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New York New York – Parte Prima

New York.
Chi non vorrebbe, una volta nella vita, svegliarsi nella città delle mille luci e sentirsi al centro del mondo?
Quanta energia, quanta autostima ti pervade in quei momenti, forse anche troppa.
Difficile restare indifferenti al cospetto di tanta esagerazione, di tanta offerta, di tanta frenesia.
Ci abbiamo anche vissuto per qualche tempo, ma ogni volta che ci rimettiamo piede, ci sentiamo piacevolmente prigionieri di un’aurea ricca di strati e substrati, una cipolla di situazioni, etnie, opportunità.
Ecco, New York per noi rappresenta questo, e la scena gastronomica ha la stessa potenza, trasmette la stessa energia, un sacco pieno che contiene e mescola strade, luci, gente, cibo. Tanto cibo. Senza restrizioni, filtri, problemi di sorta. Perché quando ci si trova di passaggio in questo ombelico urbano, nessuno si farà mai problemi di cosa il proprio organismo possa ingerire. Se sia giusto o sbagliato, morale o meno.
Qui si prova tutto, per un viaggio andata e ritorno dal pianeta del “junk food”, ovvero del cibo spazzatura nella più ampia accezione, fino ad approdare in lussuose tavole coccolati dalle mani di cuochi sopraffini.
Perché se è vero che a New York il meglio lo riservano hamburger, hotdog, bagel, pastrami, cheesecake o pancakes (sebbene questi siano imprescindibili), è altrettanto vero che in queste strade, che sia un attico o uno scantinato, possiamo trovare tra i migliori sushi al mondo, una grandissima pizza, un magnifico piatto di spaghetti.
Perché New York è un vero e proprio crocevia di mondi che coinvolge anche e soprattutto il cibo, un luogo senza confini tra culture gastronomiche.
Quella che segue è una piccola lista stilata dopo aver filtrato e ripassato al setaccio consigli di amici, gente e guide locali, guide internazionali, esperienze pregresse e istinto.
Un piccolo assaggio di quello che vi aspetta se deciderete di addentrarvi nella variegata e poliedrica offerta gastronomica -rigorosamente di qualità- di questa città.

new york

Cominciamo con un buon consiglio per una mattinata alternativa. Avete voglia di una colazione dei campioni? Mai provato un nutriente bagel? Il migliore dell’Upper East Side, secondo i newyorkesi è quello di Tal Bagels.

Tal Bagels, New York

In verità una piccola catena (ma di qualità) che serve un ciambellone caldo e croccante con un companatico per tutti i gusti. Aperto dalle 5:30 alle 20.30, ne trovate ben quattro dislocati tra nord e sud in Manhattan.
Tal Bagels, New York

