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Coltivare

La new wave della cucina langarola

Luca Zecchin, 43 anni, dopo gli studi all’istituto alberghiero di Agliano Terme e qualche esperienza per farsi le ossa in giro per l’Italia, approdò a soli 20 anni nello storico ristorante da Guido che allora era nella sede storica di Costigliole d’Asti. Qui, sotto la guida della grande Lidia Alciati – colei che, è bene ricordarlo, ha “sacralizzato” gli agnolotti del plin serviti come da tradizione sul tovagliolo facendoli diventare l’oggetto di culto che sono oggi –  e dei figli Ugo in cucina, Andrea in sala e Piero ai vini, si è formato ed è cresciuto professionalmente. Nel 2002, quando Andrea Alciati trasferisce il ristorante da Costigliole all’interno de Relais San Maurizio, a Santo Stefano Belbo, ad affiancare Lidia c’è proprio lui, che prenderà le redini della cucina in prima persona nel 2008 quando la grande cuoca venne a mancare. Questi brevi cenni biografici sono necessari per capire quanto Luca Zecchin abbia respirato e praticato la grande cucina delle Langhe, così ricca di tradizioni e di prodotti assolutamente straordinari.

Oggi Zecchin guida la cucina di Coltivare, l’agri-relais fortemente voluto dalla famiglia Bagnasco, proprietaria dell’Agricola Brandini. Posto bellissimo, a La Morra, nel cuore della Langa del Barolo, la struttura, che dispone anche di cinque camere, ha una bella piscina all’aperto, un centro benessere e, appunto, il ristorante gourmet Coltivare.

Qui l’attaccamento al territorio e alla tradizione piemontese dello Chef è ben rappresentato da uno dei quattro percorsi di degustazione e misurata creatività chiamato proprio “Grande Piemonte“. Gli altri menù lasciano più spazio al puro estro di Zecchin e prevedono piatti di concezione più moderna, alcuni dei quali dedicati al pesce.  

Una cucina sapientemente tarata tra territorio e misurata creatività

Dalla cucina escono alti e bassi. Eccellente lo Spaghetto di Enkir con storione affumicato e caviale italiano rifinito al tavolo con una salsa al burro bianco e perfetti – e non poteva essere altrimenti – gli Agnolotti del Plin alle tre carni, molto buono anche il Germano servito con il petto al rosa, una salsa di Barolo Chinato e mirtillo rosso, accompagnato dalla parte più golosa: un Pithivier ripieno delle cosce arrosto, albicocche candite e fagioli fermentati e, accanto, dal filetto crudo del volatile; una preparazione classica che gioca in maniera convincente sui temi del dolce e dell’amaro. Ci aspettavamo, invece, qualcosa in più da un piatto iconico come il Girello di vitello tonnato che ci è sembrato in versione un po’ dimessa, mentre rivedibile il dessert, una rivisitazione del Montblanc, a nostro giudizio un filo stucchevole.

Si mangia in una sala con enormi vetrate rivolte sul giardino e sulle colline circostanti, in cui fa bella mostra la cucina a vista. Il servizio è premuroso ed efficiente, la carta dei vini, non amplissima, comprende, ovviamente i vini della proprietà. Nel complesso si tratta di una tappa consigliata per chi voglia fare un salto nella buona cucina piemontese (ma non solo) e godersi un territorio tra i più suggestivi e più importanti d’Italia.

IL PIATTO MIGLIORE: Spaghetto di Enkir: spaghetto di pasta fresca, storione affumicato e caviale italiano (salsa al burro bianco).

La Galleria Fotografica:

Il Barolo di generazione in generazione

Quella dell’azienda Elvio Cogno è una bella storia da raccontare, una storia di intraprendenza e valori d’altri tempi, giunta fino a noi attraverso il susseguirsi delle generazioni. Il tutto ha inizio nella pittoresca cittadina di La Morra, nelle Langhe Piemontesi, dove Elvio Cogno, classe 1936, è il titolare del Ristorante dell’Angelo. Quello che viene servito in tavola ai clienti è l’ottimo vino che la famiglia Cogno produce da sempre per passione, un buon mezzo per impiegare il tempo libero e per smussare i costi che la gestione di un locale comporta.

Negli anni ’50 tuttavia, grazie al sostegno di un socio e al crescente plauso che circonda le bottiglie, Elvio Cogno ha la sua personale epifania e decide di lasciare l’industria della ristorazione per occuparsi della produzione di vino, iniziando una collaborazione con la tenuta Marcarini. Il principio che guida ogni suo intento è chiaro fin da subito: valorizzare l’immenso potenziale dei vini delle Langhe. Potenziale che a quel tempo ancora in pochi riescono a vedere. Un primo atto in questo senso si ha nel 1964, quando è tra i primissimi a decidere di etichettare i suoi vini con il nome del vigneto, Vigna Brunate nel caso specifico, così da esaltare il carattere unico del vino e del terroir da cui proviene.

Innamoratosi di Cascina Nuova in località Ravera, un fatiscente casolare posto alle pendici del paese di Novello, Elvio Cogno prende il coraggio a due mani e si mette in proprio, ricominciando di nuovo dall’inizio nonostante i venerandi sessant’anni di età che gli pesano sulle spalle. Al suo fianco la figlia Nadia e il marito di lei, Valter Fissore. Vede così la luce nel 1995 la prima bottiglia di Barolo Ravera, il primo a portare in etichetta una menzione geografica, un’innovazione che sarebbe stata regolamentata ufficialmente soltanto anni più tardi.

La filosofia produttiva di Cogno rimane profondamente radicata nella tradizione, prevedendo lunghe fermentazioni e invecchiamento in grandi botti. L’approccio alla terra, tuttavia, è profondamente innovativo per il tempo. Si indagano le dinamiche che sottendono il rapporto tra la vite, il viticoltore e l’ambiente; si cerca di comprendere a fondo quello che ai giorni nostri, più semplicemente, chiamiamo terroir.

Un approccio che ai giorni nostri viene perpetrato da Nadia, Valter e la figlia Elena, che con due generazioni di sperimentazione ed esperienza alle spalle, continuano a produrre vini profondamente legati al loro territorio, con un crescente impegno per la sostenibilità in ogni fase della produzione.

