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L’Imbuto

Il Monet della cucina italiana, a Lucca

Pensando alla cucina di Cristiano Tomei ci è venuto immediatamente alla mente l’impressionismo di Claude Monet. Movimento così apostrofato perché per i componenti, ciò che più conta, è l’impressione che un determinato stimolo suscita, sensazioni emotive provate in un istante e rifratte sulla tela. Aggiungiamo poi anche l’abolizione della prospettiva, i contorni chiari, l’uso dei tratti sporchi, e quasi allegorici, le pennellate non fluide. In poche parole, il talento istintivo.

Aspro, a tratti “sporco”, ma cristallino ed efficacissimo è anche il cuoco guascone di Lucca che, da autodidatta, esprime una cucina decisamente ruvida, in cui non è la tecnica la parte predominante bensì il senso del gusto, degli abbinamenti inusuali, del grande palato mentale, e istintivo, di cui è dotato.

Ecco quindi scaturire vere e proprie opere d’arte, che non hanno alcun punto di riferimento se non l’identità personale dello chef, ardite come l’anguilla in cui il grasso viene amplificato dal suo stesso condimento mentre il brodo è aggraziato, profumato dal bergamotto:

Come questa, ogni portata è un tripudio di ingredienti, spesso inusuali, mischiati e stemperati in una tavolozza gustativa mai squilibrata, sempre centrata. Le soventi reiterazioni stilistiche e l’apparente ruvidezza dell’insieme sono frutto, l’abbiamo detto più volte, del percorso da autodidatta in cui le doti di gusto, di palato e di prospettiva di Tomei fanno velocemente dimenticare limiti e imperfezioni, donando anzi più fascino a questa cucina istintiva, irriverente e sorniona.

Un plauso alla triglia, al carciofo in apertura, all’anguilla, al colombaccio e finanche alla componente dolce, che viene sospinta in una iperbolica lettura del dolce-non dolce degli chef contemporanei e che fa delle sue lacune tecniche il suo grande cavallo di battaglia.

Così Tomei genera impeti e sobbalzi grazie a un mix di irriverenza e autostima, che completano il quadro di una tra le più originali e divertenti cucine dello Stivale.

Unico neo? Gli estenuanti lavori di sistemazione della nuova sede ancora in divenire.

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Una visita, senza partito preso, nel ristorante del “cuoco televisivo”

A meno di non aver trascorso l’ultimo decennio giocando a Burraco in un bunker sulla Luna, è pressoché impossibile ignorare chi sia Alessandro Borghese. Conduttore e protagonista di show a tema culinario, personaggio seguitissimo sui social network e da anni attivo nel settore del catering e nell’organizzazione di eventi gastronomici, Borghese ha da pochi mesi avviato il proprio primo ristorante e, fiducioso di conquistare l’entusiasta ma volubile clientela meneghina, ha scelto come base operativa il primo piano di un palazzo (targato Giò Ponti), già palcoscenico di imprese dalle alterne fortune. È difficile varcare la soglia del ristorante AB – Il lusso della semplicità con un atteggiamento totalmente laico. Se da un lato può non essere automatico, per una vasta fetta del potenziale pubblico pagante, affrancarsi dall’ammirazione per un personaggio televisivo considerato a livello nazional-popolare un’autorità in tema di gastronomia, l’appassionato rischia di scivolare rovinosamente lungo l’altro versante. Quello, cioè, della sottovalutazione snobistica nei confronti di uno chef assurto alla fama televisiva senza essersi prima guadagnato nella ristorazione, come è accaduto a Cracco o Cannavacciuolo, i galloni della credibilità da parte della nicchia gourmet.

Noi abbiamo provato a lasciare ogni pregiudizio al bancone d’ingresso. Abbiamo salito le scale e, dopo un breve percorso fra il bel cocktail bar e una sala che nulla fa per nascondersi, ci siamo accomodati nei pressi della cucina a vista con affaccio sulla City Life meneghina. Qualcosa potrà senz’altro non piacere ma, ricalcando la traccia valutativa che il Nostro propone per 4 Ristoranti, la location si fa certamente ricordare e merita un voto positivo. Se la seconda voce è il servizio, diciamo chiaramente che la sala gira tranquilla, con gentilezza ma con coordinazione migliorabile; un paio di incertezze vengono gestite con una punta di nervosismo, ma senza scortesia. I ragazzi si faranno, ma insistere nel tentare di servire un calice di rosso quando il secondo piatto è quasi terminato non è mai una buona idea. In tema di vini, è da lodare una cantina assai meno scontata di quanto ci si attenderebbe, con scelte intelligenti (in particolare sul versante delle bollicine) e ricarichi coerenti con il luogo.

Cucina democratica a prezzi lievemente elevati

Le nostre scelte gastronomiche si sono mosse tra il menu Business, proposto solo a pranzo, e la carta. Le nostre lodi vanno all’uniformità di livello esecutivo e di materie prime, che abbiamo riscontrato fra la proposta più semplice e quella più ambiziosa offerta dal ristorante. Tra un sugo all’amatriciana in cerca di una più contemporanea nota croccante e un dessert che, alla prova del palato, ha disatteso le aspettative di contrasti e sfumature suggerite dalla lettura in carta, va detto che la proposta gastronomica è di un livello che lascerà deluso chi si attende una stroncatura. Lo stile, certo, va verso una “democristiana” morbidezza gustativa e cerca più di smussare gli spigoli che di comporre mosaici seguendo i contorni gustativi degli ingredienti, correggendo continuamente con dolcezza e sapidità ogni tessera. Siamo certi che questa scelta sia improntata ad assecondare il palato di una fetta più vasta di clientela, ma non possiamo non rilevare come dalle stesse risorse si possano ricavare risultati gustativamente assai più interessanti.

Se da un lato 30 euro per quattro portate di buon livello a pranzo sono qualcosa di simile a un regalo, gli 80 euro che risultano facilmente da un’ordinazione completa alla carta portano inevitabilmente a confrontare Il lusso della semplicità con altre realtà cittadine con le quali allo stato attuale, dal punto di vista gastronomico, il ristorante di Alessandro Borghese non è in grado di competere ad armi pari. Ci auguriamo quindi che, grazie all’intelligenza che ci sembra guidare il progetto nel suo insieme, lo chef (peraltro presente in sala) riesca anche nel compito di conquistare palati più abituati a emozioni forti.

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