Personalità e creatività in cucina viaggiano sulla stessa onda.
Per queste due caratteristiche, non è precluso attingere da esperienza e tradizione.
Al contrario, saper vedere con occhi propri un piatto della nonna trasformandolo in qualcosa di nuovo implica passione, curiosità, ma soprattutto talento.
E’ inimmaginabile il numero di ristoranti sulla scena di Istanbul, sebbene non siano tantissime le tavole che presentano un approccio più creativo agli usi e costumi gastronomici nazionali, le cui basi affondano le proprie radici nella cultura ottomana. Fare cucina ricercata, da queste parti, vuol dire rivolgersi soltanto ad una fascia di clientela molto ristretta (quella locale si, ma molto ricca, o ai turisti).
Dopo la parziale delusione di una delle tavole più acclamate della città, abbiamo gustato finalmente una cucina turca (davvero) moderna e con forte personalità, fatta da due giovani cuochi che si sono ritagliati un raffinato e coraggioso angolo gourmet nel quartiere Akaretler, uno dei più esclusivi della città.
Gile, aperto da un paio di anni, è il classico ristorante che potrebbe fare tendenza in qualsiasi capitale europea. Invece siamo rimasti un po’ perplessi nel constatare che un locale con una cucina vivace e filologica come questa, in un sabato sera, fosse semivuoto, diversamente da altre tavole gourmet che, tuttavia, offrono proposte più sedute e decisamente meno originali di quella in questione.
La location è essenziale ma interessante: una sorta di galleria d’arte in cui sono esposti dipinti di artisti (che possono essere acquistati dai clienti). C’è grande attenzione per i particolari. Le stoviglie sono originali e le ceramiche sono dell’artista turco Mehmet Kutlu, anch’esse, coerentemente, in vendita.
Ma a destare particolare interesse è la cucina.
I piatti di Cihan Kıpçak e Üryan Doğmuş sono al contempo esteticamente curati e gustativamente stimolanti.
I due giovani cuochi sono consapevoli di avere una cifra tecnica di rilievo. Lo si nota dalle sensazioni organolettiche e olfattive che vengono fuori dagli ingredienti -esclusivamente nazionali- e che mantengono la propria identità senza confondersi l’un l’altro. Lo si percepisce dalle cotture attente, dalle tecniche moderne e dall’accentuata reminiscenza dei sapori delle ricette locali che si palesano al primo boccone.
Con composizioni minimaliste, i due giovani chef riescono nell’intento di ripercorrere in modo brillante la storia di quei sapori, frutto dell’incontro tra cucina mediorientale, balcanica e dell’Asia Centrale.
In cucina si schiaccia il pedale sull’acceleratore facendo emergere certi gusti decisi, senza rinunciare a lampi di raffinatezza. Si punta dritti su sentori di grasso, sull’acidità, su sensazioni di aromaticità e piccantezza (con la mente che si perde nel fascino del Gran Bazar), ma non mancano sferzate di salinità e asprezza che si alternano fino a sconfinare in una dolcezza ai limiti della stucchevolezza. Proprio come tradizione turca vuole.
Insomma c’è poco gigionismo, pochi compromessi ma tanto, tanto coraggio.
Ed è fondamentalmente per queste caratteristiche che abbiamo apprezzato questa cucina, sebbene, a tratti, non sia perfetta sotto alcuni aspetti.
Dulcis in fundo, la voglia di fare ed emergere si percepiscono anche scrutando il compito svolto dal servizio di sala, impostato ma solerte e mai invadente.
Questo è Gile. E per ora ci auguriamo che arrivino copiosi anche i consensi del pubblico locale per evitare che questa filosofia di cucina (assolutamente innovativa per gli standard locali) non svanisca come una bolla di sapone.
A nostro avviso è una piacevole tappa da segnare nel taccuino in vista di un tour nella meravigliosa Istanbul.
Il coperto.
Burro con semi di papavero e olio con aceto di mela cotogna.
Spuma di formaggio Tulum con sale nero.
La degustazione comincia con la rinfrescante zuppa di cavolfiore e olio all’arancia.
Un piccolo boccone di tonno (in Turchia è sviluppata la pesca del bluefin), rapanello e cipolla essiccata.
Gamberi rossi (provenienti dal Golfo di Saros) coulis di peperone rosso, mirtilli e finocchio marino sott’aceto.