Con quattro distinte etichette di Barolo prodotte nella denominazione Ravera —Vigna Elena, Bricco Pernice, Cascina Nuova e Barolo “Ravera”—, l’azienda Elvio Cogno oggi detiene con orgoglio la maggiore superficie vitata della sottozona. Una gamma completata dagli altri vini tradizionali del territorio (Barbera, Barbaresco, Dolcetto e Nebbiolo), con una particolare attenzione riservata alla Nas-cëtta, vitigno autoctono di Novello pressoché andato perduto e vero e proprio feticcio di Valter, che ha combattuto una lunga battaglia per legittimarne la coltivazione (battaglia vinta e poi sfociata nella nascita di un consorzio di produttori che oggi ne promuove e tutela l’identità).

Barolo Ravera

Il Barolo Ravera nasce nello storico “cru” di Novello, su quel “Bricco Ravera” che ospita altresì il cascinale di famiglia e gli undici ettari di vigneti di proprietà. L’assaggio di quattro differenti annate si è rivelato il metodo di indagine ideale per coglierne tutte le sfumature gusto-olfattive, che da un lato dimostrano la coerenza gustativa di un vino di fatto proveniente dallo stesso vigneto, e dall’altro l’influenza della particolare annata sul suo carattere complessivo.

Barolo Ravera 2019

Nonostante la giovane età, l’annata 2019 mostra già i primi tratti dell’eleganza e della profondità che contraddistinguono i vini di questa azienda. Se allo stato attuale è tutto un barcamenarsi tra timide note scure di mora e mirtillo, con qualche fugace incursione balsamica e speziata, già si intravede il longevo futuro di questo vino. Aspettate qualche anno e vedrete.

Barolo Ravera 2016

Particolarmente pronta ed espressiva l’annata 2016, una bottiglia che affascina per la sua immediatezza e il suo perfetto equilibrio. Le note olfattive sono nette, con prugna e rosa canina che prevalgono su uno sfondo già molto più complesso della bottiglia precedente. La rotondità aumenta, così come il tannino, la cui trama si infittisce. Una bottiglia di grande eleganza e bevibilità.

Barolo Ravera 2013

La 2013 è la più austera delle annate in degustazione. Col trascorrere dei minuti si apre lentamente, mettendo in mostra fugaci accenni della sua personalità. Anche in questo caso è evidente come questa bottiglia offrirà piacevoli sorprese negli anni a seguire; già adesso, tuttavia, colpisce per i tratti sottili e di estrema finezza. Mora, prugna, tabacco, cuoio e ancora note mentolate e liquirizia. Il tutto delicatamente accennato, con un gusto che si fa via via più rotondo e profondo.

Barolo Ravera 2010

Gli anni che iniziano ad accumularsi sull’annata 2010 la rendono una bevuta di livello superiore. Sia chiaro, l’invecchiamento di cui può godere questo vino è lontano dall’essere concluso. Al palato dimostra una vivacità tale da sembrare ancora imberbe, ad ennesima dimostrazione della sua estrema longevità. Ogni componente è in un equilibrio di grande precisione: il tannino è fittissimo, ma setoso; la rotondità e la dolcezza aumentano, ma sono perfettamente stemperate dalla bella freschezza e da una spiccata sapidità. Il colore è il più concentrato, così come l’intensità degli aromi, che aumentano anche di complessità. Mora, prugna, mirtillo, rosa canina, caffè, tartufo, cacao, mentuccia… un tripudio olfattivo che trattiene il naso nel calice.

* I vini di Elvio Cogno sono distribuiti da Sarzi-Amadè.

Un criterio di scelta nel panorama vitivinicolo italiano post-pandemia

Il mondo del vino negli ultimi decenni ha abituato il mercato a un processo di graduale crescita della qualità e di conseguenza a un motivato incremento del valore della bottiglia, auspicabilmente con effetto su tutta la filiera, dall’uva al calice a tavola. Fra le discussioni sul cambiamento climatico e l’incremento della richiesta dei mercati emergenti, per il miglioramento del prodotto ci stavamo abituando alla riduzione delle quantità e dunque al completo esaurimento delle partite di vino immesse sul global market. Poi è arrivato il Covid.

Attilio Scienza, fra i massimi esperti di viticoltura, in un’intervista durante la pandemia rifletteva su quanto le epidemie abbiano avuto un impatto sulla storia dell’umanità, in particolare proprio sull’agricoltura. Venendone fuori, dovremmo tutti assumere uno status di nuova responsabilità nel rapporto con l’ambiente e i prodotti della natura. Auspicabile, certamente; ma è pur vero che tutte le società, le grandi masse umane nei loro territori antropizzati, tendono ad assumere un comportamento proporzionale appunto alla propria quantità di massa, intesa come concetto fisico (quantità di materia, peso); dunque conservano un’immensa inerzia che dopo lo svolgimento di un fenomeno, quale che sia, riconduce allo stato iniziale. 

Di certo il Covid ci ha dato l’occasione di riflettere tanto. Sul mercato, sull’economia e sulla salute fisica e mentale dell’uomo e, in queste lunghe riflessioni, durante i due lockdown fra 2020 e ‘21, abbiamo anche pensato a quale possa essere un criterio guida nella scelta del vino da parte del consumatore, visto l’incremento della qualità e il conseguente aumento dei prezzi al consumo. Nel mentre, incrociando le dita, fra vaccini e immunità di gregge, possiamo provare a dire che la pandemia sia finita. Durante le chiusure buona parte delle cantine hanno continuato ad accogliere – con prudenza e cautela – la stampa e così il mondo dell’informazione ha continuato a raccontare il vino, seppure, come sappiamo bene, con lo stop praticamente totale della ristorazione si sia stappato molto meno. Ciò ha comportato un prolungamento forzoso dei vini in autoclave e per gli spumanti sui lieviti le soste sono diventate conseguentemente molto più lunghe (unica nota positiva per gli amanti dello champenoise o metodo classico di grande complessità). Ma la preoccupante conseguenza, soprattutto per le piccole cantine, è stata quella di non avere recipienti ove stoccare il vino dell’ultima vendemmia. Con l’onere di prendere decisioni anche drastiche; mentre l’OIV stimava che un arresto dei principali canali di distribuzione avrebbe portato a un calo complessivo del 35% dei volumi di vendita e a una perdita pari al 50% in valore, le aziende vitivinicole oltre a pensare di abbassare i prezzi, tendevano a smaltire con la distillazione o persino a buttare il prodotto. Non è il caso di ripercorrere qui le drammatiche ore del periodo più buio dell’Europa dalle grandi guerre, ma di certo non tutto il vino nuovo è potuto finire in bottiglia ed essere propriamente consumato.

