Non si può parlare del Merlo senza accennare alla storia della famiglia Torcigliani, storia di osti, bottegai, grandi materie prime e vini da sogno.
In principio fu il bisnonno di Angelo che, ai tempi della seconda guerra mondiale, aprì un punto di ristoro chiamato il Merlo, dove si servivano i piatti semplici e ruspanti della Toscana più schietta.
Ma fu il figlio Guido che, abbandonata la professione di falegname a causa di un serio infortunio, aprì un emporio che fungeva anche da bar. Affascinato dalla Francia e dai grandi vini di questa terra, cominciò ad acquistare i grandi della Borgogna, di Bordeaux e della Loira. Questi ultimi, insieme agli eccellenti prodotti che selezionava, diedero vita ad una bottega gourmand unica nel suo genere, per quel periodo piuttosto buio per l’enogastronomia nazionale. Quegli anni cinquanta in cui solo i sommi Peppino e Mirella Cantarelli riuscirono a deliziare le voglie recondite dei gourmet dello Stivale, e portarono in Italia il concetto di ristorazione con la erre maiuscola.
Il testimone passò poi nelle mani di Claudio, padre di Angelo, che negli anni ottanta, insieme alla moglie Romana, emiliana e grande sfoglina, volle aggiungere all’offerta della bottega qualche piatto caldo di qualità, da abbinare ai grandi vini presenti in cantina.
Intanto il figlio Angelo, terminati gli studi all’istituto alberghiero, cominciò a fare stagioni negli alberghi e nelle gastronomie della zona, ma alla morte del padre, ritornò in azienda e prese in mano le redini dell’impresa familiare. Nel 2008 aprì il Merlo in onore del bisnonno, e cominciò la sua avventura di cuciniere.
Il suo apprendistato all’alta cucina è del tutto singolare: invece che fare stage nelle grandi cucine le frequenta assiduamente, non da cuoco bensì da cliente, girando in lungo in largo la Francia ed i suoi tre stelle, ma anche Stati Uniti e la Gran Bretagna, cercando così di carpire i segreti dei Maestri e il modo migliore di impostare la sala e la cucina.
Il Merlo oggi rispecchia in pieno il suo chef, un omone grande e grosso con una grande passione per il cibo ed il vino.
E’ il regno di un cuoco ruspante e di grande personalità, che propone piatti golosi ma nello stesso eleganti, sempre in bilico fra tradizione contadina e classicità filo-francese, conducendo il cliente in un’esperienza piuttosto unica in Italia, ad un prezzo quasi irrisorio rispetto alla qualità dell’offerta.
Angelo ama il prodotto, toccarlo, lavorarlo, trasformarlo, utilizzare l’animale intero riunendo in un’unica figura il macellaio, il norcino e lo chef.
Ama il fuoco, e sa destreggiarsi con le padelle come pochi in Italia.
Il Merlo è un locale per golosi impenitenti dove le grandissime materie prime che arrivano in cucina vengono trasformate, con arte, in piatti che coinvolgono ed accontentano tanto gli avventori più smaliziati, quanto il cliente medio, alla ricerca “soltanto” di un pasto di qualità al giusto prezzo.
L’ambiente è semplice ed accogliente ed il servizio, coordinato dal maître e sommelier Marco Lemmetti, scorre liscio e senza affanni e, come già detto in precedenza, c’è la possibilità di bere anche molto bene a prezzi più che corretti .
Benvenuto della cucina, tortino di zucchine.
Erbette e fiori di campo freschissimi per preparare il palato.
Uovo fritto al parmigiano, crema di topinambur.
Fagottino croccante di maiale.
Petto di colombaccio,brodo dashi.
Piedino di maiale cotto, svuotato e riempito con salsiccia di pancia, gota e spalla di maiale su salsa al tartufo nero.
Cappelletti, parmigiano trenta mesi e nocciole.
Risotto alla bottarga di tonno rosso, gobbi, mandorle e alghe croccanti.
Coniglio,carciofi, olive e puntarelle.
Spiedone con le frattaglie del coniglio da appalusi.
Accompagnata da un golosissimo midollo burro e erbette.
E i fagioli schiaccioni di Pietrasanta.
Millefoglie con crema chantilly e caramello al caffè.
Camminare sul lungomare di Forte dei Marmi al tramonto in una calda serata estiva è un piacere. La brezza marina accompagna piacevolmente la passeggiata, mentre quasi naturalmente ci si abitua ai rombi del motori delle supercar che sfrecciano da una parte all’altra della strada. Il blu del mare si riflette sugli hotel di lusso che placidamente si incantano ascoltando le onde morbide appoggiarsi sul bagnasciuga.
