In un paesaggio di estrema bellezza come la costiera amalfitana, ecco affacciarsi a strapiombo sul mare Furore, un piccolo borgo dove le vigne sono abbarbicate sulle rocce e trattenute dai muretti a secco. Lì, affacciate al sole e al mare, descrivono un panorama unico. Un paesaggio in cui anche il paese e i suoi abitanti appaiono come fraseggi, animando una collina diventata quell’ideale comprensorio del paradiso terrestre in cui regna Marisa Cuomo. Tra i suoi meriti c’è senza dubbio la capacità di esser riuscita a lavorare un territorio impervio e difficile tramutandolo in vigneti eroici e producendo vini di alta qualità che richiamano il mare, il suolo e le note mediterranee. Ma non solo, c’è la trasformazione di cotante virtù in uno stile produttivo personale nonostante la terra sia aspra e difficile, sopratutto per il lavoro di sacrificio in vigna.
Sono la determinazione e l’amore per la viticoltura che portano nel 1980 Andrea Ferraiolo e Marisa Cuomo a fondare l’azienda vinicola con 20 ettari vitati, seguendo un tracciato geometrico sovrastante il fiordo di Furore affacciato sul Golfo di Salerno, comprendendo anche le spettacolari cantine scavate nella roccia.
Nel tempo, il lavoro tra vigna e cantina ha dato ottimi risultati, tanto da raggiungere i confini d’oltremare ed imporsi nel mercato estero.
Le cantine Cuomo seguono l’identità territoriale nella produzione di vini tipici locali come i bianchi da uve Falanghina e Biancolella e i rossi Aglianico e Per’e Palummo (per dar vita al Furore rosso), con procedure rigorose legate alla tradizione locale.
Tra la gamma, il Costa d’Amalfi Furore Bianco 2017 è un vino che racchiude l’identità di un territorio ricco di fragranze e di colori, in una terra bellissima e unica. Il Fiorduva è invece un uvaggio di uve Ripoli, Fenile e Ginestra; nel bicchiere il colore giallo paglierino rilascia riflessi verdognoli. All’olfatto abbonda di profumi di fiori di campo, in primis, degli aromi delicati dei limoni e dei bergamotti della costiera amalfitana e delle folate di vento salmastro. Il sorso richiama la freschezza della brezza marina contornata da una rinfrescante acidità salina, per in un finale di lunga persistenza che ritroviamo nella beva.
Marina del Cantone è un sogno ad occhi aperti: non ci si stanca mai di tanta bellezza, un luogo da cartolina ma che si lascia vivere con disarmante semplicità. E Marina del Cantone non sarebbe stata (e non sarebbe oggi) la stessa senza la famiglia Caputo.
Quando pensiamo ai grandi luoghi dell’ospitalità italiana, la Taverna del Capitano occupa uno delle posizioni più alte. Un vero tempio del buon vivere italiano: questo non è solo un ristorante/albergo, questa è una casa del Sud che ha deciso di aprire le sue porte al mondo. E’ questo il nostro modo di dare ospitalità e, permetteteci un filo di campanilismo, quando giochiamo al meglio con i nostri punti di forza, non ce n’è per nessuno, Francia inclusa. Una ospitalità fatta di calore e non di lusso, di accoglienza, di attenzioni sincere e mai costruite, di passione.
Questo luogo è lo spot ideale per capire come dovrebbe essere gestito il nostro Paese, in lungo e in largo, per diventare il riferimento turistico mondiale: giusti numeri, qualità, amore per il proprio lavoro.
Per una volta non vogliamo parlare solo di cucina, sarebbe riduttivo. E non perché la cucina di Alfonso Caputo non meriti attenzioni profuse, tutt’altro: in particolare in quei piatti in cui si gioca la carta della semplicità, senza sovrastrutture o eccessi di ingredienti, la mano di Alfonso è felicissima. Ricorderemo a lungo la sua zuppa di pesce: semplicemente un riferimento assoluto per un piatto troppo spesso bistrattato.
No, sarebbe riduttivo perché qui bisogna parlare di “esperienza Taverna del Capitano”: un percorso tutto da vivere, che va dall’addormentarsi facendosi “cullare” dal rumore delle onde del mare, al godere di una delle colazioni migliori mai provate in tutti i nostri giri culinari, fino appunto alla felicità di leggere con avidità il menù, facendosi rapire dal buio che piano piano arriva ad avvolgere la baia.
