tecnica (les Mijotés Modernes) che è già un grande classico dello chef: cotture lente in crosta o su gusci di noci o ancora su castagne, la tradizione classica trasposta negli anni 2000.
Le portate principali (Poularde e Angus) hanno racchiuso al meglio lo stile Piège: neoclassico, perfezionista, frizzante. Piccoli capolavori dalla cottura commovente.
Certamente LA tavola da non mancare oggi a Parigi.
Patata soffiata croccante, caviale, emulsione di crostacei
Scampi, concentrato di jus e foglie di clementine, acetosa selvaggia, rape.
Cappesante cotte a lungo sulle castagne, sedano al forno, tartufo nero, haddock.
La mia versione del “Gateau de foie blond selon Lucien Tendret”, bagnato da una salsa ai gamberi.
Poularde “la cour d’Armoise”cotta nel riso, salsa al vin jaune, fiore di sedano ripieno di tartufo.
La cottura in crosta di riso.
Un capolavoro: di cottura (carne succosa e morbida), di gusto, di complessità.
Angus cotto a lungo sui marroni grigliati, copertura erbacea, salsa marasca e pepe.
Altro colpo da KO.
La splendida cucina a vista (anche dalla strada).
La sala: il design, di grande effetto, è stato curato dall’architetto islandese Gulla Jonsdottir.
Il soffitto della sala, in vetro e specchi.