Nella ristorazione vediamo chiaramente i caduti di questa guerra al virus: le nostre città sono piene di saracinesche chiuse. Certo, venivamo da anni di consumismo (quasi) sfrenato, sulla scia di una globalizzazione che ci ha concesso tutto, qua in Occidente, mentre alla TV ci proponevano grandi chef e preparazioni degne dei movimenti di pittura più all’avanguardia. Nell’ultimo decennio questo benessere inquieto ha fatto da volano alla domanda di tavoli nei ristoranti, così sono nati locali ovunque, dove si poteva mangiare qualsiasi cosa. Sfavorendo la qualità. La cinica morale per il consumatore è che quella parte di ristorazione non proprio memorabile, talvolta improvvisata che aveva cavalcato l’onda, ha subito una “selezione naturale”. La disgrazia sono i posti di lavoro lasciati sul campo.  Mentre accadeva tutto ciò, per fortuna, online si è venduto molto, talvolta moltissimo. E questo ha aiutato. Le vendite su piattaforme come Tannico o Vivino sono arrivate ad un aumento del 100%. Il mercato dei privati ha dunque in parte riscattato il settore vinicolo generando pure un filo diretto produttore-consumatore, fra le cantine e le tavole di casa nostra. È il risvolto più positivo della pandemia che ha dato slancio definitivo ai siti di vendite sul web stimolando più che mai anche le piccole aziende agricole a mettersi in gioco online. Come a dire che nulla è più come prima. Salvo l’usanza dei popoli, dopo tutti i disastri, di tornare sempre alle cosiddette vecchie abitudini. Una sorta di ritorno alla condizione ante rem. Tanto che l’estate scorsa il mondo della ristorazione è decisamente riesploso; l’immenso quanto recondito desiderio di uscire nuovamente di casa, la voglia di evadere dopo le restrizioni governative ha registrato una vera e propria corsa alla prenotazione dei tavoli e dei posti letto, soprattutto nelle più gettonate località turistiche del nostro Bel Paese. Conseguenza il tutto esaurito stagionale. Idem ora per le ferie sulla neve (dove c’è).

Parallelamente, la pandemia ha provocato una distorsione del mercato delle materie prime e dei semilavorati. Con la ripartenza del mondo produttivo è diventato difficile reperire tanti prodotti con i tempi a cui eravamo abituati ante Covid. In campo automobilistico sono mancati componenti provenienti dalla Cina e le auto non arrivano alle concessionarie. Nel mondo vitivinicolo le grandi cantine hanno prenotato cospicue quantità di bottiglie con largo anticipo. Talvolta i piccoli produttori sono rimasti (e rimangono tutt’ora) senza certe tipologie di bottiglie. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Conseguenza: crescita incontrollata del costo delle materie prime e dell’energia per produrle, oltre che del trasporto e dunque inflazione record. Come reagire per il vino?

Una soluzione sostenibile

Intanto abbiamo una certezza: Italia e Francia, nel mondo, sono da sempre il riferimento per il vino. Altro dato: il Made in Italy notoriamente fa la differenza. Per il mobile d’arredo e l’industrial design firmato dai nostri grandi architetti, per le automobili di prestigio costruite praticamente a mano in MotorValley e per la moda con i nostri grandi stilisti; per i nostri prodotti alimentari d’eccellenza e per il vino. Dopo l’ingordigia produttiva italiana nel boom economico degli anni ‘60 – prodotto di massa – posto che ora il Made in China assolve largamente alla domanda mondiale, è palese che dobbiamo rispondere a quella fetta di mercato elitaria che ci sta chiedendo qualità Top, ovvero il cosiddetto mercato del lusso. Eppure, dando colpa al marketing, come pure alle tradizioni dure a morire, le cantine devono ancora rispondere a un mercato interno di bassa qualità, fatto di vino sfuso o venduto in brick che non può e non dovrebbe mai uscire dalla stessa filiera che si occupa di imbottigliare etichette di fascia Top. Non è credibile. Trasponendo in campo automobilistico, sarebbe come immettere sul mercato cheap e luxury car assemblate nello stesso stabilimento. Nel tempo si è resa così necessaria una strategia industriale e produttiva che ha portato i grandi marchi, in tutti i settori, a comprarsi piccoli gioielli, talvolta pesino artigianali, in grado di realizzare eccellenti prodotti di nicchia. Come dire: avere in portafoglio il fiore all’occhiello della produzione. Esattamente come hanno fatto le grandi cantine per distinguere i vini Top, creando nuovi brand, oppure acquistando piccole aziende vitivinicole con etichette già note per qualità e prestigio. Quindi dove sta l’intoppo?

Probabilmente in primis devono cambiare le abitudini degli italiani, non solo per dare l’esempio al mondo che ci sta a guardare (e che spesso nel bene e nel male imita il nostro italian style); ma anche e soprattutto per godere di più e vivere meglio. Certo, il rovescio della medaglia è il costo dei prodotti Top. Però nel nostro vivere quotidiano si po’ anche solo tendere all’eccellenza, cioè si potrebbe decidere di alzare l’asticella dei prodotti che consumiamo abitualmente. Il cambiamento è un processo radicale che passa soprattutto dalla conoscenza, perché no fin dai banchi di scuola, delle nostre infinite varietà ed eccellenze alimentari e del vino. Ma questo è un altro tema. Nell’equazione già articolata entra anche il cambiamento climatico. Averne la consapevolezza significa seguire le stagioni e prenderle come sono, accettando il divario fra i millesimi che passano alla storia e le annate difficoltose. La natura ci concede una grande annata che si venderà subito tutta, fra ristorazione d’eccellenza nel mondo e poche fortunate tavole di privati. Saturazione della richiesta = crescita del costo della bottiglia. All’opposto, le annate meno felici devono essere esplorative, pensate per allargare la platea con prezzi più favorevoli, magari con un auto-declassamento delle etichette, guardando a un mercato meno preparato e con minore disponibilità, ma che al tempo stesso avrà l’opportunità di accedere a grandi nomi e a vini di prestigio a un costo ragionevolmente più basso. In fondo non è altro che esaltare il rapporto uomo-natura. Perché dovremmo fare i salti mortali per “mascherare” un’annata minore in una uguale alle migliori? Solo per ragioni di fatturato? Piuttosto, dovremmo essere bravi a creare più margine nelle annate Top, allargando la forbice dei prezzi, calmierando le annate minori, così poi da non lasciarle alla polvere sugli scaffali. E faremmo crescere il consumatore medio non solo italiano. Auspicabilmente a tutto vantaggio dell’etica del lavoro in filiera.

