“La vita è movimento. Nulla è statico o assoluto. Nessuno è. Siamo in uno stato di flusso costante, proprio come la terra, le maree, i batteri, la luce, il sangue nel nostro corpo, i colori, i semi”.
Si può partire da questo assunto per raccontare la storia dello chef Mitsuharu e del suo ristorante Maido, a Lima, che gioca sull’incontro incessante di culture a lui appartenenti, propulsori di suggestioni e stimoli necessari alla propria realizzazione personale messa al servizio dei clienti. In questo gioco personalissimo di emozioni e memorie, Mitsuharu si concilia con un modus vivendi che ha origini ottocentesche, riscoprendosi esploratore di un mondo già conosciuto, che si esplicita sotto forma gastronomica con la cucina Nikkei.
Alla fine dell’Ottocento infatti, migliaia di giapponesi iniziarono a trasferirsi in Perù stipulando particolari contratti lavorativi biennali. Il loro lavoro era principalmente d’ausilio nella produzione di canna da zucchero. Al termine dei due anni, molti di questi emigrati decisero di restare in Perù integrandosi con la popolazione locale e costruendosi la propria famiglia. Al servizio della stagionalità, questa comunità nipponica iniziò a creare un nuovo corso gastronomico che vedeva l’innesto dei cibi locali nella tradizione culinaria giapponese.
Il passo per rendere questa cucina di commistioni al servizio di grandi chef fu molto breve. In principio fu Nobu (Matsuhisa), poi ci fu l’innamoramento dei fratelli Adrià che con l’eccezionale Pakta la fecero scoprire agli europei, senza dimenticare i profeti in patria di cui Mitsuharu fa parte.
Situato a Miraflores, uno dei quartieri più ricchi e sicuri della capitale peruviana, Maido è un limpido esempio di come un ristorante che fa grandi numeri possa riuscire in preparazioni tecnicamente di buona qualità. L’accoglienza, il caos dell’ambiente, la semplicità di approccio sono la cornice ideale di un locale che fa dell’onestà culinaria un suo dogma. Grande materia prima al servizio di tecniche di lavorazione ineccepibili, qualche volta però non supportate adeguatamente dal gioco di equilibri gustativi, sempre cercati ma non sempre trovati. È così che, dopo passaggi davvero notevoli come il wagyu stufato per cinquanta ore, il nigiri di animella o il saguchito de paiche, si rimane se non delusi quantomeno perplessi all’arrivo di piatti poco fini palatalmente e con una vena sapida davvero troppo accentuata.
Questo saliscendi emozionale, che lascia interdetti visti i picchi altissimi toccati in qualche occasione, è supportato da un servizio svelto e da un ritmo imposto dalla cucina decisamente serrato. Il tourbillon creato e percepibile all’interno di Maido, che in giapponese è la forma d’espressione più alta per indicare il concetto di accoglienza, si riaggancia all’idea di onestà già emersa in precedenza, in cui l’errore tecnico da parte della sala e l’armonia all’interno del piatto non sempre trovata, sembrano passare in secondo piano rispetto al clima unico e gradevole che il ristorante nel suo insieme sa offrire. Non è un caso che ancor prima di entrare a far parte della prestigiosa classifica 50 best, Maido riscuotesse un ottimo successo da parte di critica e pubblico.
Come già riscontrato in altri grandi ristoranti del Centro e Sud America, anche Maido dà l’impressione di riuscire ad esprimere le proprie potenzialità in maniera ancora molto inibita. Nel complesso però la tappa è consigliata e il ricordo è quello di una bella cena, seppur con qualche complessità di troppo. Il movimento gastronomico sudamericano sta crescendo, facendo passi da gigante. È lecito e d’obbligo quindi concedere e sorvolare su qualche errore, nello specifico da parte della sala, che nel vecchio continente sarebbe ritenuto inammissibile.
Il dettaglio in evidenza del riconoscimento della 50 Best.
Pelle croccante di pollo con salsa Pachikay.
