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Gallura

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Olbia è la porta d’ingresso di quella celebre enclave in territorio sardo che risponde al nome di Costa Smeralda, luogo in cui il lusso sfrenato è status symbol e la bellezza assoluta della natura circostante il suo degno corollario. Ma orientarsi alla ricerca di indirizzi gastronomici di livello da queste parti non è impresa facile.
Alle meraviglie paesaggistiche, alla sublime qualità delle acque e alle risorse alberghiere che si susseguono in questa piccola porzione di paradiso non fa riscontro, purtroppo, un’altrettanto valida offerta nella ristorazione.
Proprio nel centro di Olbia, però, all’interno di un albergo a tre stelle, il ristorante Gallura rappresenta da decenni un punto di riferimento sia per la popolazione del luogo che per il turista di passaggio.
Il locale, dagli spazi a dir poco limitati, offre l’opportunità di gustare una cucina onesta, classica, semplice e per niente elaborata.
I camerieri, non essendoci un vero e proprio menù, hanno il compito ulteriore di elencare a voce i piatti presenti non disdegnando consigli sulle pietanze del giorno. Tale caratteristica fa il paio con la singolare presenza sulla tavola di amuse-bouche, nel nostro caso due formaggi, che fanno bella mostra di sé ancor prima di accomodarsi.
Altrettanto curiosa la presenza, a centro sala, di un mobile con vari contorni disposti ciascuno nel proprio contenitore, emblema di una modalità d’altri tempi di concepire la ristorazione.
Una volta fatta la scelta del pesce da consumare, opzionandolo da un vassoio opportunamente avvicinato al tavolo, comincia una successione di piatti rassicuranti portati, in verità, con un ritmo un po’ troppo sostenuto.
La materia prima ittica è di ottimo livello, elaborata il giusto e in modo diligente cercando di preservare il gusto attraverso preparazioni comprensibili e il più possibile familiari.
Non è certo il locale dove cercare il vezzo stilistico o l’elegante rifinitura ma l’offerta permette di trascorrere una serata, o parte di essa, vista la speditezza del servizio, in modo abbastanza soddisfacente.
La carta dei vini, incentrata quasi esclusivamente sulla Sardegna, offre l’opportunità di accompagnare il pasto in modo adeguato e con ricarichi abbordabili.

Mise en place con formaggi.
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Ottimo pane carasau.
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Impalpabile primosale con mandorle e olio.
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Non meglio specificato “simil brie” con abbamele (derivato della lavorazione del miele).
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Insalata di seppie e fagiolini.
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Cozze e cannolicchio gratinato.
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Affettuose linguine con arselle e bottarga.
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Zuppa di scorfano.
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Spigola alla vernaccia buona e sincera con tanto di testa servita a parte.
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Sorbetto di mirto.
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Torta di fichi con cioccolato (sic).
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Un signor Vermentino in purezza.
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Sala a fine servizio con il mitico mobile in evidenza.
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Il mio pensiero profondo di questa sera è che quei padri, specie romani, che nei casi meno disperati fino al compimento della maggiore età dei propri figli concludono ogni frase a loro rivolta con “a papà”, dovrebbero essere privati della patria potestà. “Hai mangiato a papà?”, “ti piacciono gli scampi a papà?”, “un po’ d’acqua a papà?”. Purtroppo per la brava Cristina Conte, cheffa de L’altro Baffo di Otranto (il Baffo originale, suo padre Michele, illumina solo l’insegna del locale originario, “Dal Baffo” per l’appunto, passato sotto altre e meno fortunate gestioni), il mio ricordo di questa serata sarà associato ad una famigliola romilanese con tanto di lista della spesa tatuata sulle braccia, diciamo estremamente concentrata sulla monoprole. Purtroppo dicevo, ma non incolpevolmente perché i tavoli, sottoposti a quanto ho capito a doppio turno, visto che alla prenotazione mi è stato precisato che se non pensavo di arrivare per le 21 avrei dovuto attendere le 22.30, forniscono una privacy pari a zero, e non aiutano certo ad affrontare la calura idruntina, con il 120 per cento di umidità delle serate d’agosto. La piccola cucina, d’altronde, sembra risentire dell’affollamento, e spiace vedere una cuoca di talento scendere a compromessi tanto rischiosi con il turismo di massa sacrificando in parte la qualità del servizio offerto. La valutazione della nostra cena è pertanto ritoccata per eccesso per le migliori esperienze vissute in questo locale in altri periodi meno sovraffollati, ma è giusto a mio modo di vedere rilevare con forza questo punto.
La cifra di questo ristorantino è piacevolmente easy, con piccoli tavoli apparecchiati con semplice cura (graziosissimi i bicchieri dell’acqua in stile osteria) ed una carta che guarda alla tradizione marinara senza sentirsi da essa costretta. La lista dei vini è invece tanto, troppo ristretta anche per un locale senza pretese di alti riconoscimenti (credo una trentina di proposte in tutto) e priva di qualsivoglia spunto d’interesse enologico.
Fra gli antipasti annotiamo una discreta rivisitazione in chiave marinara della parmigiana, arricchita della nobiltà del pesce spada, pregevole per bilanciamenti e consistenze, ma un pelo eccessiva nell’utilizzo dell’olio.

Ottime le cozze gratinate con pecorino leccese, con il formaggio che è tradizione aggiungere come comprimario ma qui troviamo piacevolmente in primo piano,

e di livello, ma non potrebbe essere altrimenti, il crudo, per quanto continui a non spiegarmi la presenza del salmone in luoghi dove preferirei apprezzare a fondo il pescato locale.

I cavatelli con nero di seppia ed essenza di limone, arricchiti da tentacoletti, denotano eccessiva sapidità, conseguenza probabilmente dell’eccesso di inchiostro, un mar nero in cui del limone non resta praticamente traccia, ed all’interno della quale anche dei cavatelli, un po’ gommosetti e caldi assai, non si avverte il gusto.

Va meglio con il secondo, per quanto la cottura dell’ombrina con pane al basilico su salsa di lattuga sia andata un minuto oltre lo stretto necessario, senza tuttavia minimamente sconfinare nello stopposo. La salsa di lattuga si giova di una generosa e non dichiarata grattata di zenzero che apporta freschezza al piatto e contrasta con l’altrettanto taciuta ma apprezzatissima polvere di capperi.

Il capitolo dolci è quello che più si è confermato sui livelli a noi noti, con la poco estiva ma inappuntabile mousse di nocciole con fondente al cioccolato e crema inglese

ed un altrettanto goduto semifreddo di ricotta e pistacchio, con biscotto al Sanmarzano (ai devoti dei più creativi fra gli chef sarà utile segnalare che non trattasi di pomodoro, in questo caso).

Ottimo il digestivo all’alloro offerto a chiosa

così come il cestino del pane, con pizzi puccia e taralli, praticamente il vademecum della panificazione salentina. Le basi ci sono tutte. Un locale che, provato la prima volta quest’inverno, ci aveva maggiormente impressionato probabilmente proprio perché la cucina aveva la possibilità di lavorare secondo ritmi umani. Alla proprietà la scelta della strada da imboccare.

PIZZICOTTINA!!!!