Uno di questi è l’Hotel Byron, all’interno del quale, nonostante l’aria marina del posto faccia percepire un’atmosfera agiata e rilassata, quasi statica, alle porte della stagione estiva è avvenuto un significativo avvicendamento dietro i fornelli. Cristoforo Trapani, ventisette anni, di Sorrento, con alle spalle importanti esperienze sviluppate alla corte di grandi chef, ha sostituito il precedente chef Andrea Mattei, portando con sé una ventata di aria nuova, mediterranea, nel tentativo di smuovere il lussuoso torpore versiliese.
La piscina dell’hotel, ad effetto calamita per tutti i tavoli del ristorante, è un esplicito riferimento ad un moto vacanziero al di sopra delle righe, viziato, a tratti capriccioso, sicuramente molto abbiente. Lo scricchiolio delle assi di legno sul pavimento, le tovaglie di cotone grezzo che accarezzano le gambe degli ospiti, il cinguettio degli uccellini che piano piano sfuma sul frinio delle cicale, evocano un’estate già cominciata e nel pieno della sua forza.
Mentre si sfoglia la carta dei vini, ben studiata e con una profondità di annate interessante, l’animo generoso tipicamente campano dello chef esce preponderante, come non potesse più attendere il momento di mettersi in mostra. Chef giovane certo, ma per questo non affatto ingenuo. Centra l’obiettivo di rispettare ricette versiliesi, aggiungendo un tocco squisitamente meridionale, coniugando il tutto in una cucina dal forte carattere continentale.
La terrazza bordo piscina è piena. Russi, francesi, spagnoli, pochi italiani. Il servizio di sala, in perfetta armonia artistica con la cucina, accoglie, consiglia e accetta richieste del tutto particolari da parte della eterogenea clientela. Ecco quindi che dopo sfavillanti sorrisi e il classico :”Ma certo signore, faremo il possibile…” ci si vede passare davanti piatti ordinati fuori carta, con richieste di modifiche sostanziali, spesso eccessive.
La cucina proposta da Trapani invece, quella vera, nonostante denoti una tecnica ineccepibile, sembra essere frutto di un compromesso fatto con un’altra parte di clientela, disposta sì a provare nuove emozioni ma senza uscire troppo dal seminato. Scampi e foie gras è un classico della cucina francese, ben eseguito da Trapani, ma che lascia poco spazio all’espressione della sua personalità. Personalità che si capisce poter essere piuttosto ingombrante nel momento in cui ci si trova al cospetto di un piatto di linguine, parmigiano, tartufi di mare, crema al basilico e limone, che rievoca ad ogni boccone la gioia di cucinare del cuoco Cristoforo, prima ancora di essere chef. La pasta che salta nella padella che arde sul fuoco vivo. Il momento in cui le linguine cominciano a fare quel particolare rumore, di viscosità lubrificata dall’olio nello stesso tempo amalgamate dall’amido, che sembrano chiedere solo di essere impiattate. Non un semplice piatto di pasta, ma una parte di anima di Trapani, al quale brillano gli occhi come ad un bambino quando gli vengono fatti i doverosi complimenti al riguardo. Poi ancora riferimenti ai classici francesi, con cotture millimetriche, piatti tecnicamente ineccepibili ma in cui manca un tocco di personalità, il classico cambio di marcia.
Cristoforo Trapani è un giovane cuoco generoso ed intelligente. È lecito aspettarsi grandi cose da lui. Gusti un po’ più decisi, accostamenti un po’ più azzardati e uno sviluppo del menù meno inquadrato di certo aiuterebbero.
Ma forse tutto questo non è necessario, perché se è vero che il lavoro del cuoco è quello di fare da mangiare alla gente, allora Cristoforo lo sta interpretando nel migliore dei modi, riempiendo la sala del suo ristorante e andando incontro ai gusti, seppur stravaganti, di tutti i suoi clienti. L’umiltà non è per tutti, e Trapani ne ha da vendere. Un grande applauso a lui e a tutto lo staff.
La mise en place.
Stuzzichini da parte della cucina.
Crostino toscano con gelatina di Aleatico e fegatini.
Burrata e cialda allo zafferano.
Scampo marinato al limone e chips al nero di seppia.
Tartare di canolicchi.
Il pane.