Tirando le somme, tutto ciò complica ulteriormente la già complessa quesitone del prezzo di un determinato vino sul mercato. O forse la semplifica?

Il nocciolo della questione è capire quale sia il prezzo corretto di una bottiglia. Lasciando stare gli appassionati, più esperti e smaliziati, il consumatore occasionale che entra in enoteca, come sappiamo può visualizzare Wine-searcher oppure Vivino, trovando il rating di una determinata bottiglia. I dati pre-Covid testimoniavano già 1 milione e 800.000 utenti dell’App Vivino solo in Italia, con un catalogo di oltre 250.000 etichette per quasi 35.000 cantine. Durante il lockdown, tutto si è poi ulteriormente dilatato. Così siti e App si moltiplicano. Fra tutti, la stessa identica bottiglia ha una variabile di prezzi che crea ancora più confusione. Luigi Veronelli parlava del prezzo sorgente, ma oggi nemmeno ciò che dichiara il produttore alla stampa o alle guide, all’atto della presentazione, ne chiarifica il valore; il prezzo allo shop interno della cantina di produzione, può essere già diverso. Poi può capitare che certe enoteche, anche all’interno della grande distribuzione, per scelte commerciali, applichino un prezzo minore del produttore stesso. Il ricarico dipende da come ogni rivenditore concepisce la propria strategia per creare marginalità. Nel complesso ci si mettono pure le ristorazioni, a complicare il quadro, dato che le scelte di ricarico di questo settore sono in genere inversamente proporzionali al costo all’origine. Il compito dunque di chi apre bottiglie non solo per goderne, ma anche per raccontarne, potrebbe essere quello di presentarci le annate migliori, al fine di dettare una sorta di “memoria gusto olfattiva” per aiutare il consumatore nell’interpretazione delle annate minori, sapendo a cosa esse devono tendere. Per chiudere in bellezza questo percorso, desidero proprio cominciare da qua e lo farò ad esempio con il 2016, ad esempio in Piemonte. Incontrando alcune delle bottiglie più significative di questa memorabile annata fra Barolo e Barbaresco.

La degustazione

Damilano Barolo Cannubi 2016 ; Barolo Liste 2016; Barolo Cerequio 2016

La lunga storia di queste colline coltivate a Nebbiolo origina proprio intorno alla Menzione geografica Cannubi, subito sotto al paese di Barolo, dove oggi si dividono le parcelle due grandi nomi anticamente imparentati come Borgogno e Damilano, la cui attuale riserva Cannubi 1752 riporta proprio il primo anno in cui è testimoniata l’esistenza di questa eccellenza vitivinicola piemontese. L’annata 2016 per Damilano si declina in particolare in Cannubi, Liste e Cerequio, sostanzialmente già nel pieno della loro crescita espressiva, nella rosa dei Barolo che distingue in etichetta anche le sottozone Brunate, Raviole nel comune di Grinzane Cavour e Lecinquevigne con Terlo, Albarella, Le Coste e Sarmassa sotto Barolo, La Cavourrina sotto Grinzane Cavour.

Liste è un Barolo “vecchio stampo”, che concede meno forza di tannini a favore di una più slanciata nota balsamica, fra dettagli speziati e di tabacco nero, mentre Cannubi esprime eleganti note fruttate e sottobosco, lasciando in questa fase a Cerequio l’onore di sprigionare più forza tannica. Se si dovesse andare alla cieca, cioè a bottiglie bendate, la degustazione confermerebbe che ogni Menzione è diversa, ogni parcella del territorio esprime il Cru di appartenenza in tempi e modi differenti. Il più pronto in questa fase è dunque Cannubi.

Ettore Germano Barolo Vignarionda 2016; Barolo Lazzarito Riserva 2016

Due bottiglie diverse fra loro, entrambe premiate con 4 Viti AIS, rispettivamente Vignarionda nel 2022 e la Riserva Lazzarito nel 2023, da sottozone del comune di Serralunga, rivolti a sud-ovest, in declivio dalla strada di crinale del paese. Si caratterizzano per uno spettro olfattivo decisamente ampio, con qualche nota in più di spezie orientali per Vignarionda, ma soprattutto uno straordinario equilibrio per il Lazzarito: largo, mail troppo caldo, dalle piacevoli quanto delicate note erbacee iniziali fino alla lunga persistenza di frutto finale, tanto da poterlo considerare pronto, senza il timore di perdere troppi dettagli nella sua lunga futura maturazione. Forse sono lontani i tempi dei Barolo che richiedevano lunghi affinamenti, ma per avere la massima espressione dal Vignarionda 2016, qualche anno ancora lo possiamo aspettare, ne varrà certamente la pena.

Mascarello Giuseppe e Figlio Barolo Monprivato 2016; Barolo Villero 2016

Un nome quello della famiglia Mascarello rappresentato da Elena, Giuseppe e Mauro che da secoli, più precisamente dal 1881 lavorano terre che sono divenute vigne storiche, come le sottozone Monprivato e Villero, nel comune di Castiglione Falletto. Scendendo di poco dal punto più alto del paese, in direzione ovest, i due poggi ove di si trovano le vigne, sono entrambi rivolti a sud-ovest; il primo è davvero un piccolo Cru, mentre Villero è più esteso, al confine con Bricco Rocche. Punteggio pieno con 4 Viti AIS nel 2022 per entrambi, Monprivato appartiene alla famiglia Mascarello dal 1904 con vigne piantate fra i primi anni ’60 e la metà dei ’90, mentre Villero ha impianti decisamente più recenti, risalenti alla fine degli anni ’80. Siamo arrivati a un punto fermo del Barolo. Per usare una parola inglese, senza far torto a nessuno, Monprivato è il Barolo Reference. Complessità olfattiva iniziale di sottobosco scaldato dal sole, ampio spettro di fiori carnosi, fra dettagli di fragoline di bosco e ribes rosso. Le storiche botti grandi ingentiliscono i tannini che in annate così riuscite determinano un equilibrio di spezie che riverbera nel retrogusto. Ma il palato rimane sempre prevalentemente fresco, mai ridondante pur esprimendo tutte le aspettative del rigore vitivinicolo piemontese.