Il piatto più ordinario è la tartare di trota del Mar Nero, caviale locale, insalata di finocchi, crema di arancia e germogli.
“Küşleme”
Un eccellente lombo di agnello in Baklava (pasta fillo), melanzana affumicata, barbabietola, humus e peperone abbrustolito. Le creme sembrano dei concentrati.
Prima dei piatti principali c’è il sorbetto di mela verde e sedano.
“Yedi Baharlı”: Branzino cotto lentamente, salsa di pomodoro piccante e crema di patate profumata al limone.
Ancora agnello. Questa volta viene servita una spalla cotta 41 ore, jus di agnello con liquirizia, formaggio della Cappadocia, peperoncino alla cenere, crema di melanzana, patata e yogurt.
Un Boğazkere (ci dicono) di ottimo livello.
Pre-dessert. Ayran Pannacotta. Le sensazioni lattiche si alternano agli agrumi in una riuscita interpretazione della famosa bevanda a base di yogurt e acqua che accompagna e sgrassa i pasti dei turchi, qui impreziosita con un sorbetto all’Earl Grey e zucchero al limone.
Il piatto meno convincente: Paper Pumpkin. Si tratta di fogli di zucca in infusione in zucchero e limone, pasta di mandorle e sorbetto al mandarino. Le note dolci sono molto marcate, e l’acidità potrebbe essere maggiore.
Più che convincente lo Spicy Chocolate. Variazione sul tema cioccolato-spezie piccanti. Gelato al peperoncino “Urfa”, terra di cioccolato amaro, frutti rossi disidratati e polvere di paprika. Tanto coraggioso quanto apprezzato.
Interni.
Insegna.
Il Corno d’Oro, il Topkapi, le moschee illuminate e il Bosforo. Si ha una meravigliosa visuale di una delle più affascinanti città del mondo dall’ultimo piano del Marmara Palace, l’hotel che ospita il Mikla.
Una sala a vetri a 360 gradi sulla skyline di Istanbul e una pluripremiata cantina che sfoggia una selezione di rinomate bottiglie di livello e produzione internazionali sono il biglietto da visita di questo ristorante.
Mehmet Gürs è un imprenditore/chef che si è imposto ai media nazionali circa dieci anni fa con il suo progetto, coraggioso e ambizioso, del primo ristorante innovativo di cucina turca. Un lungo processo di ricerca finalizzato a ripristinare le antiche tecniche di cottura e a riscoprire ingredienti quasi dimenticati hanno condotto a quella che è stata denominata la “New Anatolian Kitchen”.
Nato in Finlandia da padre turco e madre svedese, dopo aver vissuto in Svezia ha completato la sua formazione negli Stati Uniti per poi tornare a Istanbul, diventando il più rinomato chef nazionale,tanto da guadagnarsi la carica di presidente del Bocuse d’ Or in Turchia.
Il nome del ristorante deriva da “Miklagard”, ovvero la “grande città” come veniva chiamata Istanbul dai vichinghi.
Gürs si è avvalso del supporto dell’antropologo Tangör Tan con il quale ha lavorato e lavora tutt’ora per dare una identità nuova alle antiche tradizioni dell’Anatolia. E’ da apprezzare la ricerca dell’ingrediente migliore della zona, agnello della Tracia, pistacchio di Gaziantep, olive halhali e halwa, così come la valorizzazione di contadini e fattorie locali.
Il tutto ad un unico scopo: creare i connotati di una nuova cucina. La cultura gastronomica in Turchia è profondissima e vasta, c’è una ricca varietà di carni bianche e rosse, spezie, verdure ed il prodotto ittico non manca.
Il risultato però è incerto. La modernità viene declinata, a livello di idee e tecniche, al passato rispetto allo stato della più “evoluta” cucina sulla scena dell’Europa occidentale.
Nonostante l’importante background tradizionale che si porta sulle spalle, gli influssi che Gürs mette più a fuoco sono quelli della abusata cucina nordica finendo per creare confusione sull’originalità dello stile e, giocoforza, sulla personalità della sua cucina.
