Passione Gourmet Alessandra Meldolesi Archivi - Pagina 3 di 4 - Passione Gourmet

Prima della Prima: Massimo Bottura

caesar salad, Prima della Prima, Massimo Bottura

CAESAR SALAD

Noli respicere, non voltarsi mai indietro. Per quanto Massimo Bottura abbia oltrepassato in scioltezza il codice binario che definisce l’avanguardia, la violazione della consegna di Orfeo punteggia il suo nuovo menu con un’insistenza martellante, che non può essere derubricata a casualità. Perché i piatti di nuovo conio si alternano a numerose riprese di spunti già svolti nel passato, talvolta vere e proprie icone: i ravioli con gamberi, gelatina di cotechino e lenticchie fritte, metempsicosi degli storici ravioli di cotechino, ormai traslocati nell’Eurasia vagheggiata da Beuys; la profondissima triglia alla livornese, intarsiata da una rimembranza di picassiano camouflage; e rubo la parte croccante della lasagna, d’après la parte croccante di una lasagna. Soprattutto un’irriconoscibile Caesar Salad che gira upside down, anzi outside in il modello di qualche anno fa. Composto, si ricorderà, di 22 elementi aromatici. Ieri in absentia, data l’assenza di lattuga; oggi più che mai in praesentia.
La frequenza del ricorso all’autoremake, in questo caso di un piatto già codificato, in una sorta di fuga dei remake, non stupisce in un cuoco che ha saputo centrifugare i suoi riferimenti pittorici in termini filosofici e di prassi creativa; cosicché il pittorialismo spiccio della citazione artistica ne rappresenta solo l’emergenza. Specie se si considera che “uno dei tratti salienti delle pratiche artistiche contemporanee consiste appunto nel tematizzare l’enigma della dissimmetria originaria insita nella coppia originale/rivisitazione, pari a quello tra rottura/continuità. E consiste nel cercare di mostrare (anche se non potendo veramente dimostrare) che l’opposizione fra originale e rivisitazione è essa stessa non originale”, si legge in Cover Theory, L’arte contemporanea come reinterpretazione di Marco Senaldi, dopo una disamina della boîte en valise, archetipo del genere a firma di Marcel Duchamp.
L’originalità, quindi, tema princeps della cucina degli ultimi decenni; ma anche fattore di destabilizzazione che instaura un’obsolescenza accelerata del piatto. “Abbiamo tolto alcune ricette, come Thelonious Monk, perché la loro ripetizione generava stanchezza”, è la versione di Massimo Bottura. “Rivoluzionare un piatto certe volte è il solo modo per tenerlo in carta”. Nel caso della Caesar Salad, a intervenire è stato un concetto rivoluzionario: il condimento dell’insalata dall’interno, fra foglia e foglia. Cosicché la lattuga “frigida” di Antonio Corrado fa esplodere in bocca con la sua acquosità una bomba crudista e antitecnica, potente e complessa, lubrificata da due diverse salse, micidiale grazie al grappolo degli ingredienti aromatici, dalle erbe alla pancetta. In accompagnamento un cocktail preparato al tavolo da Giuseppe Palmieri a base di Vodka, Ginepro, acqua tonica, gazzosa e pepe del Madagascar, con le sue note resinose e fiorite, quasi di lavanda, messe in circolo acceleratamente dall’alcol. Quando il cocktail è servito spaiato, anche un cuore di lattuga tuffato all’interno per l’acidità e la nota lattica, leggermente terrosa.
Gli autoremake: riflessività in senso stretto. La spia della maturità raggiunta da Massimo Bottura, capace di chiudere il cerchio dell’autosufficienza stilistica, fondare e fare evolvere il proprio lessico culinario, cannibalizzando materiali francesizzanti e popolari, emiliani o extraculinari. Ma anche un elemento di “anamorfosi ideologica”, per citare sempre Senaldi. “Ossia il collocare un artefatto culturale sullo sfondo delle proprie mancanze intrinseche”, al fine di confrontare l’originale con ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato”.
Dove la negatività finisce per propiziare un’espressione bianca. Perché “una poesia deve perdere ad una ad una tutte le corde che la legano a ciò che la motiva. Ogni volta che il poeta ne spezza una, il suo cuore batte. Appena spezza l’ultima, la poesia si stacca, sale come un pallone, bello in se stesso e senza altro aggancio con la terra” (Jean Cocteau).
E la cucina di Massimo Bottura vola.