Senbei di riso, choirizo, platano grigliato e emulsione di sachatomate. Boccone goloso e dai sapori spinti.
Churos (servito con lumaca gigante dell’Amazzonia, churo alla soia e spuma di dale dale, un tubero dal sapore tra patata e rapa). Piatto cult, dai sapori tendenti al sapido-iodato.
Sanguchito de paiche, ovvero un pesce di acqua dolce di grande pezzatura (pane al vapore, chicharron di paiche, criolla de lulo). Un boccone da urlo. Temperature e consistenze millimetriche.
Ceviche selva (gamberi, sgombri, leche de tigre e tagliatelle di cuore di palma). Piatto ricco di sapori.
Chancho con yuca (pancia di maiale grigliata con manioca e riduzione di ramen e cocona). Altro piatto non finissimo, ma dall’alto tasso di golosità.
Sacha soba (spaghetti di soba con sachapapa, aderezo rojo – sorta di vinegrette – vongole e granchio crudi). Qui il livello è altissimo, sia in termini di lunghezza gustativa che di trattamento della materia prima.
Nigiri con entrana con uovo di quaglia e ponzu.
Nigiri con animella. Eccezionale.
La panoramica di entrambi.
Gindara (cotto nel miso, casho fermentato, castagne grigliate, crema di patate sangre de toro). Piatto notevole che ricorda il black cod anni ottanta di Nobu ma anche un piatto identico assaggiato al Pakta.
Da vicino.
Asado (wagyu cotto per 50 ore, tuorlo d’uovo, chaufa de cecina, ajicito de la selva). La consistenza della carne è tenerissima all’interno. Salsa agrodolce tirata alla perfezione.
Cacao (cioccolato al 70%, yuzu, gelato di shicashica, mochi, castagna e terra di cacao). Buono ma dal sapore già noto.
La brigata al lavoro.
Nella scorsa puntata abbiamo raccontato l’esperienza, ora qualche breve cenno all’esperienza più direttamente culinaria.
Valutare questa come la cena da uno dei cuochi migliori al mondo sarebbe un errore, semplicemente perchè qui tutto è stato armonizzato e contestualizzato all’esperienza complessiva, e non soltanto circoscritto a quella strettamente gastronomica.
La curatissima mise en place, pensata e organizzata nei minimi dettagli per ogni portata, sottende un lavoro straordinario di ricerca e di unione tra contenitore e contenuto, tra cibo e suppellettili. Perchè l’aspetto visivo-scenografico ha un peso pari o superiore a quanto poi è portato a tavola.
Ecco quindi che in quest’ottica tutto viene letto e posizionato correttamente. Il cibo è comunque interessante, con alcune tapas davvero piacevoli, alternati a dire il vero a molti passaggi che sfuggono, anonimi e non particolarmente esaltanti. Ma nel complesso tutto quanto è al posto e al momento giusto.
E, ricordiamolo, mangiare così a questi prezzi ad Ibiza è tutt’altro che facile.
Un’esperienza quindi nel suo complesso, non ci stancheremo di dirlo mai, davvero unica e formidabile, da non perdere.
Lasciamo ora spazio alle preparazioni.
La mise en place.
Iniziamo con le tapas di aperitivo… anguria al Campari.
Sferificazione di olive.
Bloody mary gelificato e mango piccante.
Sablè al lampone e mostarda e frolla al Parmigiano.
La pizza.
Il fantastico Jamon.
Tonno.
Ogni dettaglio è curatissimo… il simpatico servizio delle ostriche.
Un discreto bianco bio.
Fantastica zuppa di avocado.
Carne tremendamente buona.
Cannellone avocado e granchio.
I dim sum.
Panini al vapore.
I gamberi di Ibiza.
Sferificazione di mais.
Gelatina di litchi e rosa.
L’astice.
Panini al vapore.
Tortillas.
Filetto alla salsa cafè de Paris…
..e i suoi accompagnamenti.
Crocchette di Jamon.