Tal Bagels, New York

Le cream cheese sono fatte rigorosamente in casa.
Tal Bagels, New York
Così come le affumicature del salmone e dello storione.
storione, Tal Bagels, New York
Ecco la nostra scelta: salmone e cream cheese all’erba cipollina. Abbastanza classico. Buonissimo.
Tal Bagels, New York
L’insegna di uno degli shop, nel nostro caso al civico 977 della 1st Avenue, a due passi da Gramercy Park.
Tal Bagels, New York
Scendendo un po’ più a sud, in pieno East Village trovate Crift Dogs.
crif dogs, New York
In questo scantinato fanno dei rinomati hot dogs che sono ormai un must della città.
crif dogs, New York
Non temete di impregnarvi in questo piccolo e affollatissimo “junky spot”,
crif dogs, New York
perché i sistemi di areazione funzionano abbastanza bene. Vi bastano pochi dollari per assaporare questa bomba di gusto: “tsunami”: wurstel fatto in casa, avvolto nel bacon con salsa teryaki, ananas e cipollotto.
crif dogs, New York
Se invece volete restare sul classico, agitate le bottigliette del ketchup perché il New Yorker va condito come si deve.
crif dogs, New York, hot dog
Un prodotto notevole.
crif dogs, New York, hot dog
Sempre nel cuore dell’East Village, nel riqualificato quartiere di Alphabet City, direttamente da Bangkok, c’è la splendida cucina Thai di Somtum Der.
somtum der, thai, New York
somtum der, thai, New York
Con una trentina di dollari si può provare un grandissimo il Moo Ping Kati Sod: costine di maiale marinate e grigliate nel latte di cocco.
Moo Ping, somtum der, thai, New York
O un meraviglioso Pad Thai, come lo Chef’s Signature Wok-fried Seafood Suki, con vermicelli di riso saltati con frutti di mare, verdure e la salsa segreta della casa “suki”. Un paio di assaggi e vi ritrovate in Thailandia.
pad thai, somtum der, thai, New York
Restando in tema, un’altra grandissima cucina asiatica fortemente radicata a New York è quella giapponese. In un piccolo ristorante del Lower East Side Ivan Orkin, che presto vedremo nella quarta serie di Chef’s Table in onda su Netflix, ha pensato di rivisitare uno dei piatti simboli del Sol Levante (in verità importato dalla Cina): il ramen.
ivan Ramen, New york
Interessantissima la storia di questo dinamico ristoratore americano. Dopo essersi recato in Giappone negli anni ottanta per insegnare inglese, si è innamorato profondamente della cultura locale ed in particolare della gastronomia nipponica, tanto da far ritorno a New York dieci anni dopo per studiare le basi della cucina al Culinary Institute of America. Dopo alcune esperienze in città fece nuovamente ritorno a Tokyo per approfondire maggiormente le radici della cultura gastronomica e, proprio a Tokyo, nel quartiere di Setagaya, ha osato aprire il suo primo ramen shop nel 2007, riscuotendo un grandissimo successo grazie ad un imperdibile ed originale prodotto della tradizione rivisitato da un “gaijin”, ossia uno straniero. Nel 2012 ritornò a New York e un anno dopo aprì le succursali casalinghe del suo apprezzato e fortunato progetto.
ivan Ramen, New york
C’è grande attenzione per il prodotto, ancor prima della trasformazione. Il crudo del giorno viene servito con salsa ponzu aromatizzata allo scalogno, shiso fermentato e wakame.
crudo, ivan Ramen, New york
Ma lasciate spazio per le ciotole con il ramen in brodo. Il “Vegetarian Ramen” presenta un brodo fatto con salsa di soia, brodo vegetale, funghi enoki, pomodoro arrosto, koji tofu e noodles di farina di segale.
Vegetarian Ramen, ivan Ramen, New york
Il ramen imperdibile è il Tokyo Shio, con corroborante brodo di pollo e dashi, pancia di maiale, uovo morbido, enoki e noodles di farina di segale, al prezzo di 16 dollari.
Ramen, ivan Ramen, New york

Continua.

Se Bushwick, il quartiere hipster di Brooklyn, è diventato una meta di pellegrinaggio di arditi foodies, è soprattutto merito di Carlo Mirarchi, cuoco bistellato che da queste parti circa dieci anni fa aprì, in partnership con Brandon Hoy e Chris Parachini, quella che tutt’ora, secondo molti esperti e appassionati del genere, è un tempio della pizza.
Parliamo di Roberta’s, insegna ormai famosa quasi quanto Katz’s per le giovani generazioni newyorkesi.

Roberta's Bakery, Brooklyn, New York

Bene, è ormai facile scorgere quella scritta rossa in carattere corsivo in diversi punti della città: dall’Urban Space nei paraggi del Grand Central Station, dove c’è una mini succursale che sforna centinaia di pizze al giorno, ai supermercati, dove è addirittura possibile comprare la pizza surgelata, fino all’imponente catena Whole Foods, che in qualche stabilimento di Brooklyn vende prodotti da forno provenienti dalla bakery della scuderia Roberta’s. Un marchio insomma che imperversa un po’ ovunque da quelle parti.

Un marchio dietro il quale c’è un’idea che è molto di più di una semplice operazione di marketing. Il successo di Roberta’s è arrivato a furor di popolo, partendo proprio da questo quartiere, fino a pochi anni fa malfamato.
Approdare a Bushwick, al di là del ponte di Williamsburg, è spaesante sebbene comodo e facile da raggiungere (da Union Square ci sono poche fermate di metro “L”). Usciti dalla metro, da un lato ci si ritrova in un quartiere ancora in fase di espansione, diversamente da altri centri d’interesse più di tendenza, quali Williamsburg o Dumbo, dall’altro ci si imbatte in un flusso di gente volto verso un’unica direzione, ossia verso quello che negli States è considerato uno dei più straordinari ristoranti del Paese. Un complimentino affibbiato nientepopodimeno che dal New York Times. E capiamo il perché ci sia tanto entusiasmo dietro questo progetto.

