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Imàgo

Se per la ristorazione di fascia media e l’onnipresente street food va riconosciuto a Roma un certo dinamismo, l’offerta di alta ristorazione resta abbastanza statica. I grandi ristoranti sono un pugno e sono sempre gli stessi e, tra questi, una certezza è l’Imàgo dell’Hotel Hassler.

Questo non significa che Francesco Apreda proceda col pilota automatico, tutt’altro, perché la sua cucina è sempre piena di stimoli, d’invenzioni e di riletture consapevoli e personali di cucine dei vari angoli di mondo, che ha frequentato e frequenta ancora: la Napoli delle sue origini, la Roma di oggi, l’India, il Giappone, l’America.
Di ogni posto e di ogni cucina lo chef pare aver tratto una conoscenza non superficiale, e gli va dato atto di essere capace non solo di sapercela restituire con i suoi piatti, ma di riuscire anche a mettere insieme questi elementi in una policromia davvero armoniosa.
Questo è vero sia nel menù dei suoi classici sia nel “sapori di viaggio”, che viene rinnovato spesso e contiene gli ultimi frutti di una creatività sempre vivace.

I piatti sono sempre ad alto grado di difficoltà, sia per l’uso di tecniche di cucina proprie di tradizioni distanti tra loro, sia per l’impiego di spezie che lo chef adora e seleziona con grande cura (il suo blend di pepi è una pozione magica…). La maestria si rivela nella resa, sempre capace di soddisfare anche palati meno avvezzi a queste contaminazioni.
Dell’ultima visita, ci piace ricordare (e lo abbiamo anche messo come copertina) un suo classico che ne sintetizza eloquentemente il lavoro, i vermicelli di soia al sugo di ricciola e cozze: grandissimo impatto visivo, gioco di texture seducente, matrimonio tra Napoli e Asia da antologia. Con, se si vuole essere fiscali, in nuce, anche uno dei pochi difetti di questa cucina: la tendenza, alle volte, a eccedere in sapidità.
Tutto il resto della carta o dei menu è pieno di piatti arditi, spiazzanti sin dai titoli e sempre risolti con tecnica matura in grado di renderli sensati, stimolanti, originali.
Anche la sezione dessert ha il pregio di proporre preparazioni bellissime e suggestive (il babà in sospensione al cioccolato e saké, ghiacciato alla banana, forse meno riuscito nel gusto di precedenti preparazioni di babà di Apreda, ma dall’impatto visivo davvero notevole), che rendono la chiusura del pranzo memorabile.

Servizio accogliente e molto meno paludato, per fortuna, di quello che ci si aspetterebbe in un ristorante collocato in un grand hotel storico: l’affettazione non ha posto all’ hotel Hassler, fatto a immagine e somiglianza dello straordinario Roberto. E. Wirth che lo dirige da una vita.
Una parola in chiusura per il locale: la vista sulla capitale, letteralmente dal suo centro, è impareggiabile. E se la sala è improntata a un lusso internazionale con qualche virata kitsch, il panorama vi aprirà il cuore e renderà ancor più piacevole l’esperienza.

Cappesante impanate e ripiene di mozzarella di bufala, foglie di sedano e tartufo nero.
Capesante, Imàgo, Chef Francesco Apreda, Milano

I celeberrimi e portentosi cappellotti di parmigiano in brodo freddo di tonno, doppio malto e 7 spezie.
ravioli, Imàgo, Chef Francesco Apreda, Milano

Risotto al pomo d’oro provolone e cardomomo nero.
risotto, Imàgo, Chef Francesco Apreda, Milano

Babà in sospensione al cioccolato e sake, ghiacciato alla banana.
babà, Imàgo, Chef Francesco Apreda, Milano

