Il perfezionismo del minimalismo.
Questa è, a nostro parere, la sintesi della filosofia kaiseki e di questo grande ristorante. Abbiamo già trattato l’argomento nella recensione di Kitcho, ma qui vorremmo dare un ulteriore punto di vista, che vada oltre la maniacale attenzione per la materia prima, per la stagionalità e per il rito.
Perché al ristorante Koju ci troviamo di fronte ad un’interpretazione, se volete estrema, del modernismo stilistico kaiseki targato Giappone. Un rito che rimane tale e che al contempo viene spogliato di numerosi orpelli, reso metropolitano e contemporaneo, per certi versi anche antiteticamente veloce, ma che preserva tutti i contenuti veri e profondi di quest’arte.
Punto di partenza è la cura nelle preparazioni, apparentemente semplici, ma frutto di elaborazioni lunghe e molto puntigliose. In cucina, anche se non si vedono, ci sono 2 addetti alla cottura del riso, 3 addetti alla preparazione dei brodi, altri 4 alla cesellatura di verdure e pesce. Un esercito concentrato su partite a prima vista elementari, in realtà coordinate e capitanate da veri e propri maestri dotati di esperienza pluriennale.
Il “Maestro” rifinisce e cesella il sashimi, assaggia e ritocca il già quasi perfetto brodo per lo shabu-shabu, osserva e dirige con una attenzione da vero e proprio direttore d’orchestra. Comprendiamo ora sino in fondo l’assonanza con un altro Maestro come Marchesi con questa filosofia, ed anche il suo costante accostamento alla simbologia e alla stilistica, nonché al rigore della grande opera musicale d’orchestra. Mai come in questo caso metafora fu azzeccata.
Il giorno della nostra visita lo chef Toro Okuda si trovava a Parigi per l’apertura del suo primo locale fuori dal Giappone (Okuda Paris, già segnato col pennarello rosso tra le prossime visite da fare nella Ville Lumière).
Il suo sostituto, giovane ma con una sicurezza da chef navigato, non ha fatto rimpiangere il Maestro.
Koju è l’esperienza, con la E maiuscola, di una contemporaneità Kaiseki portata all’apice.
Dove ogni ingrediente primario, un pesce o una verdura, viene preservato nella sua essenza più profonda. Non troverete sale aggiunto da nessuna parte. Tutto puro, se è dolce sarà dolce, se è sapido sarà sapido. Così come, se l’ingrediente lo è, lievemente piccante. Presentato nella sua purezza maestosa e intonsa.
Il ruolo di protagonista di ogni preparazione è demandato spesso ai brodi, di concentrazione, finezza e persistenza, nonché sapidità, notevoli e dagli apparenti comprimari. Una volta un frutto secco, l’altra volta un’erba piuttosto che una laccatura in cottura.
Una affascinante esperienza che dovrete, se vorrete avere un quadro completo ed esaustivo, affiancare ad un grande esempio di tradizione kaiseki in quel di Kyoto. Ed il vostro cerchio gustativo in Sol Levante sarà completo.
La table du chef.
Mise en place.
Il giovane chef all’opera.
Granchio reale, gelatina di aceto di riso e soia, agrumi: un concentrato di rara eleganza.
Abalone, purea di melanzana e fagioli di soia: consistenza fantastica dell’abalone e della melanzana profumata al gelsomino.
La preparazione del nostro sashimi.
Il primo brodo.
Aragosta, fagiolini di soia, funghi, polpetta ai crostacei e radice di loto.
Sashimi di tonno, seppia, orata, daikon, insalata di alghe, rapanelli. Di consistenza e purezza fantastici.
La preparazione dello shabu-shabu.
Barracuda al vapore con funghi, anguilla arrosto e laccata con bianchetti. Immersi in un giardino d’autunno. Patate dolci, noci gingo, polpette di daikon, radici di zenzero, peperoni, lime, pepe e shiso. La foglia di pepe sull’anguilla un tocco da vero maestro.
La preparazione della radice di Wasabi.
Shabu-Shabu di pesce (simil merluzzo) e funghi pregiatissimi Matsutake. Il brodo intenso e pervasivo, con il fungo che emana sentori di fiori d’autunno e sottobosco. Fantastico.
Riso, brodo di miso e funghi, cipollotto e sottaceti.
La rilettura del tradizionale mochi. Gelato al caramello e castagna, liquore di castagna, castagna bollita e palline di riso dolce. Strepitoso.
Il classico finale con il the Matcha.
Un angolo di Giappone nel cuore del lusso della Grandeur.
A due passi da Avenue George V, dai negozi e dagli alberghi più costosi del pianeta e così pieni di Occidente, è incredibile la sensazione che si avverte oltrepassando la soglia di questo locale: uno sorta di stargate in grado di catapultare l’avventore dalla Ville Lumière direttamente nella patria del Sol Levante. Tutto qui dentro è Giappone, o almeno la sua parte più lussuosa.
Il profumo del legno hinoki e la sensazione bellissima che lascia al tatto, la purezza delle forme, il personale femminile in kimono: è una piacevole immersione nella cultura giapponese.
Per anni sono stati i grandi chef francesi ad aprire succursali in Giappone; l’apertura di Okuda segna un passaggio storico: per la prima volta è un grande Maestro giapponese pluripremiato in patria (Okuda san del ristorante Koju) ad aprire nella capitale del gusto europeo. Fuoco di paglia o inversione di tendenza? Lo vedremo.
Nel frattempo prendiamo atto del meraviglioso lavoro che è stato fatto e del livello già raggiunto a pochi mesi dall’apertura datata settembre 2013.