Prima della Prima, Chef Enrico Crippa , carote, alghe,sesamo

CAROTE, ALGHE E SESAMO

Carota lunare, carota atomica rossa, carota viola cosmica, carota arcobaleno, carota Amsterdam, carota gialla sole, carota dolce tenera, carota corta marché de Paris. Tutte provenienti dall’orto in biodinamica del ristorante Piazza Duomo, tutte estratte delicatamente ogni mattina, intorno alle 8, dalla mano più sensibile della cucina italiana. Quella di Enrico Crippa, che al contadino Walter, il quale le verdure non le annaffia neanche più, ma le nutre con la legna macerata, lascia maneggiare solo gli ortaggi più robusti.

Non è la prima volta che Enrico Crippa si cimenta in quella che Umberto Eco ha definito “la vertigine della lista”, ovvero quella “poetica dell’eccetera” contrapposta alla poetica del “tutto è qui” che aveva già sospinto verso l’infinito la sua insalata 21 o 31 forse 41, miscellanea di erbe e fiori eduli i cui ingredienti si dispongono ordinatamente in fila, trasmettendo una vertigine vegetale che sublima e poetizza la terrosità dell’orto.
Poiché come scrive sempre Eco, da Omero in avanti sono due le modalità della rappresentazione artistica. La prima risale allo scudo di Achille scolpito da Efesto, ritratto esaustivo della civiltà agricola e guerriera che offre “l’epifania della forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto figura-sfondo tra le cose rappresentate”. Mentre la seconda trova il suo paradigma nei 350 versi che sempre nell’Iliade occupa il celebre catalogo delle navi achee ed è poi ripresa per esempio nella lista degli oggetti dentro il cassetto di Leopold Bloom. Utile soprattutto “quando non si sa quante siano le cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in qualche modo percepibile, se ne elencano le proprietà – e come vedremo le proprietà accidentali di un qualcosa, dai Greci ai giorni nostri, sono ritenute infinite”.

L’infinito attuale di una radice di carota e dei suoi eccetera gustativi, oltre il sigillo della forma. Di qui anche il particolare stile dell’impiattato, vera cifra dello chef, che evita di instaurare rapporti gerarchici fra gli ingredienti affastellati sul candore della porcellana, ma la riempie come una tela senza delineare centri, limiti o periferie.
Diverse per età, sapore e consistenza, le carote baby fresche di giornata, integre poiché complete di buccia, particolarmente intense e complesse grazie alla coltivazione biodinamica (“è come assaggiare un pane al lievito madre conoscendo solo il lievito di birra”) sono cotte per riduzione alla francese con acqua, burro di alpeggio e sale. Compongono un mare e monti inedito insieme alle alghe nori spennellate di olio ed essiccate e all’alga kombu a julienne candita con soia e mirin, dove la terrosità delle radici sposa le note ircine, umide e quasi fangose sviluppate dagli organismi acquatici. Più una spolverata di sesamo, esaltatore di sapidità naturale, e polvere di nocciola di Langa; foglie di shiso verde e rosso per le note fresche di basilico, menta e limone. Ne risulta un romanzo di formazione gastronomico, dove le esperienze compiute da Crippa in Francia affiancano i corposi capitoli del Giappone e del magistero di Michel Bras. Esperienze che sono andate a fecondare la scena langarola con la stessa vitalità degli sciami d’api sui fiori e dei lombrichi che ora rivoltano le zolle, visto che la cucina del mercato ha ormai ceduto il passo all’orto; le comande di carne e pesce seguono le disponibilità vegetali, che dettano legge sul menu.

Ci sarà anche questo piatto, quando Piazza Duomo alzerà il sipario sui locali rinnovati il 7 febbraio. L’acquisto dell’appartamento adiacente, della superficie di 300 metri quadrati, ha consentito di ampliare i bagni e il pass della cucina; allestire un salone di accoglienza, una saletta supplementare da 14-16 coperti con seminato veneziano e boiserie, uno spazio canapé, una nuova plonge e soprattutto 4 camere che verranno messe a disposizione come chambre d’hôtes.