Parliamo, in primis, di in uno di quegli esempi lungimiranti e pragmatici della florida industria della ristorazione americana. Un luogo che suscita di per sé curiosità. Non è un caso se, dagli Obama alla coppia Jay Z-Beyoncé, in tanti hanno varcato la porta rossa del Roberta’s. Parliamo di un capannone trasandato, un ambiente caotico in cui il personale di sala si confonde con e tra i clienti, uno studio radio “on air” che trasmette musica sul broadcast che va in onda sul sito web del ristorante, illuminazione da pub di provincia, quadri che raffigurano arcimboldeschi volti di pizza dei cowboy di Brokeback Mountain, e tanta gente, dentro e fuori il locale.

Affascinanti elementi che passano impietosamente in secondo piano rispetto al cibo servito. Semplicissimo e disarmante: affettati, insalate, pasta, pizza e poco altro. Non c’è trucco e non c’è inganno. Praticamente l’abc della cucina nostrana fatto, preparato e servito come Dio comanda.
Qui si viene per le pizze… e che pizze! Dall’impasto -farina 00, farina integrale, sale, olio e lievito secco, 24 ore di lievitazione e riposo in frigorifero fino a una settimana- agli ingredienti, dalla cottura alla digeribilità. Tutto sopra le righe. Davvero un prodotto che inorgoglirebbe il più scettico dei patriottici.
Ma è quando assaggiamo quel poco d’altro che comprendiamo il perché di tale acclamazione. A pranzo e per il brunch la proposta è semplificata, con insalate e qualche piatto di pasta oltre le pizze. A cena la faccenda diventa invece più complessa, con piatti come il carpaccio di wagyu frollato o la porchetta alla brace con peperoni, chimichurri e romesco.
Il nostro pranzo ci ha regalato due insalate dal sorprendente impatto, e due pizze che sembrano sfornate da un grande pizzaiolo napoletano: la margherita è semplicemente buonissima, con una salsa dolce e la cottura centrata. Una pizza in stile napoletano, con cornicione pronunciato e disco soffice ma con una consistenza poco molle. La white&greens, con mozzarella, parmigiano, verdura di campo e limone, mette in risalto le capacità dello chef di creare una pizza gourmet con pochi e semplici ingredienti ben valorizzati, emblema di una filiera di prodotti controllata dalla semina al raccolto. E’ interessante a tal proposito una visita al miracoloso giardino pensile, creato sul tetto del capannone, dal quale vengono raccolte alcune delle verdure utilizzate nelle preparazioni.

Oltre alle birre e agli immancabili cocktails, c’è una vasta carta di vini internazionali, impressionante per una pizzeria, che si focalizza soprattutto sul biologico.
Insomma, stentiamo a credere che Mirarchi & soci, nonostante questo clamoroso e continuo successo, abbiano intenzione di cullarsi sugli allori, qui c’è sempre una novità dietro l’angolo, così come ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le esigenze.
Quanta voglia di tornare…

Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
I modestissimi interni.
Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
Una birretta.

birra, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York

Lattuga, noci caramellate, menta e pecorino.
lattuga, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
Notevole insalata di anguria avocado, black lime, pepe nero, basilico e chili.
insalata, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
L’eccellente margherita.
pizza, margherita, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
pizza, margherita, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
White and Greens.
White and Greens, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
La cui cottura è pressappoco perfetta.
white and greens, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
È buonissimo anche il “dolcino”: una burrosissima brioche calda con gelato allo zenzero. Calorie? Sarà per la prossima volta…
dessert, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
Uno dei banconi bar.
bancone, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
Qualche vino riconoscibile.
wine, Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
Un consiglio: bisogna armarsi di pazienza, specie il weekend. Se si vuole evitare l’attesa, dietro la pizzeria c’è il panificio che sforna anche pizze take away. Gli avventori demoralizzati dalla coda acquistano qui la pizza e poi la mangiano nei tavoli all’esterno del locale, un gigante tendone all’aperto, con tavoli in legno da condividere.
Roberta's Bakery, Brooklyn, New York
La porta rossa.
Roberta's Bakery, Brooklyn, New York