Produttori del Barbaresco Montestefano Riserva 2016; Rabajà Riserva 2016

Fra i Cru dei Produttori del Barbaresco, trattandosi di eccellenza territoriale mondiale, esprimere una preferenza è solo un fatto soggettivo (o una quesitone di nobili abitudini); certamente alcune sottozone sono più conosciute di altre, così potremmo citare Asili, Muncagöta, Ovello, Pajè. Un metodo di scelta può essere quello di affidarsi alle guide, allora stando a quella dell’AIS, l’annata 2016 premia con 4 Viti 2022 le Riserva Montestefano e Rabajà. Le presentazioni che la Cooperativa dedica alle due sottozone sono rispettivamente <Il Barolo nel Barbaresco> e <Armonia totale>. Certamente il Rabajà per quest’annata può essere preso a riferimento per memorizzare come si devono esprimere le uve di Nebbiolo nel comune di Barbaresco. Siamo nel punto più alto della collina, rivolti verso sud e sud-ovest, sopra a Martinenga. Un vino di cui è difficile separarsi, certamente raffinato nell’olfatto ricco di frutti rossi e percezioni di erbe officinali, analogamente pieno, tannico e di persistenza lunghissima al palato.

Sottimano Barbaresco Currà 2016

Rimaniamo dentro alle scelte soggettive dei Cru più significativi. Nelle annate che passeranno alla storia scegliere una Menzione rispetto ad altre può sembrare persino eccessivo. Ma d’altra parte sarebbe banale affermare che quando si trattano millesimi eccellenti, tutti i produttori sono capaci. Nel comune di Neive, in declivio dal punto più alto della collina, la sottozona Currà guarda a sud-ovest. Analogamente premiato con le 4 Viti Ais 2022, questa eccellenza di Rino Sottimano è un vino emozionante. Una sinfonia di frutti freschi e sotto spirito, erbe e fiori passiti, velate note speziate e di lavanda. Il palato è generoso, in parte astringente in parte morbido e armonioso nel finale. Sottimano Barbaresco Basarin, Cottà, Fausoni sempre nel comune di Neive e Barbaresco Pajorè sotto Treiso sono le altre etichette dei Cru di questa cantina la cui storia risale proprio con Rino Sottimano ai primi anni ’60.

Tenute Cisa Asinari dei LaMarchesi di Gresy Barbaresco Martinenga 2016; Barbaresco Martinenga Gaiun 2016; Barbaresco Martinenga Camp Gros 2016 Riserva

Fra i Barbaresco, anche in questo caso l’annata è confermata dal 4 Viti AIS 2022 per la Riserva Camp Gross. La Menzione geografica Martinenga è rivolta a sud, formando come un alveo attorno alle strutture storiche della cantina dei Marchesi di Gresy-Tenute Cisa Asinari. Siamo al di sotto di Asili, con una esposizione simile a quella di Pajè, una delle sottozone centrali nel comune di Barbaresco. Un vino, la Riserva, a tratti perfetto nelle aspettative di questa DOCG, che come un fratello maggiore conferma esaltandoli, i sentori e le persistenze di Gaiun, con una inaspettata nota di violetta e Martinenga che ancora sprigiona vibrazioni tanniche e riverberi speziati del legno. Appare evidente la filosofia in bottiglia che lega le tre etichette, dunque in annate così riuscite, la scelta può risultare difficile. Affidiamoci dunque come sempre all’ottima cucina piemontese che talvolta può richiamare vini più tannici, in altri casi dei Barbaresco già maturi e arrotondati nelle persistenze finali. Se si dovesse portare il vino in tavola oggi, la scelta è sul Camp Gros. 

Tutte queste eccellenti bottiglie dell’annata 2016 sono legate da un comune denominatore: la certezza che ci regaleranno grande longevità, dunque qui ogni investimento, per gli amanti del Barolo è giustificato. Ma ricordiamoci, per creare la nostra memoria gusto olfattiva, le bottiglie vanno aperte, non collezionate.

Oddero: una grande famiglia di Langa

Il nome della famiglia Oddero è da più di due secoli indissolubilmente intrecciato a quello del re dei grandi vini italiani: il Barolo. La magnifica cascina che sorge a mezza costa, in località Santa Maria, a metà della strada che si inerpica verso La Morra, con il suo romantico pergolato e la panoramica terrazza, è lì a testimoniarlo. Gli archivi parrocchiali dicono infatti che, già a fine Settecento, quando ancora il sedicesimo dei Luigi di Francia ben portava la sua testa, quella casa era abitata dai primi rappresentanti della famiglia. Famiglia che, secondo vecchie carte, nei primi decenni dell’Ottocento già produceva vino, vendendolo poi in brente e in botti. Fu l’introduzione dell’uso della bottiglia – qui la data è certa, 1878 – a permettere l’allargamento dell’attività e consentire la spedizione del vino, finalmente etichettato «Oddero», in Europa prima e negli Stati Uniti poi. Ma è un’altra data a segnare la consacrazione dei vini della famiglia Oddero. Una delle loro bottiglie viene selezionata per una importantissima degustazione tenutasi a Torino nel 1911, in occasione dell’Esposizione universale che celebrava il cinquantenario dell’Italia unita.

Nell’immediato secondo dopoguerra, durante gli anni della «malora» (e chi frequenta le Langhe dovrebbe sempre avere ben a mente l’omonima raccolta di racconti del grande Beppe Fenoglio), mentre il territorio andava rapidamente spopolandosi, Giacomo Oddero (siamo alla quinta generazione della famiglia) fece una scelta opposta, decidendo di continuare il lavoro delle generazioni precedenti. Ma non solo, con lungimiranza estrema, decise anche di procedere all’ampliamento dei vigneti. Giacomo capì, infatti, che il territorio presentava differenze notevoli – in termini di microclima, esposizione, composizione del terreno – anche a distanze di pochi metri. Procedette quindi a cercare e acquistare quegli appezzamenti (perlopiù sorì, ovvero esposti al sole) che, secondo lui, erano i migliori, spingendosi addirittura nel Monferrato. Ma, nella sua visione sagace e innovativa, Giacomo comprese che tutto il territorio avrebbe avuto enormi benefici (come in effetti poi avvenne quando la «malora» lasciò il passo a quel benessere diffuso che caratterizza oggi l’albese) se i produttori fossero stati spinti a elevare la qualità dei loro vini. Vestendo i panni di assessore provinciale all’Agricoltura, Giacomo ideò e firmò i disciplinari di molte Doc e Docg della zona, così come le regolamentazioni di molti prodotti agricoli (formaggi, ortaggi, la celebre Nocciola Tonda…). Ed è sempre a Giacomo che si deve la nascita del Centro Nazionale Studi sul Tartufo, a oggi la principale istituzione italiana per lo studio e la valorizzazione dell’”oro bianco” di Alba.