Va preso atto che l’alta cucina nelle grandi città italiane passa sempre di più per l’hotellerie di alta gamma e che, contrariamente al passato, in molti alberghi di Roma e Milano ci sono ristoranti davvero interessanti.
In questa che è una tendenza recente, si distingue il caso di Francesco Apreda e del suo Imàgo, attivo oramai da molti anni all’interno dell’Hotel Hassler ma rarissimamente citato dalle cronache gastronomiche.
La cornice è fantastica: nel cuore di Roma e con vista, dalle sue vetrate, su tutta la città, la sala è in sé motivo di una visita. Questo che sarebbe, a tutti gli effetti, un plus, rischia però di offuscare un aspetto essenziale: all’Imàgo si mangia benissimo.
La cucina di Apreda è l’espressione matura di uno chef di grande personalità e con delle passioni forti: in particolare l’Asia, sia nella sua declinazione nipponica (Apreda ha lavorato a lungo in Giappone) sia in quella indiana (basti vedere come gli si illuminano gli occhi quando parla dei viaggi che fa da quelle parti per consulenze legate al suo lavoro). Asia che Apreda riesce a coniugare, spesso come elemento di sostegno e amplificazione, a una cucina di chiara matrice italiana e mediterranea, rispettata nei suoi dogmi ma resa moderna e stimolante.
Il tutto porta a preparazioni complesse, molto tecniche, di grande impatto visivo e, nel contempo, leggere, pulite, in cui tanti elementi eterogenei si fondono con sorprendente armonia.
Abbiamo spaziato tra classici e novità, nelle preparazioni di carni e pesci e nei dolci, trovando una cucina davvero riconoscibilissima e, che bello, senza una caduta.
Molte, anzi, le vette: splendidi tutti e tre i primi, dal risotto, ai capellini, alla pasta ripiena; molto buoni i piatti di pesce ed eccellenti le preparazioni di carne; dessert di grande tecnica e pieni di suggestioni, visive e di memoria gustativa.
Dovendo proprio scegliere un emblema, pescheremmo quello che è giustamente già un classico della maison: Cappellotti di parmigiano in brodo freddo di tonno, doppio malto e 7 spezie.
Solo a leggere il titolo tremano i polsi e invece si tratta di una preparazione esemplare: tutt’altro che accomodante, l’umami spinto del ripieno di parmigiano si abbina a un brodo di strabiliante complessità gustativa, ma rinfrescante. Sapidità spintissima, ma mai sgradevole e un matrimonio improbabile tra Italia e Giappone si celebra tra gli applausi. Altro che “cucina d’albergo”, intesa come tranquillizzanti preparazioni per ottuagenari benestanti, qui c’è personalità da vendere.

La carta dei vini permette di accompagnare la cena ai prezzi che ci si può aspettare in un locale della categoria (anche se non mancano bottiglie molto sotto le tre cifre). Interessante la selezione di bollicine italiche e francesi. Se dovessimo dare un consiglio (a questi livelli l’obiettivo è il cielo), ci piacerebbe vedere più ricerca di “chicche” e meno soliti nomi (ad esempio, oltralpe, nelle selezioni di Loira e Alsazia, regioni che possono proporre abbinamenti eccellenti con questa cucina).
Il servizio va segnalato per la capacità di dare calore alla professionalità: siete in un posto di lusso ma non ci sono affettazione né rigidità, una sensazione che all’Hassler proverete ovunque (compreso l’ottimo cocktail bar) e che è la cifra impressa dalla straordinaria direzione di Roberto E. Wirth, da oltre trent’anni al comando di questo hotel di culto.
Rapida conclusione: una meta obbligatoria.

In apertura: risotto allo spumante e blend di pepe e sesamo, caciotta e aceto balsamico. Un risotto memorabile.

Ottimi amuse-bouche

Terrina di foie gras con sgombro, miso e spezie. Coefficiente di difficoltà altissimo, abbinamento assai ardito. Risultato finale notevole

Tartare di gobbetti, pane, olio e cedro. Fine e rinfrescante, sarebbe perfetto se la proporzione fra tartare e elementi freschi fosse un po’ più spinta in favore dei secondi

Carpaccio di capesante, bacon, sale alla vaniglia. Più scolastico, ma comunque ben riuscito

Capesante impanate, ripiene di mozzarelle di bufala, foglia di sedano e tartufo. Il piatto più debole, anche se l’idea del sedano tiene tutto insieme

Cappellotti di parmigiano in brodo freddo di tonno, doppio malto e spezie. Già detto, una gran riuscita.

Capellini aglio, olio e peperoncino, anguilla affumicata e polvere di cacao. Un altro piatto di grande scuola. Splendida l’armonia tra i due mondi, impagabile la capacità di unire finezza e gourmandise.

Filetto di spigola alla Marinara fragrante, crescione e tataki di melanzana.

Grigliata di sciabola e gamberi rossi al balsamico, patate e asparagella. Come ingentilire i sapori delle grigliate estive. Tecnica spintissima.

Merluzzo carbonaro glassato al saké, verdurine in campo viola.

Piccione arrostito al tè nero e sherry, zolfini e porri strinati. La foto un po’ scura non rende giustizia a un piatto bello e buono in pari misura

Petto d’anatra in stile tandoori, lattughina e albicocche al vino. Passaggio in India, altro pezzo di bravura.

Agnello da latte alla brace di semi di coriandolo, fave e purea di pomodoro. Una delle vette della cena e un altro abbinamento oriente-occidente da applauso

Scenografica versione del babà, qui anche i dessert sono di livello.

Ricordo di uovo allo zabaione, granita di orzata alla crema di caffé. Piatto della memoria, tra le domeniche campane e le mattinate di vacanza nel salento. Regressivo e tecnico insieme.

Le bottiglie che ci hanno accompagnato durante la serata:


Il cocktail bar al piano terra, per iniziare con un Americano, se amate il genere, di rara bontà.