All’incrocio tra la Fifth Avenue e Broadway, nella parte nord di Madison Square Park, da cui il nome NoMad, opera indisturbato il duo Daniel Humm e Will Guidara. Protagonisti e promotori dell’alta ristorazione made in USA ma soprattutto del concetto di accoglienza, preso, reinterpretato ed elevato al suo massimo potenziale, rappresentano un punto di riferimento, non solo entro i confini newyorkesi. Tutta la teatralità della cultura americana, scomodando un luogo comune piuttosto banale, si condensa e dona vita ad uno spettacolo in cui nulla è lasciato al caso, a partire dal sito internet del locale (spettacolari i video di presentazione) fino al compimento dell’atto del servizio, senza tralasciare la qualità della cucina.
Il loro NoMad è un hotel di lusso nel cuore della città. Le diverse sale che abbracciano il solarium centrale custodiscono un’atmosfera riservata e romantica, materializzata sotto forma di piccoli tavoli quadrati, assai ravvicinati tra loro, che, come canalizzando l’energia del pubblico, si rendono attori inconsapevoli dello svolgimento della serata. Il gioco di sguardi di una coppia, il sussurrio in sottofondo che copre la musica d’atmosfera della sala, lo strano perverso gioco di complicità che, come riflesso al contrario, si percepisce in maniera intima e propria, fanno parte di una sinfonia orchestrata perfettamente da un servizio di sala attento che fa da cornice ad una sala di per sé molto affascinante.
Tutto questo si traduce nell’atto pratico rendendo il NoMad uno dei locali più “in” di tutta New York.

La cucina, affidata ad Abram Bissel, mostra lampi di brillantezza, rimanendo assolutamente definita e decifrabile, facendo del comfort food neo americano il suo punto di partenza, per poi lasciarsi irretire di tanto in tanto da preparazioni più articolate. La chiave però è la concezione fusion delle suggestioni, in cui in particolare la cucina francese e quella italiana si incontrano fondendosi con la New American cuisine in maniera tanto riuscita da far sfuggire il paragone con un mostro sacro come Thomas Keller. Da segnalare, durante la nostra visita, una discrepanza tra la qualità e la raffinatezza della proposta lunch e quella invece della sera, ben più articolata e precisa. A tal riguardo a breve la formula del pranzo varierà, avvicinandosi coerentemente in maniera più decisa alla filosofia di cucina serale.
L’offerta è così poliedrica che durante l’arco di un solo pasto si potranno assaggiare preparazioni classiche di stampo internazionale come il pollo farcito con foie gras e tartufo (qui pare sia interpretato in maniera mirabile, universalmente considerato uno dei piatti migliori di tutta New York), piuttosto che un hamburger squisitamente americano o piatti che strizzano l’occhio alla sofisticatezza della cucina dell’Eleven Madison Park, fratello maggiore, come la tartare di carota con germogli e insalata.

Il NoMad, pur rimanendo lontano ponderatamente dal suddetto, risulta essere un ristorante accessibile, che al contempo si può tranquillamente definire “di classe”. Piatti curati con consistenze, cotture e salse da manuale, accompagnati e proposti da un servizio attento e premuroso e da una carta dei vini assolutamente riguardevole sono i colori utilizzati da Humm e Guidara per dipingere questo quadro dall’imprinting inconfondibile. Ancora una volta questa coppia di ristoratori ha saputo creare, seguendo un’idea coerente dall’inizio alla fine, un locale adatto ad ogni cliente in ogni situazione.

NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Arriva immediatamente al tavolo una buona focaccia con cipolle, patate e finocchietto.
NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Pomodori marinati con pesche, mandorle e ricotta salata (un must in città). Pomodori buoni ma non eccezionali. Piatto semplicissimo, sapori mediterranei.
pomodori marinati, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Tartare di carota con germogli e insalata (già un classico all’Eleven Madison Park). Sembra di mangiare una tartare di carne.
tartare di carota, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Con un uovo di quaglia crudo, stile steak tartare.
tartare, uovo, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Semplicissime e gustose lasagnette con melanzana affumicata, pomodori e emulsion di “parmesan”.
lasagnette, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Capesante scottate in padella con garganelli, fagioli e minestrone. Sorta di minestra in cui la pasta è un contorno (alla francese). Anche in questo caso le emozioni latitano, ma il sapore è fresco e compiuto.
capesante, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Molto buono il poulard, ossia pollo in padella (un grande prodotto cotto in maniera impeccabile) con taccole, fagiolini e fagioli. Non abbiamo amato la crema alla base. Sorta di maionese leggera, a lungo andare prevaricante.
poulard, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Per chiudere ci consigliano il signature: Milk & honey, Shortbread, Brittle & Ice Cream. Un grande dessert giocato sulle consistenze e declinazioni del binomio latte e miele. Ennesima conferma che il reparto dolciario d’oltreoceano è di livello ipertecnico.
dessert, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Ottimo caffè, selezione della casa.
caffè, NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Insegna.
NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Ingresso dell’hotel.
NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best
Il Flatiron Building.
NoMad, Chef Daniel Humm, Abram Bissell, Broadway, New York, 50 best