L’inizio della lunga sequenza di dolci.
I fratelli Adrià e le Cirque du Soleil: Heart, ad Ibiza, è la creatura innovativa e dirompente di questo duo fantasmagorico.
Da dove cominciare?
Sicuramente dal fatto che questo avveniristico locale traccia una linea indelebile, oltrepassata la quale sarà difficile tornare indietro.
Sicuramente dal fatto che ancora una volta i fratelli Adrià hanno reso tangibile e fruibile il concetto astratto di progresso.
Sicuramente dal fatto che in un luogo come Ibiza, pensato e creato in funzione della trasgressione, si sia riusciti a snaturare l’idea prima di ristorazione, plasmandola al ritmo isolano senza sminuirla, aprendo le porte ad una nuova concezione di cena, liberando i sensi, abbattendo barriere psicologiche, andando a creare uno spettacolo che trova nella sua iperbole la propria anima.
Il fatto poi di reiterare la negazione di tutto ciò che l’Heart si propone di offrire è un vero e proprio colpo di genio.
Non è un ristorante, non è uno spettacolo circense, non è uno show. E’ qualcosa di nuovo, avvincente, divertente ed avanguardista. E come tutte le avanguardie fa discutere.
Errato infatti aspettarsi la cucina degli Adrià e lo spettacolo circense più bello del mondo.
Ma il vero limite sta nel rimanere delusi dal compromesso, dolorosa chiave di successo di ogni rapporto. Minuziosa, maniacale, perfetta, l’attenzione ai dettagli che si susseguono durante le cinque ore che accompagnano l’evolversi di uno show creato esclusivamente con l’intenzione di stupire, lasciando gli ospiti ammaliati ed esterrefatti, in un ironico gioco di rincorsa all’ingenuità tardo ottocentesca, destinata a grandi e piccini, alla scoperta dello stupore, coinvolti ed entusiasmati dai colori, dalla musica, dalle danze e dal cibo. Oggi, come allora, posti di fronte a qualcosa di straordinario in quanto nuovo, inconcepibile per una mente comune e quindi motivo di dibattiti accesi, gli ospiti si lasciano trasportare dalle emozioni che gli Adrià e le Cirque du Soleil offrono.
Uno spettacolo multimediale davvero interessante, che ha anche il pregio di rendersi accessibile ai più, proponendo un menù bevande escluse intorno ai 200€ che, se paragonati (considerata l’offerta proposta) ad un ingresso al Pacha, la discoteca più trendy della località, non è affatto un prezzo spropositato, tutt’altro.
Nel prossimo appuntamento parleremo dei piatti e della cucina… intanto godetevi qualche immagine e liberate la mente cercando di contestualizzarvi con un locale che altro non è che la sintesi perfetta dell’idea di Ibiza, elevata alla sua massima potenza.
Il bancone del bar nella terrazza in cui viene servito l’aperitivo.
Coreografie per le tapas in aperitivo… come sempre tutto curato nei minimi dettagli.
Il menù.
Gli interni.
Il palco.
La cucina.
L’angolo bar.
Inizia lo spettacolo…
Intelligente e studiata operazione commerciale, o ennesima grande tavola firmata Adrià?
Non è poi così facile delineare il confine tra un aspetto e l’altro e, forse, nemmeno così importante. Perché se si raggiunge un livello di qualità come quello del Pakta, allora tutto il resto è chiacchiera da bar.
Certamente qui si ha avuto l’occhio lungo, aprendo in tempi non sospetti (nel 2013) un locale di cucina Nikkei.
Cosa c’è di più fashion, oggi, di una cucina che mischia il mondo giapponese con quello Sud Americano?
E infatti il locale va che è una meraviglia, grande successo di critica ma anche di pubblico, perché questa non è una enclave per appassionati, il bacino d’utenza può essere (ed è) decisamente più ampio.
E anche noi siamo tornati più volte a visitare questo locale.