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna

È ancora capace di dividere, il ristorante Mugaritz, saldamente ai vertici mondiali nella classifica dei 50 Best, eppure baciato dalla controversia che oppone fazioni di pubblico e di critica, forse persino le sfere emozionali dei suoi stessi clienti. Sintomo di uno stato di grazia condiviso da pochi, grandi chef: in questi tempi di abbiocco per prandium, la cucina si divincola più viva che mai fra i rebbi della forchetta e riesce persino a graffiare il palato inviando i suoi messaggi nervosi al cervello.
Andoni non è un cuoco qualunque: mangiare al suo Mugaritz significa sprofondare in un’altra dimensione culinaria, che chiede all’ospite un vigile abbandono, quasi una forma di sonnambulismo che concili veglia e sonno, interrogazione e vaticinio. Da sempre clamorosamente inattuale, artista postumo nell’accezione di Jean Cocteau, ha di certo anticipato il naturalismo che rampica dalla Scandinavia all’Amazzonia, senza tuttavia indulgere al brutismo primitivista e low tech delle espressioni più puntute. Nessuna sbavatura nei suoi piatti, anzi un’attenzione che rasenta la maniacalità per dettagli pressoché insensibili alle papille umane; neppure l’ombra del riduzionismo che accetta la complessità della cucina insieme ai colli dei galli cedroni. La perizia tecnica, tanto avanguardista che classica, dovuta a maestri come Ferran Adrià e Martin Berasategui, è innanzitutto un’istanza di rigore. Anche se ultimamente altre urgenze sembrano avere guadagnato la primazia: caduta la dimostratività degli anni 0, una diversa “semplicità” scolpisce i piatti, incentrati su un’idea sensoriale piuttosto che sulla tecnologia o sul concetto.
Soprattutto Andoni sembra possedere il requisito oggi imprescindibile nel panorama gastronomico internazionale: il possesso di un registro emozionale, cioè gustativo proprio. È l’insapore, da sempre investigato quale estrema provocazione in tempi di concentrazioni muscolari, capace di attrarre nel mulinello del suo vuoto la materia vagante del pensiero. Molte portate sembrano non contenere un solo grano di sale (per esempio il sugo di gamberi rossi delle scaglie di ghiaccio), quasi che ancora una volta la testa e la gola debbano ingaggiare il loro duello gastronomico.
La messinscena del pasto mira a scongiurare qualsiasi tipo di routine, per esempio attraverso titoli-trappola che non corrispondono alla reale composizione del piatto (cipolla carbonizzata al posto del nero di seppia), in modo da attivare la sensibilità del commensale. La prima parte del menu, dal toast affumicato con l’astice e la sua testa, che profuma di prateria e di primavera, allo struggente racemo di amaranto rosso fritto con sesamo in polvere, studio sulle testure sabbiose dove l’Oriente torna categoria dello spirito, va consumata con le mani, per esaltare la tattilità e il rapporto originario col cibo. Ma gli stessi supporti sono qualcosa di più di uno strumento: veicolano piuttosto una forma di sinestesia con l’ingrediente che riesuma gli esperimenti futuristi attraverso la citazione delle tessiture (il legno per la carota, i minuscoli arabeschi del fritto pastellato). Fino al gioco della morra che vivacizza l’impeccabile royale a bassa temperatura, servita con caviale o meno a seconda di chi vince, e alla puntata in cucina per abbattere la quarta parete di qualsiasi ristorante, dove si gustano i mini-rombi fritti. Ennesimo ingrediente aurorale che però lancia il sasso della provocazione sulla definizione di “buono”, suscitando un legittimo shock. Giacché la sacrosanta retorica della sostenibilità partecipa delle nostre sensazioni, così come il pregiudizio verso quanto è bruciato o incenerito (vedi il condimento del tendine fritto e il toast di midollo, dove sembra ancora fumare il terribile incendio del locale nel 2010); cosicché a insinuarsi è una cucina del sospetto che demistifica le certezze precostituite, emancipandocene. Alla fine del menu sopraggiungono poi i 7 vizi capitali, sequenza di piccola pasticceria contenuta in una torre di Babele a cassetti. Cioccolatini vuoti per la superbia, nessun cioccolatino per l’avarizia, consistenze lubriche per la lussuria. Un’allegoria in piena regola, che insinua l’ennesimo dubbio sui livelli di lettura dei piatti che l’hanno preceduta.
Ma anche l’impiattato contribuisce ad instaurare uno straniamento fecondo: scorrere le portate del menu equivale ad una carrellata di UFO (Unidentified Food Objects), mai così alieni rispetto agli enti tridimensionali che popolano i nostri frigoriferi e i banconi dei mercati. Sono spesso esaltati dal tocco vegetale di erbe impossibili: la messicana papaloquelite, twist olfattivo dell’agnello con i suoi aromi di foglia di mandarino e coriandolo, come la tea rock, da cui si estrae un dolcificante naturale immacolato.
L’elemento dominante, però, è la testura, vera ossessione di Andoni. Un po’ per ragioni di terroir (la cucina basca valorizza consistenze gelatinose altrove sgradite, vedi le kokotxas); in parte quale elemento di sovversione del gusto. Il menu si configura quindi come una sequenza di tattilità sottilmente “disturbanti”, sempre perfette nella loro esecuzione: la vischiosità filamentosa del granchio, la cui “mucillagine” deriva dai semi di lino ammollati nel latte delle noci di Macadamia; la spugnosità del riso fermentato, un’esplosione di sakè e di cantina; lo stridio sotto i denti del vetro di cioccolato; l’amido crudo dei dolcichini, che prosciuga il palato dalla succulenza del nasello. Soprattutto l’evanescenza “tiepida” dei trucioli di ghiaccio, sorta di rosa del deserto scarlatta pronta a sciogliersi in bocca senza anestetizzare il palato grazie a una costosa macchina giapponese. Una cucina dell’istante non meno effimera delle pompas del passato, quasi un apologo sull’obsolescenza programmata dell’avanguardia.