Ad essere carenti sono la centralità gustative dell’entrate, del piatto principale e di un dessert e, nei casi più gravi, la concentrazione di zuppe e fondi. Su altre portate torna il buon umore (come le acciughe fritte, dal persistente sentore marino, o il succulento stinco di agnello della Tracia) ma rispetto ad un’altra tavola creativa della città – presto su questi schermi – Mikla, a nostro avviso, gioca in un campionato di serie inferiore.
Il servizio di sala è altalenante. Parte in quarta ma poi finisce per sembrare sbrigativo tra una portata e l’altra e, soprattutto nel momento di massima affluenza della sala (circa 80 coperti!), si inceppa vistosamente, concentrandosi soltanto a servire le portate ai tavoli, e dimenticandosi delle attenzioni che meriterebbe il cliente.
Della carta dei vini si è già accennato. Premiata più volte da Wine Spectator presenta tante referenze, a livello nazionale ed internazionale, con ricarichi, a seconda dei casi, discutibili.
Tutto il resto la fa la location.
Chips di formaggio con yogurt e cetrioli.
Una trascurabile zuppa di ossa di agnello e cipolle croccanti, dal sapore un po’ corto.
Olio, sale e burro.
Il pane.
Vegetables & Zeytinyağlı
Deludente “insalata” di verdure fredde, in diverse consistenze.
Balık Ekmek
Acciughe croccanti su pane all’olio d’oliva e maionese al limone. Una delle migliori riuscite.
Ordinario, anche a livello gustativo, il controfiletto saltato ed essiccato (ricorda la bresaola), pasta di pistacchi, humus di lenticchie, pomodoro “Ezme”, melagrana, noci e fiocchi di “İsot” (sorta di peperoncino secco).
Delude invece il piatto “cult” dello chef.
Cernia cotta lentamente servita con una confusa guarnizione di topinambur, pasta di grano duro, olive Halhavi e vinaigrette di fichi ed erba cipollina.
Molto buono lo stinco di agnello della Tracia, spezzatino di Bayramiç Sucuk e fagioli rossi, humus,
pasta di corniolo, yogurt salato…
Miele e formaggio crudo dell’Anatolia. Preparazione decisamente più raffinata.
Il primo dessert è la zucca candita con melassa d’uva e canapa, gelato al pistacchio (non zuccherato) e pasta di sesamo “Sürtme”,
Meglio il post-dessert, nuvola di albume, pistacchio e biscotti di pasta sfoglia.
Tavoli con vista.
Istanbul.
Quasi venti milioni di abitanti. Una metropoli in costante movimento ed in continuo fermento.
Un luogo in bilico tra Oriente e Occidente. Una città dove l’antico si fonde col moderno e nella quotidianità si convive al di sopra di ogni religione.
È proprio in questa terra, con i piedi in Asia e la testa in Europa, che Massimo Bottura ha deciso di esportare un pezzo della sua Emilia, o meglio, un gran pezzo della nostra Italia.
Nel Ristorante Italia non sono solo i ricordi dell’infanzia o il territorio dello chef modenese ad essere rielaborati -per quelli basterebbe andare in via Stella- ma l’intera storia della cucina italiana, quella intrisa di tradizione e familiarità, quella che tutto il mondo ci invidia.
Un viaggio che percorre tutto lo stivale, dal Piemonte alla Sicilia, senza i clichè che contraddistinguono la nostra cultura gastronomica all’estero.
Lo scopo è quello di cambiare radicalmente la considerazione che lo straniero ha della nostra cucina, sensibilizzarlo sulla materia prima (non per forza italiana), sulle sofisticate tecniche di cottura, sulla concentrazione dei sapori, lasciandogli intatte le sensazioni finali di piacevolezza e golosità.
Bottura -che quest’anno è volato ad Istanbul con una cadenza di tre/quattro volte al mese- ha accettato una sfida tutt’altro che facile e l’ha fatto mettendoci il grande entusiasmo che traspare dai suoi piatti.
Entusiasmo trasmesso a tutta la brigata di cucina, formata da undici giovani cuochi di cui tre italiani (Bernardo Paladini, Michele Castelli e Virginia Caravita) passati per via Stella e ben contenti di ricoprire il ruolo di ambasciatori del made in Italy all’estero.
Nei pochi piatti assaggiati svetta il marchio di fabbrica della Francescana, con la bellezza estetica e i sapori cesellati in maniera cristallina, con la giusta densità gustativa. Bottura è stato in grado di sdoganare piatti come la pasta e fagioli, il vitello tonnato, il pollo coi peperoni, il risotto alla milanese e tanto altro, in una interpretazione “d’autore”, totalmente inedita.