Grazie alla lungimiranza di Giacomo, l’azienda Oddero può oggi vantare un’estensione invidiabile: ben 35 ettari (di cui oltre 16 a nebbiolo da Barolo e da Barbaresco), divisi fra La Morra, Serralunga, Monforte, Castiglione Falletto, Neive, oltre che nel Monferrato. Ma, ed è bene specificarlo, molti di questi sono appezzamenti di vigna nei cru più celebri: nomi del mito come Vigna Rionda, Brunate, Bussia, Villero, Fiasco, Rocche di Castiglione, Monvigliero, Gallina

Spetta ora alla sesta e settima generazione, rappresentate da Maria Cristina e da Isabella e Pietro, portare avanti questa eredità, facendola se possibile ancora più crescere e prosperare!

Uno stile di Langa

Se si volesse definire in una parola i vini della cantina Oddero, facile sarebbe etichettarli come ‘classici’. Un termine che, però, per i molti sottintesi e le molteplici sfumature, è spesso impiegato in modo grossolano e sfuggente. Allora, più che “classici”, proporrei “paradigmatici”, con ciò intendendo che sono vini rappresentativi non solo di un terroir ma di un modo di interpretare, lavorare e vinificare l’uva alla luce di una storia bicentenaria. Sono vini, insomma, che raccontano lo spirito più profondo della Langa – il genius loci per dirla altrimenti – di una terra sì benedetta dal Signore, ma pure vissuta con rispetto da coloro che la abitano.

A riprova di ciò basta menzionare alcune delle scelte operate dagli Oddero: il ricorso a metodi agronomici rispettosi della terra (i vini sono biologici, anche se a tale certificazione la cantina Oddero ha rinunciato pochi anni orsono), l’utilizzo di pratiche di cantina tese a esaltare le caratteristiche dell’uva (vinificazione separata di ogni singola parcella; fermentazione a cappello galleggiante con impiego di soli lieviti indigeni; uso di sole botti grandi, di origine francese, austriaco o di Slavonia, su tutti i vini della gamma, cercando, di volta in volta, il miglior abbinamento fra legno e terroir; stabilizzazione dei vini in cemento prima dell’imbottigliamento…), nonché la decisione di interpretare come “Riserve” due dei cru più importanti.

Le etichette di casa Oddero, come detto, spaziano dall’Astigiano (terre ove vengono coltivate le uve Moscato e Barbera che danno vita al Moscato d’Asti Docg Cascina dei Fiori e al Nizza Docg Superiore), al comune di Neive (ove viene coltivato il Nebbiolo che da vita al Barbaresco Docg Gallina, una produzione di circa seimila bottiglie), ai comuni della Docg Barolo dai quali provengono la gamma di quest’ultimo (Barolo “classico”; e i cru – con una produzione media di tremila bottiglie – Villero; Rocche di Castiglione; Bussia Vigna Mondoca Riserva; Brunate; Vignarionda Riserva), oltre al Langhe Nebbiolo Doc, al Langhe Riesling Doc, al Dolcetto d’Alba Doc e alla Barbera d’Alba Doc Superiore.

La Degustazione

Nel corso di una recente degustazione, tenutasi in cantina, si sono potute assaggiare alcune di queste etichette, con un particolare focus sulla produzione barolistica.

Langhe Riesling 2021

Prodotto in sole cinquemila bottiglie, da uve coltivate a La Morra, nel vigneto di Bricco San Biagio (un ettaro), questo vino – da clone di Riesling Renano – che fa solo acciaio e riposa sei mesi sulle proprie fecce prima dell’imbottigliamento, propone una interpretazione assai personale dell’imperatore dei vitigni tedeschi in Langa. Al naso predominano nettamente sentori floreali ed erbacei, con alcuni tocchi di frutta a polpa gialla. La mineralità, che di solito contraddistingue il Riesling, più che al naso si avverte al momento dell’assaggio, e comunque non nel classico idrocarburo quanto piuttosto in sensazioni di pietra e di gesso. La morbidezza e una certa alcolicità (13,5) ben bilanciano la freschezza, in un allungo di bocca fine, equilibrato e persistente, seppur non intensissimo. 88/100

Barbera d’Alba Superiore 2020 e Nizza 2018

Più complesse, e di interesse quasi didattico nella parte comparativa dell’assaggio, si dimostrano la Barbera e Nizza. La prima (produzione di ottomila bottiglie circa) proviene da vigneti di sessanta anni, posti in Bricco San Biagio e in Villero (Castiglione Falletto), vinificati separatamente e affinati in botte grande prima dell’assemblaggio. Il vino si presenta nel bicchiere con quell’impenetrabile color rosso rubino tipico della Barbera ben lavorata. L’olfazione, sebbene non amplissima, è di grande finezza: spiccano, in una scia di croccante freschezza, il mondo dei fiori rossi (si avvertono il geranio e la viola), della piccola frutta (mora appena matura, ribes…) e una austera verticalità, spinta verso il mondo delle marne sedimentarie e dei gessi. In bocca è l’acidità a colpire, seguita a ruota dalla mineralità (che poco pare concedersi) e da un tannino sì presente ma già ben integrato. Le morbidezze, poste quasi in soggezione, si dipanano con più lentezza allungando il sorso sui polialcoli e trasportandolo in fin di bocca con pulizia, piacevolezza e signorilità. 90/100

La Nizza, che fa all’incirca sedici mesi di invecchiamento, mostra un’espressione completamente differente, e che in sintesi si potrebbe definire più “piena” e più “grassa” (e ovviamente più integrata, considerato che ha due anni in più). Il rubino è un po’ meno impenetrabile, il naso più ampio, la bocca più generosa. I profumi prendono ancora le mosse da fiori e frutti rossi, ma ai primi si aggiunge un tocco di garofano, e ai secondi della ciliegia e della prugna. Si avvertono chiare anche piacevoli note erbaceo-balsamiche, un po’ di speziatura e una mineralità più “argillosa”. Al palato il vino è assai generoso. Durezze e morbidezze trovano un bell’equilibrio (notevole qui il dialogo fra tannino e polialcoli, mentre la mineralità sembra rimanere un filo più in disparte) all’insegna di un sorso ampio e piacevole, ancora una volta pulito, fine e assai lungo. 91/100

