La Guardiense è una cooperativa agricola nata negli anni 60 dall’idea di 33 soci, nel beneventano. Ad oggi si parla di una realtà che contempla 1.000 soci agricoltori per un totale di 1.500 ettari di vigneto e una produzione pari a 200.000 quintali di uva in un anno. Il protagonismo è lasciato alle varietà autoctone campane, Falanghina e Aglianico soprattutto, suddivise in 5 differenti linee di produzione. Janare è una di queste ed è finalizzata ad esaltare i vitigni autoctoni nelle loro zone più vocate.
Naso speziato e scuro nei ricordi di cuoio, tabacco e cacao, con una nota di scorza d’agrume sullo sfondo. Il gusto di questo Aglianico del Sannio si mostra ancora nel segno delle durezze, siano esse il tannino disidratante o la freschezza netta. Manifesta una giovinezza che ha da evolvere, ma la solidità del corpo e la potenza del sorso in tutte le sue parti lasciano intendere che questo percorso accadrà nel migliore dei modi. Lo consigliamo in abbinamento a delle tagliatelle fresche al ragù di agnello.
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Un presente legato all’arte, quello di Feudi di San Gregorio, e un passato che affonda radici nella terra della zona di Avellino. Una terra da sempre vocata alla viticoltura, l’Irpinia, nella quale una realtà come quella di Feudi di San Gregorio ha voluto scavare, fino a saperne trarre la varietà e la bellezza. Oggi Feudi San Gregorio risuona come uno dei nomi più di spicco della vitivinicoltura campana. L’Aglianico Rubrato esalta la tempra potente del vitigno in una chiave di freschezza giovanile, sottolineata ancora di più dalla maturazione in acciaio, seguita da 6 mesi di affinamento in bottiglia.
Introduce la sua buona complessità con una trama di spezie, erbe officinali, confettura di corniole e caffè. La gioventù si evince nella freschezza spiccata e nella traccia tannica ancora un po’ verde, che eppure anticipa una bella eleganza, già in atto nella morbidezza e nella movenza setosa del sorso. Eccelle in persistenza. Si rende ottimo accompagnatore di una faraona arrosto.
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Si dovrà andare in provincia di Avellino, per di più in una azienda vinicola di grande rilevanza, per assaggiare la cucina di uno dei cuochi più preparati e colti di tutta la regione.
In località Cerza Grossa infatti, Feudi San Gregorio cela, con le geometrie di vetro e acciaio poggiate sui declivi arredati di viti, la sua articolata produzione di vini autoctoni ma anche la cucina di Marennà, il ristorante gourmet in affido a Paolo Barrale. Siciliano di Palermo, gioventù sul quel colle di Roma da Heinz Beck ed infine irpino di adozione, all’interno di questa azienda sempre molto attenta al marketing e alla comunicazione e con quell’idea della grande famiglia allargata ai collaboratori e ai dipendenti tutti.
Il percorso che si consiglia di intraprendere ad uno di questi tavoli è fuori di dubbio quello a mano libera, dove agilmente si rincorrono memorie e profumi della vita in viaggio dello chef, una sorta di fusion dove affiorano di volta in volta piatti di cucina francese o comunque classica, intramezzati con le suggestioni della terra irpina e della costa campana e contrappuntati poi dalle schegge della grande anima araba dei siciliani. Un modo per non affaticare mai il palato, divertirsi ad una tavola ricca di profumi, cercando più rotondità che spigoli, più accordi che contrasti.
Così il cammino che si apre con il fioretto dei due piatti di mare giocosi, lavorati senza fiamma e dai profumi intensi della pesca e del cocco, comincia a intensificarsi con la sciabola della salinità della guancia prima salmistrata e successivamente cotta nel brodo, per poi culminare nella terrina di foie gras, di ottima fattura, accompagnata da un pan brioche caldo in cui si riconosce la terra natia dello chef.