Vedere il pesce che arriva la mattina e farsi spiegare tutti i dettagli da Alfonso, lasciarsi sedurre dalle mille proposte turistiche di Claudio (per inciso, un gigante della sala italiana) o conversare amabilmente con Mariella.
Non venite solo a mangiare qui. Questo è un luogo che richiede tempo.
Il ristorante avrebbe bisogno di innovazione? No, tutto il contrario. Noi crediamo che Alfonso Caputo, che è un grande cuoco, dovrebbe guardare sempre di più alle sue origini, giocando a togliere anziché a mettere. La qualità di questo pescato ha pochi uguali, allora si ha il dovere di lasciargli la scena, come avviene in moltissime preparazioni qui alla Taverna. Ci hanno raccontato che qui, più di 20 anni fa, si girava tra i tavoli con il carrello del pescato del giorno, il cliente sceglieva il pesce e poi si faceva consigliare la preparazione più adatta. Un modo di fare ristorazione che, all’epoca, non piacque alla critica. Forse i tempi non erano maturi… ma che gran provocazione sarebbe riproporlo oggi.
Dimenticate l’auto, il telefono, lo stress, tutto. Cercate di fermarvi almeno una notte, se potete più di una.
Mangiate alla carta tutti i piatti storici della Taverna, una cucina decisamente più efficace alla carta che in un menù degustazione. E godetene.
Alla partenza, conterete i giorni che vi separeranno dal vostro ritorno qui.
Ne siamo assolutamente certi.
“Raviello è una terrazza affacciata sul mare,
vive racchiusa dentro a due occhi azzurri
nei quali è impossibile non precipitare.
Raviello è un’ape Regina elegante
posata sui suoi cento altari di fiori,
opera d’arte dal sorriso cangiante.
Raviello è sambuco e castagno,
anima gotica, polmone barocco,
bacchetta magica della Campania.
Raviello è ripida quanto un’emozione,
Festival del vento, torrente Dragone,
Villa Rufolo, Villa Cimbrone.”
Lasciamo alle parole del poeta Luca Gamberini la narrazione di questo luogo magico e straordinario. Villa Cimbrone è una perla che basterebbe di per sè. Ma la proprietà, la famiglia Vuilleumier, giustamente non si accontenta e non si siede sugli allori. E quest’anno avvia un progetto di rilancio del settore ristorazione, e non solo, che vuole portare questa struttura al livello che le compete.
Assume un giovane ma già affermato cuoco, Crescenzo Scotti, di origini campane ma a lungo emigrato in Trinacria, e porta un Restaurant Manager di nome Pino Savoia ed una sommelier di nome Giusy Romano, due veri e riconosciuti fuoriclasse, per questo ambizioso progetto di crescita.
Alla prima stagione i risultati sono decisamente più che incoraggianti. Tanto lavoro ancor da fare, ma già qui l’eccellenza si intravede. Con un servizio che una volta tanto, e sappiamo quanto sia raro questo, è a livello della cucina. Riesce ad incalzarla, stimolarla, in un gioco di rincorsa virtuoso che può portare certamente ad alti livelli.
Abbiamo riflettuto parecchio su che votazione dare a questo ristorante. E questa cucina, nelle giuste mani, siamo convinti saprà presto mantenere quanto promesso e anzi, superare agevolmente questo valore. Oggi ancora non pieno, ma non ci sentivamo di penalizzarlo per una serie molto lunga di motivi: una materia prima impiegata di estrema qualità, un senso del gusto davvero interessante, una raffinatezza d’insieme già di livello. Con qualche ruvidezza e scompostezza ancora da limare, certo. Che però non potrà che migliorare, con l’apporto ed il dialogo continuo con una accoglienza di sala, ci ripetiamo, di prim’ordine.
Facciamo ora parlare i piatti, la cucina, e vi invitiamo ad organizzare al più presto un una visita in questo luogo baciato da Dio, che vi saprà regalare piacevoli emozioni.
Amuse bouche, migliorabili.
Ottimi pane e burro.
Cappuccino di patate e astice… omaggio ad Alajmo. Una splendida spuma di patate sifonata su brunoise di astice e polvere liofilizzata di nero di seppia. Un inizio davvero concentrato, lucido, vivido e intenso. Spuma lievemente acidulata.
Pizza fritta con crudo di scampi, gelatina di lime, burrata e pomodoro in due consistenze.