Non è la voglia di stupire o di giocare che prevale, non c’è “crostatina in caduta” che tenga, perché l’Osteria resta un unicum nel suo genere e non può essere esportata altrove. Ed è per questo che il lavoro fatto ad Istanbul è ancor più prezioso di quanto si possa pensare, perché anche qui, a 1900 km da Modena, la tradizione gastronomica viene scandagliata, scomposta, ricostruita rivivendo sotto nuove forme ma con l’onnipresente sapore del ricordo.
Viene subito voglia di tornare per soddisfare l’indomabile voglia di comfort food delle ricette regionali del Bel Paese.
Allestito all’ultimo piano di Eataly, nel nuovissimo Zorlu Center, il nuovo polo del lusso a nord della metropoli, il Ristorante Italia è un locale sobrio ed elegante che ricorda molto l’atmosfera della Francescana, con l’illuminazione fredda, moquette ed alcune opere d’arte. Si respira Italia non appena si varca l’ingresso, grazie anche alla colonna sonora di sottofondo che riproduce le canzoni di cantanti e musicisti italiani del passato.
E sui numeri non si scherza: circa una sessantina di coperti ben distanziati distribuiti in due sale molto spaziose (di cui una bellissima terrazza panoramica che, purtroppo e per ovvie necessità, è destinata agli incalliti fumatori), con un servizio già rodatissimo, dopo neanche un anno di vita, numeroso, formale e di eccellenza, formato da personale tutto locale e coordinato da un grande professionista dell’accoglienza, quel Daniele Montano che ricordavamo già al Pagliaccio di Roma e che ritroviamo con piacere tra questi tavoli a destreggiarsi con un passo felpato tra italiano, inglese e turco (!).
Non poteva mancare neanche una carta dei vini che parla prevalentemente italiano (ma occhio a non trascurare alcune sorprendenti etichette turche) e presenta tantissime etichette a prezzi tutto sommato corretti.
Difficile fare meglio come inizio.
Come a Modena, olio toscano, selezione Villa Manodori (in vendita anche da Eataly), pane fatto in casa
ed eccellenti grissini.
Una essenziale ricciola, servita soltanto con olio e sale. L’Italia è anche questa, esempio di grande semplicità e grande qualità.
Il vitello tonnato. Succulenti fette di filetto cotto a bassa temperatura accompagnato da una densa salsa tonnata. Il colpo di classe sono le verdure in agro e la salsa di vitello.
Gnocchi di seppia. L’impasto è fatto con seppia e patate. La consistenza è conferita dal pane croccante. Sulla base c’è una interessantissima zuppa di pomodoro e seppia leggermente profumata all’aglio con qualche goccia di salsa al nero di seppia.
Una grandissima “pasta e fagioli” rivive sotto mentite spoglie di un raviolo farcito con parmigiano, ricotta e (altro grande colpo di classe) cicoria. Le note amare sono defatiganti e creano una sorta di dipendenza. Come le croste di parmigiano fritte sulla crema di borlotti.
Guancia all’aceto balsamico. Più classico non si può.. se non fosse per la purea di carote e zenzero e i broccoli piccanti…
Un sempre gradito intermezzo tra salato e dolce.
Anche qui i tortellini alla crema di parmigiano sono un imperdibile cult. Inoltre hanno una peculiarità che solo al Ristorante Italia è possibile trovare: sono rispettosi della religione locale e, pertanto, non c’è traccia di maiale, sostituito dal pollo. E’ noto che per ottenere 200 grammi di quella crema, serve un kg di parmigiano in infusione con l’acqua.
Semplice e geniale il pre-dessert, tutto da shakerare e da bere in un colpo solo. E’ un omaggio alla Turchia e alla stagionalità: succo di melagrana e yogurt.
Siamo in Italia:un quasi tradizionale tiramisù.
E, sebbene il Natale fosse appena finito, non ci siamo fatti scappare un fuori carta: soufflé al panettone con crema alla vaniglia e gelato al fiordilatte. Ed è subito, nuovamente, Natale.
Minimale piccola pasticceria. Bombolini alla crema.
Sala.