Analogamente nei primi piatti si palesano le anime plurime che ispirano questa cucina. Un risotto di mestiere, dove il finocchio contiene gli eccessi delle alici, un raviolo più casalingo, semplice ed accattivante e quei piccoli cannelloni dove finalmente leggere il territorio irpino nelle sue tipiche espressioni di carni e formaggi. I due secondi riprendono la giostra con una spigola, prima al cucchiaio in versione cruda e vegetale, poi al trancio nel piatto, in oliocottura, speziato dal cous cous e magnificamente amplificato da una bisque di crostacei ed infine con un piccione, non memorabile ma di corretta esecuzione, sezionato sulla lavagna divenuta piatto.
Sui dessert mano felice, come ci si aspetta da un siciliano, con sorprendenti azzardi di sconfinamenti salati, prima con una delizia al limone a strati sovrapposti, dove si infiltrano i cristalli Maldon e poi con un cannolo sottilissimo e croccante, dove mascarpone e gelato sono solo sponde grasse ad un raffinato crunch di scarola ed alle erbe amaricate dal liquore benedettino.
Le ultime note sono per un servizio competente e preciso, un conto più che onesto, una carta dei vini ormai non più confinata nelle etichette aziendali e un maître, Angelo Nudo, che non smette di migliorarsi mai.
Il volume della struttura. Imponente ma non impattante.
La terrazza della sala affacciata sulle valli.
L’orto, dispensa naturale dello chef.
Meringa soffice di Aperol e burro di arachidi. L’aperitivo dello chef.
Il pane. Notevolissimo, per varietà e qualità.
Gazpacho. Crudo di scampi, brunoise di pesca, pomodoro e caviale di peperone verde. Inizio leggero e di grande freschezza, a suggerire un percorso di lento e progressivo corpo.
Caprese di capasanta… in Perù. Omaggio alla cucina andina, con la ceviche di capasanta al lime, pomodoro e latte di cocco.
Bollito… alla palermitana. Un altro accenno alle contaminazioni geografiche con la guancia di vitello salmistrata. Elegante l’impiatto con il foglio di gelatina del brodo a velare la carne. Completa il succo di insalata versato al tavolo.
Terrina di fegato grasso d’anatra. Marinato a crudo ecco il foie gras, accompagnato da albicocche, mandorle, miele e lavanda. Abbinamento zuccherino classico con dell’ottimo pan brioche. E qui ci sono tutti gli anni con Heinz Beck.
Risotto. Buona mantecatura, equilibrio in gioco dolce/sapido con il finocchio e le polpette di alici.
Ravioli alla “Neranese”. Una variazione sul tema omaggio al piatto simbolo di quel tratto di Costiera Sorrentina. Le zucchine sono dentro e fuori il raviolo poi condito con burro e parmigiano.
Cannelloni. Con ragù di agnello, cicoria, latte di pecora e pecorino. Intensità a fondo scala per un solido piatto di territorio.
Spigola. Torna l’anima siciliana con il cous cous speziato a profumare la densa riduzione del fumetto di pesci di scoglio. A lato un cucchiaio di introduzione al piatto con una tartare con note vegetali.
Piccione. Un altro classico in tavola. Una ricomposizione delle sue parti con pop corn, cipollotto e le dissonanze del coccolato bianco e del caffè.
“Verde”. Cannoncini al mascarpone, biscuit alla scarola, succo di erbe di campo, amaro benedettino e gelato alla gianduia. Nome minimale per un dessert di struttura viceversa complessa, di contrasti e addizioni. Si compone boccone dopo boccone con un gran finale al palato.
Al bancone del bar per i conclusivi petit four.
Recensione ristorante.
La scommessa della proprietà di Feudi di San Gregorio è stata vinta da tempo. Prima l’azienda vinicola, balzata in pochi anni ai vertici regionali, sebbene i suoi vini abbiano fatto discutere, e non poco, i “puristi”. Poi il ristorante, il Marennà (fare merenda nel dialetto locale), incastonato in una struttura industriale di grande modernità ed apprezzabile design.
L’ambiente non può definirsi propriamente “caldo”, spazi ampi, un po’ spogli e grande cucina a vista, ma, per converso, si nota attenzione nell’utilizzo di materiali di pregio, dai tovagliati al pellame delle comode sedute. Da rivedere, invece, l’illuminazione dei tavoli, poco efficace.
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