Ancora dei benvenuti da parte dello chef. In questo caso un chiaro omaggio alla terra natia. Pizza fritta. Ottima.
Pastella ripiena di pasta, besciamella e salumi.
Il primo vino in accompagnamento con il menù degustazione.
Cocktail di gamberi. Gamberi marinati con sedano, lattuga di mare e gelato alla mela. Ottima la qualità del gambero. Il tentativo di armonizzare la sapidità della lattuga di mare con la dolcezza del gelato alla mela è riuscito a metà.
Scampi e foie gras.
Carne di fassona, ostrica, caviale, gelatina di ostrica e limone e spuma di borraggine. Piatto di corretta concezione, dal gusto equilibrato ma dalla consistenza purtroppo discutibile. L’ostrica lasciata intera all’interno della carne non aiuta la masticazione.
Si prosegue con l’abbinamento vino
Linguine, tartufi di mare, crema al basilico, fonduta di parmigiano e limone. Spettacolari.
L’abbinamento scelto per i successivi due piatti.
Risotto patate e cozze, quinoa, pomodorino confit e limone. Il risotto visto in chiave mediterranea. Molto bene.
Triglia alla brace, crema di finocchio, arancia e nocciole tostate. Piatto potenzialmente buono ma privo di mordente.
Un super classico.
Piccione, crema di albicocche, funghi porcini e tartufo nero. Cotture perfette e abbinamenti tanto classici quanto azzeccati. Ottimo piatto.
“Rabarbabietola”. Mousse alla barbabietola, sorbetto al rabarbaro, meringa alle fave di Tonka. Trapani ha una bella mano anche in pasticceria.
Il vino da dessert
Torrone ghiacciato 2015. Un classico della pasticceria firmata Trapani che ogni anno viene aggiornato. La versione 2015 accompagna il semifreddo al torroncino con un biscotto al pistacchio, una marmellata e un sorbetto di arancia. Ottimo.
La piccola pasticceria con una menzione speciale per la sfogliatella.
Lucca è splendida. Camminando per le sue vie, con le piazze che si aprono all’improvviso di tanto in tanto, coccolati e protetti dalle mura che cingono la città, si percepisce una sorta di fermento rivoluzionario in atto. Il campanello di una bicicletta spezza la quiete, la gente si saluta, sembra contenta, rilassata, siede serena ai tavolini di bar e ristoranti.
Si fa presto a dimenticare ciò che si è lasciato al di fuori della fortezza, problemi, pensieri, ansie.
Poi un museo di arte contemporanea. Al suo interno uno chef, Cristiano Tomei, accoglie i clienti con un sorriso così contagioso da far sembrare la cosa normale. Ci si estranea ancora di più dalla realtà, richiamando un effetto matriosca dal quale si vorrebbe rimanere intrappolati per il resto della vita.
Il servizio di sala, coordinato dalla moglie dello chef, è forse l’unica parentesi delicata, elegante e convenzionale di quella che sarà una cena a L’imbuto. La mancanza di una carta delle vivande impone di farsi guidare dalle idee del cuoco.
La location non aiuta a sentirsi a proprio agio. Tomei scruta la sala stando sull’uscio della porta della sua piccola cucina. É vibrante, entusiasta, stufo di una cucina fatta di convenzioni e compromessi.
I suoi piatti, oltre che a raccontare la sua visione del mondo, si rendono narratori di una identità toscana forte, decisa, contraddittoria e a tratti spigolosa. Si lascia da parte l’immagine di una delle tante famiglie inglesi in vacanza sulle morbide colline del Chianti che sorseggiano Sangiovese vestiti in abiti bianchi. Pare quasi un tentativo di tornare alla realtà. Di sottolineare quelle note ruvide del carattere di una regione che, sommate le une alle altre, in maniera quasi divinatoria, risultano piacevoli, forse invidiabili.
L’evoluzione del menù si esplicita come un’ esasperata corsa verso l’illogico, senza lasciare spazio a tregue o cali di tensione. Una nota ludica presente in molti piatti è il filo conduttore di una cena che è un rincorrersi di emozioni tagliate da stupore, sorpresa e incredulità. Ci si guarda intorno straniti, si aspetta impazientemente la portata successiva a quella appena assaggiata.