Okuda san è famoso per la sua tecnica di griglia al carbone: in numerose interviste ha sottolineato come avrebbe abbandonato l’idea di questa apertura se non gli fosse stato concesso di installare la sua griglia in cucina. Per nostra fortuna il permesso è arrivato e l’attrezzo è ben visibile dal bancone dove prenderete posto. Perché nonostante la presenza di una saletta privata, è solo al bancone che dovrete prenotare per godere a pieno dell’esperienza.
La cucina è affidata al giovane Shun Miyahara, a lungo braccio destro di Okuda nei suoi locali di Tokyo: simpatico e disponibile al dialogo, caratteristiche non sempre ritrovabili nei grandi cuochi giapponesi.
Come nella casa madre di Tokyo, quella che viene fornita qui è una visione moderna dello stile Kaiseki: più contemporanea ma comunque intimamente legata a tutti i suoi riti, fatti di bellezza, stagionalità, purezza.
Qui la chiave di lettura è necessariamente ancora diversa ma altrettanto stimolante: l’esigenza di utilizzare anche ingredienti europei, in primis carne e pesce, crea un interessante connubio tra Europa e Giappone.
Le verdure sono quelle di Olivier Durand che a Nantes coltiva anche alcuni vegetali in uso in Giappone. La carne è quella di Hugo Desnoyer, il macellaio-star parigino del momento. La seppia dall’ Ile d’Yeu.
Per quanto straordinaria, sembra sia proprio la qualità del pescato a preoccupare maggiormente Miyahara-San. L’impossibilità di effettuare l’ikejime, una storica pratica giapponese utilizzata per uccidere i pesci in maniera istantanea, fa perdere qualcosa in termini di gusto e, soprattutto, di umami, tanto caro ai palati giapponesi.
Con l’ikejime si neutralizza con un colpo secco parte del cervello che controlla i nervi del pesce, poi vengono sezionate le arterie situate alle branchie e coda. Il sangue viene così eliminato e il suo sapore sgradevole non pregiudica il pesce, lasciando intatto il suo gusto e la sua struttura originaria. Inoltre il taglio netto produce un rilassamento dei muscoli del pesce: non c’è produzione di acido lattico e si preserva l’Adenosina trifosfato (ATP).
Una vera e propria arte giapponese che, tra l’altro, sul piano etico, potrebbe anche essere considerato come il metodo più veloce e “umano” per uccidere un pesce: chissà che questa volta non sia un ristoratore giapponese a cambiare le abitudini dei pescatori francesi e europei.
La maestria nella preparazione del sashimi di Miyahara-san è comunque uno spettacolo nello spettacolo: lievissimi colpi di coltello per sfibrare una seppia che poi si scioglierà letteralmente in bocca.
La parte del leone la fa comunque la griglia e l’apice viene raggiunto proprio con l’anguilla laccata e grigliata con polvere di pepe e wasabi, signature dish di Okuda san: un gioiello di minimalismo e assoluta perfezione.
Precisione, estetica, gusto: non siamo molto lontani dagli standard dei grandi kaiseki di Tokyo.
Il migliore locale giapponese in Europa? Difficile da dire. Sicuramente Okuda tocca vette di qualità difficilmente replicabili, sia come cibo che come atmosfera.
Parigi aggiunge una ulteriore perla alla sua offerta e speriamo che questo “sbarco” possa portare un arricchimento per tutto il movimento gastronomico europeo.
Il bancone
Amuse bouche di stagione: un tripudio per occhi e palato.
Brodo chiaro al merluzzo avvolto nell’alga fine Kombu, ravanello e bottarga: la prima zuppa servita nel pasto kaiseki. La bottarga apporta quella nota affumicata elegante e il tocco agrumato rinfresca e pulisce.
Miyahara-San alla preparazione del sashimi
Aragosta, rombo e seppia dell’Ile d’Yeu, igname e alghe nori di acqua dolce: il caviale a regalare l’accento francese. Difficile trovare un sashimi migliore in un raggio di qualche migliaio di km.
Il menu è fisso, ma nel caso segnaliate intolleranze non vi sarà negata una sostituzione: nel nostro caso è stato preparato questo incredibile merluzzo con leggera impanatura fritto per una commensale che non poteva mangiare il pesce crudo.
La rifinitura degli spiedini al bancone.
San Pietro grigliato al pepe di Sichuan.
Filetto di manzo di Hugo Desnoyer marinato al Miso e grigliato.
Sempre splendide le ceramiche giapponesi. E’ presente una carta dei vini e dei sake e c’è anche la possibilità di un accompagnamento al bicchiere: noi abbiamo preferito il più tradizionale tè verde (tra l’altro non conteggiato nel conto finale)
Rana Pescatrice in preparazione “Nabe”, porri, fegato di rana pescatrice e tofu da intingere in una salsa a base di soia, limone e spezie.
Una tipica preparazione giapponese: viene portato il contenitore posizionato sopra una piccola brace. Si prendono i pezzi dal brodo bollente e si intingono nella salsa a piacimento.
La rifinitura al bancone dell’anguilla.
Anguilla laccata e grigliata, polvere di pepe, wasabi: non ci sono parole.
Riso, zuppa di Miso, sottaceti (ravanello, cetriolo fermentato, e alga kombu confit).
Sorbetto allo Yuzu, budino all’Hoji-cha, arancia in gelatina di vino bianco: Hoji-cha è un particolare tè verde giapponese arrostito sul carbone (una sorta di tostatura), il sentore di caramello mischiato alle comuni caratteristiche del tè verde è affascinante. Ricorda il caffè, con note di affumicato. Fantastico il risultato in questo budino. Il sorbetto è sfacciatamente amaro. La gelatina acida e pulente. Un grandissimo dessert.