Barolo 2017

Sulla medesima linea stilistica si colloca anche il magnifico Barolo, degustato nell’annata 2017. Frutto dell’assemblaggio di tre vigneti (Bricco Chiesa e Capalot, a La Morra, e Bricco Fiasco, a Castiglione Falletto, come sempre vinificati separatamente e assemblati solo dopo il passaggio in botte grande), questa bottiglia, prodotta in circa trentamila esemplari, si colloca come una delle migliori espressioni del Barolo “classico”. Classico è infatti il colore, granato brillante. Classico è l’ampio e appagante ventaglio aromatico: fiori leggermente appassiti (viola e rosa su tutto), frutta rossa (fragola, prugna, ciliegia sciroppata, marmellata di frutti di bosco), e poi un po’ di tartufo, un po’ di liquirizia, un po’ di nocciola. Qua e là qualche tocco balsamico e una austera verticalità. In bocca il vino si dipana in un magnifico, ampio, armonico e lunghissimo dialogo incrociato fra note di freschezza, tannino finissimo e ben integrato, mineralità di immensa eleganza, giuste sensazioni caloriche e pseudocaloriche, senza cedimenti e senza stucchevolezza alcuna. 93/100

Barolo Villero 2017

Il Barolo Villero (Castiglione Falletto) è uno dei cinque cru di Oddero. Prodotto in circa quattromila bottiglie da una vigna di poco meno di un ettaro, Villero è un Barolo che deve essere degustato con i giusti tempi. Il microclima più caldo (Villero è sempre uno dei primi vigneti a essere vendemmiati) e la particolare composizione del terreno (marne e calcare assai compatti) lo rendono sì ampio ma pure paiono conferirgli una certa iniziale ritrosia. Sicché il naso ha uno sviluppo prima lento (la viola, la prugna e la ciliegia, la spezia) poi sempre più veloce, giungendo a profumi di notevole finezza (sentori di albicocca, di liquirizia, di cacao, di pietra focaia). Anche in bocca il Villero pare giocare col tempo: all’attacco appare quasi monolitico. Solo facendolo roteare sul palato ecco apparire la morbidezza dei polialcoli, il bel tannino, la mineralità (che è un passo avanti alla freschezza) e la sensazione calorica. Il tutto si compone, con architettura complessa, nel centro e in fine di bocca, con la consueta elegante finezza, nonché con una notevole pulita lunghezza, che contraddistingue i vini firmati Oddero. 93/100

Barolo Brunate 2018

A chiudere la degustazione l’entusiasmante Barolo Brunate prodotto in circa duemila bottiglie. La vigna Brunate, posta a La Morra, a 380 metri, è in una zona di grande escursione termica, e in forte pendenza. Qui l’areazione è costante e il terreno è composto da marne di Sant’Agata fossili. Il Brunate di Oddero è un vino di un’eleganza estrema ma pure di una grande struttura che gli permette di attraversare il tempo e di ‘completarsi’ in una lunga evoluzione. Il colore è di un granato archetipico. I profumi di una complessità, intensità e finezza notevoli (segnaliamo, giusto a titolo esemplificativo, oltre ai più consueti, anche l’uva fragola, la rosa canina, la nocciole, tocchi di erba maggenga e di spezia dolce). L’estrema complessità si riscontra subito anche in bocca. La struttura è imponente, ma non pesante. C’è anzi una certa agilità data da una piacevole freschezza e da un tannino sapientemente dosato che ben si incrociano con le morbidezze, in un dialogo improntato all’equilibrio e alla qualità estrema. Armonico e pulito, il Brunate chiude (o, per meglio dire, non chiude) in una lunghezza che appare infinita. E che invita al sorso successivo. 95/100

La passione della famiglia Vaira in orizzontale

L’annata 2018, a Barolo, è stata definita da molti «di stampo tradizionale»: l’andamento climatico – con frequenti precipitazioni sino a fine maggio, e temperature più fresche rispetto al 2017 – ha permesso lo sviluppo e la maturazione omogenea di bei grappoli, con buone gradazioni zuccherine e ottimi livelli di acidità. Chi ha ben vinificato, interpretando l’annata in chiave elegante più che muscolare, non ha fatto fatica a ottenere vini marcati da bellissimi spettri aromatici, da giusta freschezza, da tannini vellutati e già integrati, e da sinuosa morbidezza. Vini – quindi – “pronti”, capaci di esprimersi già nella loro giovinezza con una completezza e complessità soddisfacente.

L’ennesima conferma in tal senso è arrivata nel corso di una degustazione della batteria dei Barolo 2018 della cantina G.D. Vajra, una delle realtà più solide della denominazione. Guidata da Aldo e Milena Vaira, ora affiancati dai figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, quest’azienda continua a rimanere un esempio di come l’accoppiata “tradizione-innovazione” possa essere declinata al di fuori di schemi precostituiti, di gesti predeterminati, di usi prestabiliti. Al contrario, per i Vaira, l’intuizione sfuma nell’azzardo. E l’acume nella scommessa.

Qui è sempre stato così: sin da quando, appena rientrato dagli studi a Torino, il giovanissimo Aldo compie la sua prima scelta ‘controcorrente’: riprendere in mano il vigneto di famiglia, le cui uve sino ad allora venivano vendute ad altri, e vinificare in proprio. Una scelta dalla quale subito ne scaturiscono altre: con incredibile lungimiranza, nel 1971, Aldo aderisce al movimento Suolo e Salute, diventando uno dei pionieri dell’agricoltura biologica in Piemonte. Seguono poi – solo per dirne alcune – la selezione massale per il Dolcetto Coste&Fossati (1979), la Freisa coltivata nel celeberrimo Bricco delle Viole (1980), il primo impianto di Riesling renano in Langa (1985).

Scelte che, come ama ricordare Milena Vaira, trovano un proprio fine e un proprio significato nel trinomio «territorio, annata, persona», ovvero i tre “attori” protagonisti che “costruiscono” il vino, plasmandolo intimamente, in una sorta di comunione espressiva.

Ecco, proprio l’espressività è uno dei cardini della “filosofia Vajra”: non ci sono infingimenti in bottiglia, ma solo (“solo” che è da intendersi in senso diametralmente opposto a quello di diminutio) il vino per ciò che è il suo terroir, per ciò che il tempo meteorologico gli ha concesso, per ciò che gli individui gli hanno donato. Gioia e dolore, felicità e scoramento, passione e tormento: perché il vino è un affare “umano, troppo umano” – per dirla con Nietzsche – e proprio per questo continua ad avere quella profonda aurea di fascino e di mistero che lo avvicina terribilmente alla sfera divina. Un caleidoscopio di colori cangianti, di espressioni complesse, di sentimenti avviluppati: insomma, «il dolce soffrire che fa muovere il mondo» (Olindo Guerrini), ecco cosa si cela dietro quel tappo di sughero! Ed è ancora Milena che, mostrando le istoriate vetrate che illuminano la cantina, opera di padre Costantino Ruggeri (sì, proprio lui, il grande innovatore dell’arte e dell’architettura religiosa del Novecento), confida come quei rembrandtiani squarci di luce policroma siano «vita» e «grazia». E rappresentino plasticamente il rapporto simbiotico che lega, con «scienza e coscienza», l’uomo e la natura.