Viene stravolto completamente l’ordine degli eventi, componendo una degustazione alternando l’uscita di proteine e carboidrati con una casualità studiata nel minimo dettaglio. E il fatto di vedere una sala piena di clienti locali che apprezzano queste sue proposte, indubbiamente fa riflettere. É una cucina che non va capita quella di Tomei, piuttosto “sentita” in maniera più intima. É una rivoluzione silenziosa a tutto ciò a cui la gastronomia italiana si è adattata per anni, rischiando di offuscare la sua identità prima. Un saggio il cui punto di sviluppo è la scelta di lasciare la tecnica in secondo piano rispetto all’eccitazione scaturita da piatti in equilibrio sul filo di un rasoio, ma che incredibilmente su quel filo ci stanno eccome.
Certo qualche nota dolente l’abbiamo riscontrata. Qualche cottura non perfetta, qualche ingrediente che andava perdendosi all’interno di un piatto, qualche accostamento davvero troppo azzardato. Il tutto però, più spesso di quanto non accada di solito, è stato metabolizzato nell’insieme della degustazione con disarmante semplicità, convincendoci (qualora ce ne fosse ancora bisogno) che un errore non può compromettere l’andamento di una cena nel suo complesso.
Per qualunque appassionato che dovesse passare da Lucca una cena all’Imbuto sarà spunto di brillanti considerazioni, e regalerà un ricordo vivido nella memoria per lungo tempo.
Il pane. Si può fare decisamente di meglio.
Triglia laccata al miele di castagno, acqua di pomodoro e mandorle, coratella di capra, erbe spontanee e abete. Bellissimo inizio. Lo iodato e la delicatezza della triglia si confondono con la coratella di capra e i suoi umori. La parte grassa viene alleggerita dalla nota balsamica dell’abete mentre il pomodoro regala un bel tocco acido. Molto complesso ma equilibrato.
Zuppa di pesce (rana pescatrice marinata e polpa di ricci) in brodo di aringa e cipolla bianca, verdure di stagione, aglio selvatico e fiori di sambuco. Passaggio un po’ sbilanciato sulle note acide. Troppi aromi non ci sono parsi particolarmente espressivi come i fiori di sambuco e l’aglio selvatico. Bella idea ma esecuzione da rivedere.
Pappa al pomodoro, nepitella e bottarga di muggine. Il pane viene sostituito da una pasta dalla consistenza simile ad un udon impastata con lievito bruciato. Piatto riuscitissimo, molto goloso, reso verticale dalla nepitella.
Raviolini ripieni di olio e parmigiano con seppie scottate e cavolo nero. Gran passaggio: la pasta sottilissima lascia spazio alla consistenza della seppia che rende la texture del piatto molto interessante. Il cavolo nero dona una nota aromatica che si armonizza con il ripieno deciso ma non invasivo. Ottimo.
Spaghetti mari e monti. Una salsa di cervella fresco lega i gamberi rossi cotti alla perfezione, mentre i semi di senape non riescono del tutto nell’intento di spingere il piatto. Il risultato è uno spaghetto molto goloso al quale servirebbe un po’ di grinta in più. Peccato.
Sgombro affumicato, coniglio marinato, mela verde cruda e maionese al coniglio. Altro gran piatto, nonostante qualche nota di carattere tecnico da rivedere. Il coniglio troppo cotto riesce comunque a rendere omaggio ad un connubio di sapori intrigante, legato dalla maionese e sgrassato dalla mela verde, fondamentale ingrediente di un piatto difficile da scordare.
Bistecca primitiva. Manzo stracciato massaggiato con olio su una corteccia di pino marittimo riscaldata, chips di buccia di patata e grasso di manzo tostato. Piatto da mangiare con le mani. Interessantissima la temperatura (tiepida) della carne, che stranisce rispetto alla sua texture della classica carne cruda. Bel passaggio, divertente ed evocativo. Toscana all’ennesima potenza.
Tortellini di mortadella e rapa amara con burro e salvia. Ad ogni boccone si alterna il dolce e l’amaro in maniera perfettamente armoniosa. Grandioso.
Piccione, carote alla camomilla, erbe spontanee e fondo allo zenzero. Il piccione viene cotto un’intera notte sulla ghisa e poi rigenerato in olio bollente. Carne un po’ troppo cotta, piatto in generale un po’ monocorde.
Fegati. Fegato di coniglio e fegato di rana pescatrice, crescione, yogurt, fragole e piselli. Di primo acchito ci ha lasciati perplessi. Dopo il primo boccone ci ha stregati. Il piatto della serata. Tanto folle quanto buono.
Pasta col pesto (kiwi, alga wakame e pecorino). Passaggio estremo, forse troppo. Non si riesce a trovare un’armonia generale e il kiwi servito caldo non convince del tutto.