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna

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CREMA DI CECI E NOCCIOLE AL TARTUFO BIANCO, GELATO DI OSTRICHE

Pensavamo di averlo ripiegato in fondo a qualche scatolone, il trompe-l’oeil, genere egemone del lungo carnevale spagnolo, fra il trantran del repertorio e la quaresima interminabile della contemporaneità. Finito nella soffitta della storia con qualche coriandolo ancora sparso sopra, come una maschera divertente da rispolverare nelle occasioni di rito. Sorridendo del fungo-prosciutto di Quique Dacosta o del carpaccio di cocomero di Andoni Luis Aduriz, per non parlare della terra in cioccolato di Ferran Adrià. Virtuosismi certo, tesi a dimostrare la padronanza del cuoco sul prodotto, nel senso letterale del possesso. Antitetici rispetto al puritanesimo di quella cucina della verità che ha preso piede da qualche tempo a questa parte.
Pensavamo, appunto, perché il trompe-l’oeil probabilmente ha solo cambiato tecniche e funzioni, spogliandosi della dimostratività del tour-de-main per farsi attrezzo di una cucina del sospetto, che allerta maliziosamente l’attenzione di chi mangia su ciò che sta realmente mangiando. Niente di effettistico insomma, piuttosto un dubbio insinuante che rosicchia l’ideologia della cucina. Come nel caso della crema di ceci e nocciole al tartufo bianco e gelato di ostriche di Christian Milone, preview culinaire dove l’illusionismo si sdoppia in un gioco ora manifesto, ora sottile. Gustativamente e concettualmente stringente.
Da una parte la castagna-tartufo, presentata sotto la cloche e affettata con la mandolina d’ordinanza secondo la più popolana delle tecniche: i marroni di Garessio pelati sono rimasti chiusi in un barattolo sottovuoto insieme ai tuberi per 1 settimana, impregnandosi dei loro profumi come il riso, ma senza effetti disseccanti, per un esito di sorprendente intensità. Dall’altra la crema di ceci ottenuta unendo loro nel Bimby un 30% di nocciole trilobate di Langa, precedentemente cotte a 60 °C per 2 ore: la frutta secca viene trattata al pari di legumi, arricchendo la testura e veicolando i profumi sulle ruote della componente grassa. Infrangendo soprattutto la routine sul muro dell’errore categoriale calcolato.
Non basterebbe se questo monocromo di stagione, imbastito sul canovaccio del comfort food regionale, con la trama delle affinità merlettate di nocciole, non sbattesse sullo scalino poetico del contrasto, secondo una legge del bello. Quella che richiede che “la distanza sia estrema e l’evidenza inconfutabile”: “Come non scorgere una legge dell’estetica in questo obbligo di paragonare i contrari?”. È il gelato di ostriche crude e acqua di ostriche, contrappasso sapido, fresco e straniero, soprattutto interlocutore olfattivo del tartufo, che irretendo nel suo profilo iodato la prepotenza degli idrocarburi sposta lungo la mucosa olfattiva il baricentro del piatto.
Ma la carta a venire riserva altre sorprese: la cialda di porcino, capolavoro analitico dove il fungo è destrutturato e riassemblato (fuori una cialda composta di isomalto e cuticola, la parte più intensa, sporca e amarotica del fungo, trappola microbica del genius loci; dentro una farcia di cappella e gambo saltati; il tutto sospinto dal supporto di muschio e foglie secche nell’alveo di una cucina emozionale e dell’istante, che lavora separatamente sull’olfatto e sul gusto); l’iper-primitivista salmone “affumicato” dal mucchietto di trucioli di liquirizia a bordo piatto, con la guancia spadellata alla lavanda da scalcare a mano, sorta di sot-l’y-laisse ben più pallido, soave e moelleux del resto della polpa, sul modello delle kokotxas basche ma con crudeltà tutta nord-europea; la carne cruda brasata al vino rosso, crasi di due classici piemontesi che inverte crudo e cotto, come la cotoletta sbagliata di Matteo Baronetto, dove la classica battuta di coscia nella sua integrità aristocratica è condita dal sugo liofilizzato al vino rosso.

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I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.