I Baroli 2018

La degustazione, dopo un assaggio dell’epitomatico Langhe Nebbiolo (bottiglia segnata da una fresca croccantezza di frutto e fiore e da un sorso coinvolgente ed elegante), si è aperta con il Barolo Albe, etichetta nata dall’assemblaggio delle uve di tre vigneti diversi (Coste di Vergne, Fossati, La Volta, tutti nel comune di Barolo) per altitudine ed esposizione. Di un brillante colore rubino tendente al granato, Albe si svela, tanto al naso quanto in bocca, un Barolo d’impostazione classica: piccoli frutti rossi, fiori, lievi toni balsamici aprono a una verticalità improntata a note di terra e di sottobosco. Il palato rimane conquistato più dalle durezze che dalle morbidezze: il tannino appare integrato, la mineralità cesellata con attenzione, l’acidità ben salvaguardata. Una buona persistenza e un’ottima armonia completano il quadro, all’insegna di una eleganza improntata a freschezza e godibilità. (90/100)

Assai differente, invece, il cru Ravera (vigna posta nel comune di Novello, a oltre 300 metri d’altezza) che propone una espressività assai diretta, spiazzante, e quasi selvaggia. Il colore – un rubino più concentrato al centro del bicchiere, e un’unghia assai più scarica – è preludio a un prospetto olfattivo di bella ampiezza ove trovano spazio, oltre agli immancabili frutti rossi (evidente il lampone) e a note floreali, un variegato mondo di espressioni balsamiche e minerali che spaziano dalle erbe aromatiche (timo limone su tutte) a sensazione di terra rossa. Anche al sorso il Ravera mostra il suo carattere ancora “selvaggio” (che, è lecito supporre, col tempo sarà ricondotto a una dimensione di armonia complessiva). La nerboruta mineralità, dal tratto sin ferroso, dialoga serratamente con la morbidezza di alcoli e polialcoli, mentre il tannino, seppur finissimo, appare a tratti ancora in fase di levigazione. La persistenza è lunga, l’armonia già buona, ma certo migliorerà ulteriormente negli anni a venire. Un vino che – secondo chi scrive – ha tutte le carte per attraversare il tempo e regalare future emozioni. (88/100)

Sofisticato, femminile, suadente è invece il Costa di Rose (vigneto posto a Barolo, al confine con Monforte). La vigna, piantata su un suolo dominato da arenaria bianca originatasi nel tortoniano (fra i sette e gli undici milioni di anni fa), dona un vino di un’eleganza estrema. Al naso colpiscono subito sia i chiari aromi floreali (fra cui i petali di rosa) sia quelli fruttati (più ciliegia che frutti di bosco) che si distendono su un sottile sostrato erbaceo e balsamico e su una magnifica mineralità di polvere di pietra marina. Tutte queste percezioni si ritrovano in bocca, con estrema coerenza, pulizia e ordine. Le morbidezze (ben modulate e bilanciate dall’acidità) dialogano ampiamente con tannini quanto mai vellutati e con un minerale quasi salato. Il vino appare di corpo assai elegante, di grande armonia, di ottima persistenza e intensità. (92/100)

Vessillo della produzione Vajra continua a essere il Bricco delle Viole, etichetta proveniente dall’omonimo cru, sito a Barolo. La vigna – la più alta del comune (400-480 metri) e la più vicina alle Alpi – gode di una condizione microclimatica eccezionale: l’esposizione Sud (che permette un perfetto irraggiamento lungo tutta la giornata), l’escursione termica, l’età media delle viti (fra i sessanta e i settanta anni) e il terreno ove predominano arenaria e ciottoli donano un vino di profonda espressività, di fine eleganza e di notevole complessità. Si rimane subito ammaliati dal colore – un bellissimo granato – dall’ampio e fragrante ventaglio olfattivo, predominato da fiori (viola e rosa), da piccoli frutti e bacche (di bosco e d’albero), da toni balsamici e da una fresca verticalità che rimanda alla grafite e alla pietra. Al sorso, davvero voluttuoso, il Bricco delle Viole dipana con sontuosità la sua freschezza e la sua mineralità, accompagnate da adeguate sensazioni caloriche. La struttura è importante, ma non pesante: il tannino appare finissimo, e l’architettura polialcolica pare essere un arazzo che lega fra loro i molteplici elementi del vino, accompagnando e sostenendo il fine sorso con lunghezza, precisione, armonia e intensità. (92/100)

In coda si è lasciato l’assaggio del Barolo Baudana (siamo a Serralunga), prodotto dalla omonima cantina, acquisita dalla famiglia Vajra nel 2009, quando i precedenti proprietari – Luigi e Fiorina Baudana – hanno individuato in Aldo e Milena coloro che con amore e rispetto avrebbero potuto continuare a coltivare quei 2,6 ettari da sempre proprietà dei Baudana. L’impronta del vino è assai differente: qui infatti predomina il più antico elveziano, con strati di marne e calcare alternati ad argilla. La potenza delle percezioni trova comunque espressione in un’eleganza dal tratto raffinato, e sin quasi rarefatto: al naso, per esempio, la piccola frutta rossa e nera cede il passo alla prugna, alla marasca e al nobile Durone di Vignola. I toni erbacei virano sull’eucalipto. Mentre la mineralità si esprime in una grafite carboncino. In bocca si avverte tutta l’imponenza della struttura e l’importanza dei tannini: la freschezza della gioventù è già comunque ben bilanciata dall’estratto e dai polialcoli. Facendolo roteare in bocca il vino si apre, concedendo uno spiraglio d’abisso: se ne intravede quello che potrà essere lo sviluppo. Ecco allora che, al posto dell’austerità iniziale, appaiono volute d’eleganza, la forza assume tratti femminili, e l’intensità si accompagna all’eccellenza. Per una bottiglia grande ora. E che certo molto di più lo sarà in avvenire. (91/100)