Interessante utilizzo del disco di montanara fritta ad accompagnare un piatto crudo con degli scampi di qualità eccelsa, un buon caviale, pomodorini appassiti e in salsa davvero intensi, e burrata a terminare il giro della grassezza. Piccoli cubetti di gelatina di lime (perchè non di Sfusato?) a chiudere il cerchio gustativo.
Calamaro all’amatriciana con cremoso di pecorino di grotta dei monti lattari e mollica di tarallo napoletano. Evidente errore di proporzioni in merito alle briciole del tarallo. Troppe. Ma troppe anche per il piatto alla carta, che avrebbe avuto sei anelli invece di 2. E poi nota croccante fin anche pleonastica. Qui la salsa di pecorino e l’intingolo di amatriciana con un calamaro che faceva ancora il latte (cotto magistralmente e fresco come una rosa) erano già più che sufficienti.
Linguine di gragnano con ragu di seppia, maionese al pistacchio di bronte e “pane conza” allo sfusato amalfitano. Piatto ottimo, non fosse per quel pane cunzato che, nuovamente, con l’aggiunta della nota croccante e acida “sporca” un po’ la sua finezza. Richiamo certo alle paste siciliane, dove lo chef si è formato, ma lavorare sulla finezza e sull’elementarità non guasta affatto.
La pasta alla sorrentina secondo lo chef. Paccheri di gragnano farciti con ricotta di bufala, mou di pomodoro di Furore, fusilloni con cremoso di reggiano e spuma di provola affumicata. Grande piatto, goloso ma al contempo fine e contrastato.
Cappelletti alla genovese di bufalo farciti con burro e salvia, spuma di verdure e cremoso di pecorino di Tramonti. A parte la seconda sifonata del giorno, e non l’ultima, una concentrazione nella salsa alla genovese davvero pazzesca! Il titolo del piatto trae in inganno perché la salsa alla genovese è nel piatto e i cappelletti sono ripieni solo di burro e salvia. Piatto spaventosamente preciso, goloso, ma anche aromatico. E il giro del pomodoro che si vede in foto tutt’altro che pleonastico.
Risotto acquerello come una bruschetta con crudo di pomodoro corbarino, frisella e origano. In questo piatto è stata sbagliata sia la stoviglia (piatto da impattare in un piano disteso) sia la cottura, lievemente oltre. La frisella sbriciolata sotto il riso, poca ma necessaria, aromatizzata all’origano e quella fantastica e concentrata spuma di sugo di pomodoro, fanno comunque svettare questa preparazione.
Ottimo pane in accompagnamento.
Astice blu del mediterraneo in due servizi: zuppetta tiepida di tenerumi di zucchine e chele di astice. Astice alla griglia con stinco di vitello croccante su patate schiacciate al lime, midollo di bue caramellato e il suo jus. Asticello davvero notevole, iodato e sapido come non ne sentivamo da tempo. La zuppa e il secondo servizio sono lì a parlare nelle foto. Bello, goloso, tecnico e finemente bilanciato.
Cambio nuovamente del pane di servizio.
Carrè di agnello di laticauda, appareil alla bacca di vaniglia e pistacchi di bronte. Unico piatto davvero difficile. Materia prima ineccepibile, cotture perfette, ma troppo virante sul dolce con vaniglia e pistacchi. Manca un elemento contrastante, o per lo meno una chiusura più neutra.
Un intermezzo divertente…
I dessert… buoni ma su cui lavorare, in finezza e modernizzazione.
Cetara è un piccolo borgo della Costiera Amalfitana.
Un gioiellino composto da piccole case arrampicate l’una sulle spalle dell’altra, a pochi passi dal mare.
I vicoli, sempre brulicanti di vita, di sera si svuotano e l’atmosfera diventa irreale.
Cetara è nota in tutto il mondo per la colatura di alici, una salsa sapida e trasparente dal colore ambrato, ottenuta facendo “maturare” le alici nei terzigni, piccole botticelle in legno di faggio o di castagno. Le alici sono prima decapitate ed eviscerate, quindi vengono disposte nel terzigno l’una accanto all’altra. Tra ogni strato si spargono pugni di sale. Sopra a ogni barile è posto un peso così da premere bene i pescetti e consentire la fuoriuscita del prezioso nettare. Dopo circa 5 mesi la colatura è recuperata e imbottigliata.