New York è un crogiolo di genti. Tratti somatici differenti, culture apparentemente agli antipodi tra loro, lingue e stili di vita senza punti d’incontro, riescono in questa straordinaria città a fondersi, amalgamarsi e creare una forza collettiva in cui il singolo, all’interno di una società, riesce ad emergere lasciando inalterati i suoi tratti, solo apparentemente filtrati dal setaccio collettivo.

In termini culinari tutto questo si può riscontrare praticamente attraverso la cucina di Enrique Olvera, all’interno del suo nuovo Cosme. Ma occorre fare un passo indietro per capire a fondo la concezione di questo locale e lo stile di cucina del cuoco messicano.
Enrique Olvera è per antonomasia il cuoco che è riuscito ad inserire nel circolo “gourmet” la cucina messicana, rivisitandone la concezione e dandole un’impostazione più netta e precisa, in sostanza migliorandola.
Possiamo quindi parlare di un’icona nazionale, in grado di porre sotto i riflettori una cucina da sempre considerata basica e povera. Il suo ristorante di punta, il Pujol, veleggia da ormai qualche tempo nella influente classifica dei 50’s best restaurants, mentre la sua reputazione prevarica il Muro di Tijuana grazie al suo ultimo progetto, il Cosme appunto.

Sotto le luci soffuse che illuminano essenzialmente ogni singolo tavolo, il gioco chiaro-scuro lascia intravvedere, quasi percepire, un’attenzione maniacale nell’arredamento, che si concede certamente ad una deriva modaiola ma di certo non fine a sé stessa, né tanto meno temporanea. Riallacciandosi al modus vivendi che rende New York unica ed irripetibile, Cosme si presenta apparentemente come un ristorante messicano certo, ma che scende a compromessi al fine di rendersi appetibile ad un bacino d’utenza che ricerca sapori confortevoli, frizzanti e allo stesso tempo che rimandino alla memoria della cucina d’oltre confine.
Eppure, a ben guardare, approfondendo l’impressione iniziale, il locale di Olvera presenta tutti i tratti del suo creatore, semplicemente smussati in perfetto New York style. In sostanza una cucina in cui il guacamole preparato al momento non manca, ma viene servito al netto dei suoi nativi eccessi speziati.
L’avvicendarsi di tavoli che si susseguono rende il servizio un po’ altalenante, come del resto i piatti usciti dalla cucina, che passano da preparazioni memorabili come la meringa di foglie di pannocchia bruciata e mousse di pannocchia, ad altri meno centrati, in cui però si ritrova sempre qualche spunto interessante come le numerose fermentazioni delle verdure o il gioco dosato delle acidità del lime.

Nonostante i rincari eccessivi della carta dei vini, seppur fornita, rendano difficile trovare una degna compagnia in campo enoico, una visita al Cosme sarà un viaggio profondo nell’anima di New York, spoglia e cruda di fronte alla realtà dei fatti, troppo spesso stereotipata ed etichettata, ma che in fondo ci piace per come è.

Cosme, Chef Enrique Olvera, New York

Tortillas di blue corn e Sikil P’aak, salsa a base di zucca dello Yucatán.
tortillas, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Tostada con tonno, fiori di sambuco, yuzu, avocado. Assemblaggio di materia prima di buona qualità.

tostada, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York

Cocktail di polpo e capesante, aguachile al nero di seppia, avocado bruciato, cetrioli. Un’insieme di ingredienti in equilibrio tra sapori iodati, acidi e freschi.
polpo, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Carpaccio di hamachi, poblano, finger lime, avocado, black lime. Una delle portate che ci sono piaciute maggiormente.
hamachi, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Deludente l’aragosta, shiso, ginger mojo, burro scuro.
aragosta, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Guacamole fatto al momento. Il lusso della semplicità.
guacamole, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Soft shell crab, yellow mole, insalata di papaya, verbena. Piacevole combinazione, ottima frittura.
soft shell crab, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Short rib, cipollotto, cipolline, avocado.
short rib, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Molto tradizionale ed ottima l’anatra carnitas, cipolle, ravanelli, sedano.
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Da mangiare con le tortillas.
tortillas, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Rabarbaro raspado, gelato al finocchio, chamoy all’ibisco.
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
La meringa di foglie di pannocchia bruciata con mousse di pannocchia è decisamente il piatto della serata. Un dolce complesso, armonioso e dannatamente goloso.
meringa, Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Gli interni.
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York
L’ingresso.
Cosme, Chef Enrique Olvera, New York

“Where did you take the ‘nduja chef?”
“We made it.”