Creme caramel tra il dolce e il salato (creme caramel di fegatini di piccione e caramello di salsa di soia e pasta di acciughe). Non avremmo più smesso di mangiarne.
Insalata di gelato al latte e menta, olio, terriccio di cioccolato, sedano e ravanello. Buono.
Dulce de leche al peperoncino con polvere di buccia di piselli e di capperi. Dessert che passa dall’essere dolcissimo all’essere piccantissimo nell’arco di pochi secondi. Quanto ci siamo divertiti!
Torta al cioccolato bianco, oliva amara, yogurt e arancia. Molto buono, goloso e rotondo.
Caprino fresco con gin, scorza d’arancia, popcorn caramellati, tè nero affumicato, sambuco e valeriana. Unico dessert poco riuscito.
Crema catalana al tabacco da pipa. Grande finale.
L’apparenza inganna, è proprio vero. Succede anche a Forte dei Marmi, in una serata di giugno, camminando sul lungomare. Strade perfettamente asfaltate, piste ciclabili ben segnalate e spiagge con file di ombrelloni ordinatamente “incappucciati” attendono solo l’arrivo dei turisti. Le edicole mostrano locandine di giornali russi e sparsi qua e là i ristoranti scalpitano nell’attesa di risvegliarsi dopo il torpore invernale.
É proprio da queste parti che si trova il Bistrot. Un menù scritto prima in inglese e poi “tradotto” in italiano, camerieri in livrea e un considerevole numero di coperti lasciano subito presagire l’ennesimo locale creato ad hoc per turisti sprovveduti.
E invece no. Merito dei Vaiani, famiglia di ristoratori, che dal 1990 è alla guida di questo bell’esempio di ristorazione versiliese. Piero, il capofamiglia, ogni giorno coglie dalla sua azienda agricola frutta e verdura da portare al ristorante, mentre David, suo figlio, si occupa della gestione. La sala è rifinita nei dettagli, elegante, ricercata e a tratti sontuosa come pare essere gradito alla clientela. Enormi vasi di fiori ne delimitano il perimetro e la veranda esterna, a due passi dal mare, è decisamente adorabile. Il servizio, sorridente e premuroso, rende il tutto ancora più piacevole.
Sfogliare l’importante carta dei vini accarezzati dalla brezza marina, in compagnia di un bel tramonto, sarebbe di per sé già sufficiente per giustificare la visita. David però non si accontenta e quindi con grande intelligenza, in compagnia dell’amico fraterno Daniele Angelini, da molti anni chef del Bistrot, offre una cucina ricercata e curata. Piatti semplici, cucinati con una buona materia prima, dal gusto rotondo.
Un antipasto di crudità apre le danze convincendo nel momento in cui crostacei e “carpacci” si presentano “nature”, lasciando invece un po’ perplessi quando l’estro dello chef lo spinge a lanciarsi in abbinamenti un po’ più arditi. Semplicità che paga anche nello spaghetto, gamberi, fave e pomodori canditi. Piatto goloso e fresco allo stesso tempo, che riesce a contestualizzarsi perfettamente con l’ambiente.
Le note dolenti invece arrivano da alcune pietanze che ci sono apparse piuttosto slegate nell’assemblaggio. É questo il caso del medaglione di pescatrice impanato con insalata di carciofi e olio alle arance, in cui la convivenza forzata di pesce e verdure finisce per sminuire la loro dignità. Peccato. Ugual discorso anche per quanto riguarda lo spiedino di calamaretti con zucchine, pomodorini e crema di burrata.
La sala si riempie, molti russi e una manciata di lombardi sembrano apprezzare il locale, il suo concept e la sua cucina. Tutt’intorno sorrisi, complimenti e soffuse risate regalano fascino ad un ristorante con un’energia propria già decisamente positiva. Dal forno a legna continua ad essere sfornato il pane, le bottiglie vengono stappate. Mentre arriva il nostro dessert, un’ottima rivisitazione del più celebre dolce italiano, il tiramisù, abbiamo l’impressione che la serata possa non concludersi mai, proseguire da lì all’infinito.
A pasto concluso ci si trova a camminare sulla spiaggia deserta, pensando che paradossalmente, in un luogo tanto assurdo come può essere Forte dei Marmi fuori stagione, un locale come il Bistrot riesca ad avere un senso, con la genuinità dei proprietari, lo stile del ristorante e perchè no grazie anche ai suoi clienti.
La bella sala
Un aperitivo. Una crocchetta di ricotta e nel bicchierino un infuso di pomodoro, cozze e crostini di pane.