Fermarsi qui, anche solo per gustare un piatto di pasta alla colatura o acquistare una preziosa bottiglietta, vale la pena.
Se invece si decide di fare sul serio, affrontando un pasto completo, le proposte certo non mancano.
Tra queste spicca “Al Convento”, ristorante tipico gestito dalla famiglia Torrente, scelta ottimale per il rapporto qualità/prezzo. L’arrivo da Salerno è breve e, lasciata la strada che conduce ad Amalfi, conviene scendere sino al porto per parcheggiare. A quel punto, a piedi, ci vogliono cinque minuti per raggiungere la piazza della chiesa di San Francesco e quindi il Convento.
Il locale, come recita il nome, è ricavato nel chiostro dell’ex convento della piccola chiesa del XIV secolo. Alle pareti antichi affreschi, piatti in ceramica decorati, foto e ritagli di giornale che informano della carriera calcistica di Vincenzo Torrente, uno dei figli del patron.
Lo stile generale è semplice: tavoli in legno, apparecchiatura classica e sedie con la seduta in paglia intrecciata. Lungo un lato del ristorante corre una scaffalatura in legno che raccoglie i vini rossi, seguita da una grande cella frigo per i vini bianchi. Una particolarità: non c’è una carta dei vini, ma chi vuole bere deve alzarsi e scegliere direttamente la bottiglia indicandola al cameriere.
Il servizio è celere, attento e sempre sorridente. La clientela è varia, si va dai locali agli stranieri così come il menù, che spazia tra i piatti della tradizione ed alcune portate di carne. Tra le proposte la nostra scelta cade sul menù degustazione cetarese, che decidiamo di accompagnare con un Fiano Donnaluna del 2013.
La mise en place.
Si parte con un antipasto misto a base di alici marinate, pane burro e alici, alici alla scapece, alici fritte farcite con la provola e una polpettina di alici. Al centro del tonno sott’olio con pomodorini corbarini. Stuzzicante.
Lo chef vedendoci dubbiosi sulla scelta del primo piatto, ci toglie dall’imbarazzo proponendo un bis di primi. Partiamo con degli ziti di Gragnano spezzati conditi con una genovese di tonno e basilico. Sublime la consistenza del tonno. Tante le cipolle, forse troppe perché infine hanno reso un po’ troppo dolce il piatto.
Gli spaghetti alla colatura di alici sono stati il secondo assaggio. Ensemble di pasta e colatura saporita e profumata. Indimenticabile!
Anche il secondo è stato un doppio assaggio. Un bel fritto croccante del Golfo composto da alici (ça va sans dire), soglioline, un totano e una triglia.
A seguire alici fritte con il cipollotto nocerino. Il cipollotto, tagliato a listarelle, è dolce e si sposa benissimo con la carne compatta e iodata dell’alice. È un piatto da condividere perché ha un elevato potere saziante.
I dessert sono di una rinomata pasticceria di Vietri. Il babà, goloso con la crema pasticcera, e la peccaminosa “delizia al limone”.
Il San Pietro è un’istituzione, un simbolo della Costiera Amalfitana, la cui fama si estende ben oltre i confini nazionali.
Basti pensare che, nonostante il costo non propriamente popolare delle camere (in alta stagione dai 620 euro/notte a salire vertiginosamente), c’è il tutto esaurito da maggio ad ottobre.
Un luogo amato da chi vi soggiorna, un angolo di paradiso, eremo di lusso e tranquillità alle porte di Positano.
Tutto iniziò con Carlino Cinque, maestro del bien vivre, il cui culto per l’ospitalità è rimasto immutato nei decenni ed egregiamente ereditato dai suoi discendenti Carlo e Vito.
Ovviamente cotanto albergo, da cui si godono panorami di bellezza struggente, non poteva non puntare sulla ristorazione di qualità per offrire ai facoltosi clienti un giusto premio dopo le “fatiche” della giornata trascorsa a bordo piscina o in riva al mare.
La cucina è affidata da un decennio al belga Alois Vanlangenaeker che le ha saputo dare una chiara impronta mediterranea a dispetto delle sue origini.
Ogni ingrediente parla di questa terra baciata dal sole (salvo, ovviamente, qualche piccola eccezione), ed i profumi sono quelli dell’orto del San Pietro, un autentico gioiello incastonato nella scogliera, che regala prodotti splendidi, dai pomodori alla menta, dal basilico alla verbena.