Carlo Mirarchi risponde così se gli chiedete chi sia il fornitore di quella suadente farcia di un unico raviolo servito a metà cena. Si rivelerà di incredibile equilibrio, piacevolmente piccante. Un dosaggio tra carne, grasso, peperoncino e affumicatura matematicamente studiato per piacere e compiacere il palato. Un equilibrio che collocheremo nel gradino immediatamente antecedente alla perfezione quando incontra l’estratto di arancia rossa… e a scriverne è un Calabrese.
Questa è una delle sensazioni che ci ha lasciato la cucina del Blanca.

Un elegante bancone di marmo bianco, 12 sedie, 21 portate di un menù miniaturista che rimbombano al palato come un’eco in una caverna.
Dietro il “counter”, come lo chiamano da queste parti, si assiste ad uno spettacolo di cucina. Tra il riff di Starman, il ritornello di Changes e le note migliori della storia del rock che risuonano dal giradischi, si incastrano, in un contesto ideale, assaggi microscopici, minimali, potenti, terribilmente armoniosi e di impressionante concentrazione gustativa, che pongono in risalto una materia prima di esasperata qualità. In ogni assaggio, per cui bastano un paio di cucchiaiate, c’è spazio per pochi ingredienti valorizzati quasi con timore di rovinarne il sapore naturale.

Blanca è una fucina gastronomica in cui ricerca e sperimentazione si focalizzano sulle combinazioni dei gusti senza ammiccare a particolari virtuosismi tecnici. Tutto è cucinato nei modi e con mezzi tradizionali come forni, padelle, braci, e nel rispetto di tempistiche sacrali per un’esperienza realmente sopra le righe, imperdibile ed affascinante, come la storia di Carlo Mirarchi, americano del Long Island, di padre calabrese e madre panamense; oltre a dedicarsi alla cucina (da autodidatta), vanta aneddoti affascinanti come una laurea in arte alla New York University ed una miracolosa sopravvivenza ad un annegamento in mare durante una vacanza in Australia; evento, quest’ultimo, che gli ha cambiato la vita.

Blanca è una esperienza “carta bianca” non soltanto per ciò che si mangia -il menu viene consegnato in una busta al termine della cena- ma anche per la rigida policy di prenotazioni, e per l’antipatica volontà di non andare incontro alle esigenze del cliente, un po’ come per dire, “se non ti fidi non ho piacere di cucinare per te”.
Rigidità che prevarica le preferenze gustative spingendosi a disincentivare il cliente con intolleranze alimentari o altre particolari esigenze; all’atto della prenotazione leggerete infatti “Unfortunately, we can not accommodate allergies or dietary restrictions“.
Una policy, a tutti gli effetti, forse un po’ snob. Ma non ce ne vogliano i clienti più esigenti se a tutto ciò preferiamo dar spazio al cibo e alla filosofia dello chef in cucina che ama ripercorrere, con uno stile tutto suo, rigorosamente ermetico, i sapori di culture culinarie profonde, come quelle italiane e giapponesi raggiungendo un risultato che stordisce e stupisce ad ogni assaggio.
Una cucina svuotata del superfluo, nuda e cruda quanto più vicina alla compiutezza gustativa.
Chiudiamo il nostro racconto descrivendo il primo atto della teatrale serata: la preparazione della carne.
Una bistecca di Wagyu, curata direttamente dallo chef che procede speditamente con dedizione nella cottura.
Nel corso della cena, quel pezzo di carne verrà trattato come un simulacro.
Lo chef è un grande appassionato di stagionature e deve aver sperimentato differenti tipologie di cottura, temperature e tempistiche per cogliere l’essenza di un grandissimo prodotto. Verrà infornato e sfornato ripetutamente e la temperatura sarà controllata altrettante volte. Sarà una delle ultime portate salate. Un’epitome di golosità.

wagyu, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn

Alla cucina “retrobottega” (Blanca è lo speakeasy di haute cuisine di Roberta’s, formidabile pizzeria di cui parleremo nei prossimi giorni) si accede solo su prenotazione. I camerieri di Roberta’s vi ci accompagneranno facendovi addentrare tra gli ambienti della pizzeria.

Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Roberta's, Brooklyn

Il bancone. Conta dodici sedie.
bancone, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Il giradischi e la collezione di LP che saranno lo sfondo musicale della cena.

Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn

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Ultimi preparativi della linea prima dello show.
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Lo chef entra timidamente. Fa un piccolo saluto agli ospiti…
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
…e si mette all’opera.
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Un bicchiere di sidro per iniziare. L’esperienza è tra le più costose della città (specie considerando le tasse e la mancia, escluse dai 195 dollari del menu). Ma a giustificarla ci sono, oltre alla cucina, un servizio eccezionale e una carta dei vini importante (dai ricarichi, purtroppo, eccessivi). Il sidro ed un bicchiere di tè sono le uniche bevande incluse nel costo del menu.
sidro, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Pesca nettarina, black lime e acqua di mandorla. Un cerchio perfetto.
pesca nettarina, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Una meravigliosa fetta di pancetta. Curata direttamente da Mirarchi, si scioglie lentamente in bocca.
pancetta, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Fagiolini, uva spina e cipollotti.
fagiolini, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Melone, anguria e macadamia. La freschezza e le temperature tengono a bada le spinte dolci.
melone, macadamia, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Buttermilk all’acetosella e patate dolci.
butter milk, acetosella, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Meraviglioso lo sgombro con infuso freddo al limone.
sgombro, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Pannocchia bollita e poi affumicata alla brace e foie gras marinato.
pannocchia, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Mirarchi mentre prepara gli intermezzi italici. Qui alle prese con i ricci, protagonisti del piatto successivo.
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Torn spelt uni: tagliatelle tirate a mano, ricci e vongole. Pochi assaggi che creano dipendenza.
Torn spelt uni, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Agnolotti al lapsang souchong. Una meraviglia tecnica e gustativa. Sembra un piatto del miglior Crippa.
agnolotti, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Del raviolo con ‘nduja e arancia sanguinella abbiamo già detto: semplicemente magnifico.
raviolo, 'nduja, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
A metà cena viene servito un primo sorbetto: pomodoro Sungold semi dry, succo di pomodoro e lattuga di mare.
sorbetto, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
E si riparte presi per la gola con lo splendido lardo caldo e uva.
lardo, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Dentro quel carapace preparano un buttermilk con la testa del granchio.
granchio, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
“Crab bottarga”. Granchio cotto al vapore, carnoso e profondamente iodato.
crab bottarga, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Poi c’è un piccolo intermezzo di pura sostanza: burro cremoso.
burro cremoso, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
…da spalmare sulla focaccia proveniente direttamente dal forno a legna della pizzeria di casa.
focaccia, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Una goduria.
focaccia, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Il piatto della serata: wagyu, okra e riduzione di mosto.
wagyu, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Kumbucha e granita di anice issopo. Un sorbetto? No, un cancellino.
kumbucha, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Si ricomincia ma in maniera del tutto differente: maiale e cetriolo.
maiale e cetriolo, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Capitolo dessert. Non variano tanto nel costrutto ma seguono un filo logico esemplare nella scala sapori. Si pensa di approdare ad uno stato gustativo molto dolce ma all’ultimo boccone si ritrova sempre l’equilibrio. Il primo dessert servito è il gelato al pane a lievitazione naturale e yuzu.
dessert, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Biscotto al sesamo nero e lemongrass. Che meraviglia.
dessert, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Cocco, anacardo e peperoncino. Si inizia a virare verso il dolcissimo. Ma siamo ancora in perfetto equilibro.
dessert, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn

Chiude il reparto l’assaggio di cioccolato e nocciola.
cioccolato, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
cioccolato, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
In stile kaiseki (ma con un giusto tocco newyorkese), si chiude con un bicchiere di tè giallo cinese.
tè giallo, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
Il meritato riposo del braccio destro dello chef.
Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn
L’ingresso della pizzeria take away… nel retrobottega c’è la cucina stellata.
Roberta's, Blanca, Chef Carlo Mirarchi, Brooklyn