La schiacciatina
Pane e grissini fatti in casa, sfornati dal bel forno a legna.
Piatto di crudità di mare. Ottima materia prima, talvolta intaccata dall’eccessiva presenza di germogli o da abbinamenti poco riusciti come salmone e caffè…
Medaglione di pescatrice impanato alle erbe, con insalata di carciofi e olio alle arance.
Spiedino di calamaretti, zucchine, pomodori, olive taggiasche e crema di burrata. Calamaretti ottimi ma piatto nel complesso decisamente poco armonico.
Ravioli ripieni di astice e bottarga, con calamaretti e astice di caviale. Piatto gourmand, caratteristico soprattutto per l’idea di “trasformare” il caviale in bottarga. Discutibile.
Spaghetti, gamberi, fave e pomodoro candito. Piatto della serata.
Scorfano alla napoletana “alla nostra maniera”. Trancio di pesce superbo. Peccato per le patate di una consistenza davvero strana: dure all’esterno e morbide all’interno.
Pre dessert. Panna cotta al cioccolato bianco con salsa alle fragole. Non all’altezza.
Tiramisù. Ottimo, quasi non fosse fatto dalla stesse mani che hanno realizzato il pre dessert.
La piccola pasticceria. Scolastica ma di ottima fattura. Bravi.
La bella cantina
Il mare di Forte dei Marmi, a due passi dalla sala del ristorante
Avevamo lasciato Damiano Donati in collina, saldamente alla guida del Serendepico a Gragnano di Lucca, luogo ameno che un poco strideva con l’anima rock di questo ragazzo dalla basetta alla Elvis, i tanti tatuaggi e lo sguardo sveglio.
Il talento lo aveva già dimostrato lì e gli addetti ai lavori lo avevano notato; poi il silenzio e, per quasi un anno e mezzo, se ne erano perse le tracce.
Un lungo periodo lontano dai fornelli nel quale Damiano ha cambiato radicalmente vita.
Per sei mesi, infatti, ha lavorato in un’azienda agricola in provincia di Livorno per comprendere come si coltivano gli ortaggi, come si allevano gli animali, come si produce il formaggio e si lavora il maiale, ma soprattutto per imparare un nuovo modo di approcciarsi al prodotto in modo meno superficiale e riscoprire così il vero sapore e valore del cibo.
Ora il ritorno in grande stile, in pieno centro storico a Lucca a due passi dall’anfiteatro, in un locale semplice e modaiolo allo stesso tempo, stile neobistrot per intenderci, con un bel cortile esterno pieno di fiori, luci soffuse, tavoli e sedie ben studiati per non rovinare il fascino di questo luogo senza tempo e, cosa ben più importante per un cuoco, una cucina a vista ampia, ben attrezzata e molto luminosa.
Il menù non è particolarmente ampio, ma è ben articolato, più terra che mare, tante verdure, descrizioni semplici e chiare.
Il posto ideale dove esprimere una cucina che riserva grandissima attenzione al prodotto: per scelta, soltanto nazionale, spesso locale e soltanto da aziende di fiducia.
Nel piatto una buona dose di creatività, ma senza esagerare, mano sicura, pochi elementi, ma ben caratterizzati e sempre riconoscibili.
Viene riservata grande attenzione agli ortaggi, spesso presentati interi e lavorati il giusto per esaltarne il sapore e la freschezza senza sofismi particolari.
Gran mano anche sulle carni, menzione particolare per il pane, una sola tipologia di grande pezzatura, ma di qualità difficilmente riscontrabile al ristorante e di altissima scuola, nella nostra visita, il risotto.
Buona la carta dei vini, con una bella selezione di etichette locali, tanta Toscana, ma anche il resto d’Italia ben rappresentato; peccato per i ricarichi eccessivi sulle bottiglie di maggior pregio che scoraggiano la beva compulsiva.
Servizio rapido ed informale come si conviene ad un locale di questa tipologia e prezzi di grande onestà, un locale sicuramente da tenere d’occhio dal probabile, radioso futuro.
Un grazie sincero a Lido Vannucchi, a cui dobbiamo il merito delle foto di questa recensione.
Melanzana, crema di scalogno al burro e frittella di lenticchie.
Frittatina, pane, pomodoro, olio, aceto e acciughe marinate.
Spaghettone, melanzana, pomodoro e ricotta salata.
Riso rosa e concentrato di gallina.
Pesca gratinata e gelato alla pesca nel tortino.