La proposta ristorativa si divide tra lo Zass, aperto al pubblico esterno, ed il Carlino, giù, vicino al mare e buen retiro per i soli ospiti dell’albergo.
Lo chef fiammingo, approdato in Costa d’Amalfi dopo importanti esperienze professionali alla corte di Ducasse a Monaco e Parigi, al Jean Georges’s di New York, al Don Alfonso 1890 e al Mikuni di Tokyo, ha le doti necessarie per soddisfare i palati più esigenti.
Le basi per far bene ci sono, quindi, e la proposta non delude, sebbene in alcune preparazioni si abbia la netta sensazione che non si affondi sull’acceleratore. Chiaro segnale ai naviganti gourmet: è pur sempre il ristorante di un albergo di lusso, accontentare tutti i palati è d’obbligo.
Nello specifico, i secondi di pesce segnano il passo, preparazioni non convincenti, con abbinamenti a volte poco riusciti e salse non perfette.
Più interessanti gli antipasti con un buon astice al vapore perfettamente accompagnato da una notevole maionese d’uovo, ed il polpo arrosto con melanzane, capperi e piacevole sentore di verbena.
Molto buone le paste, home made. Particolare menzione per i ravioli di polpo e i maccheroncelli all’uovo con noci, acciughe ed astice marinato.
Dolci sottotono, con l’unica eccezione per il morbido tortino alla crema di limoni.
Servizio accorto e gentile, carta dei vini interessante, specie in regione, con ricarichi a 5 stelle.
Nota decisamente negativa, infine, per l’odioso balzello del 15% di servizio, applicato unicamente al conto degli ospiti che non soggiornano in albergo. Trattamento non condivisibile, che divide in due nette categorie chi si siede ai tavoli del ristorante, tanto più se, al momento della prenotazione, nulla viene riferito in proposito.
Appetizer: spigola in pasta fillo spadellata, con salsa tartara.
Carpaccio di gamberi alle erbe aromatiche e verdure croccanti. Delicato.
Insalata di mare con verdure, spuma di patate e vongole, piuttosto scolastica.
Astice al vapore con maionese al bianco d’uovo, senape in grani ed avocado. Buona la qualità dell’astice, interessante la maionese, leggera ma dal sapore intenso.
Polpo arrosto con caviale di melanzana, capperi e verbena. Molto interessante la freschezza conferita dalla verbena che abbonda sui terrazzamenti dell’albergo.
Gnocchi di patate ai fiori di zucchina con burrata e tartufo estivo. Piatto naturalmente goloso, ma ben bilanciato nelle sue componenti grasse.
Ravioli al polpo con olive di Gaeta e limone candito. Davvero ben fatti, sfoglia callosa ma sottile, limone essenziale per la riuscita del piatto.
Maccheroncelli all’uovo, noci, acciughe e astice marinato allo yogurth e lime. Anche in questo caso notiamo l’intelligente utilizzo del sentore agrumato per dare una spinta di freschezza al piatto.
Tortelli farciti di ricotta di bufala e maggiorana, pappa al pomodoro. Sfoglia ben tirata, al palato leggermente monocorde.
San Pietro spadellato, cetrioli profumati all’anice stellato, salsa al rhum agricole. Preparazione che ci ha fatto storcere il naso. I cetrioli declinati in duplice versione sottraggono carica gustativa senza aggiungere finezza. Salsa sottotono, non percettibile il sentore di rhum.
Filetto di spigola alle olive nere, insalata di fagioli bianchi e scampi. Il flebile sapore di questa spigola è stato fortunatamente compensato dalle olive. Scampo ad impreziosire il piatto, ma interagisce poco con gli altri ingredienti.
Triglie spadellate, riduzione di zuppa di pesce, finocchi e burrata.
Tortino di fichi con lamponi e gelato allo yogurt. Se non avessimo visto il fico fresco a far bella mostra di sé in cima al tortino difficilmente ne avremmo inteso il gusto…
Babà al rum, gelato alla vaniglia, riso al latte. Buona versione del celebre classico napoletano.
Crema bruciata con mirtilli, sfoglia croccante e gelato al pistacchio. Pistacchio non pervenuto, creme brulée ordinaria.
Tortino alla crema di limoni del San Pietro. Il migliore del lotto, davvero ben fatto.
Petit fours
Tavolo con vista
Il terrazzo
Vista sulla piattaforma a mare
L’orto
Il mare ed il prato