Eppure non sono pochi i fattori che potrebbero smorzare gli entusiasmi: solo due menù degustazione, da scegliere possibilmente in anticipo, all’atto della conferma della prenotazione; prenotazioni non agevoli (online, due mesi prima della data di interesse, vengono aperte le prenotazioni: molto difficile trovare posto nell’orario preferito); una rigidità nel servizio dei piatti quasi esasperata (viene indicato l’ordine con cui mangiare gli ingredienti, con quale stoviglia e in che modo!).
Allora perché venire qui?
Perché, nonostante tutto, qui si fa una grande cucina fusion.
Forse una delle sue migliori espressioni europee, non possiamo che ribadire quanto già espresso nelle nostre precedenti visite.
Non c’è la profondità di sapori di un grande kaiseki di Kyoto, o la precisione di un sushi master di Tokyo, ma quella Nikkei è una cucina interessantissima (che speriamo di provare presto in Perù) e qui viene interpretata ad altissimi livelli.
Tecnica impressionante, mix di ingredienti riuscitissimo: la freschezza e la tecnica della cucina giapponese incontrano il carattere più speziato di quella peruviana; lime, mais, peperoni, patate, si uniscono a miso, alghe, tosazu, dashi, in un vortice di sapori sorprendente.
Non una sbavatura, non un tentennamento: difficile trovare qualcosa di meglio nel vecchio continente.
Allora l’unico interrogativo che ci sentiamo di porre non è legato alla cucina (splendida) ma alla modalità di offerta: menù fissi chilometrici, tempistiche registrate al secondo, fruizione dei piatti rigida… ha ancora senso tutto questo nel 2015? E’ questo il futuro della ristorazione che vogliamo?
Dove sta la carta? Dove sta la libertà di mangiare prima la salsa e poi il pesce se così ci va? Quanto avanti è stato portato (soprattutto nei grandi ristoranti spagnoli) il confine tra ristoratore e cliente? Quanto quest’ultimo deve sottostare a regole indicate dal primo?
Sono domande che lanciamo sul tavolo, per ragionare e ragionarci insieme, come già abbiamo fatto in passato.
E chissà se una risposta c’è davvero…
Per cominciare, un ottimo Pisco Sour e un Lurasnu.
Abbiamo scelto il menù Machu-Picchu.
Mangiando al bancone si possono vedere in diretta le preparazioni dei piatti.
Honzen Ryori.
Nigiri di calamaro con caviale.
Corn surinagashi (zuppa di mais con dashi).
Tamago-dofu (crema d’uovo), salsa tosazu (salsa a base di fumetto di tonno bonito, alga kombu, salsa di soia e hon mirin) con alga nori e uova di salmone.
Sugarello con cetriolo, gari (sottaceto) e salsa sumiso (salsa a base di miso, pasta di fagioli di soia fermentati e aceto).
Polpo con olluco (un tipo di tubero), edamame and kimchi (verdure fermentate con spezie).
Daikon (ravanello cinese) con “ají amarillo” (peperoncino)
Kumquats con gelatina “leche de tigre” (il succo del ceviche)
Un goccio di sake a ripulire il palato.
Shimesaba (sgombro e aceto) con alga wakame e salsa di soia bianca (shiro-shooyu).
Vegetariano abalone “tiradito”: un fungo, ma la consistenza è molto simile a quella dell’abalone.
Tomato ponzu “leche de tigre” con cozze bouchot (mais tostato e mais).
Usuzukuri di lampuga con yuzukosho (una pasta fermentata fatta con peperoncino, scorze di yuzu e sale).
The Nigiris.
Pauro con alga kombu.
Acciuga fresca con sedano, umeboshi e rocoto (un tipo di peperoncino).
Tartare di ventresca di tonno con chips di yucca.
Questa tipo di cucina si abbina benissimo a tea e infusi, molto buono questo allo zenzero e verbena.
Gambero grigliato.
Ceviche di spigola con “leche de tigre” e mandorle verdi.
The Causas.
Causa floral di tonno con maionese “acevichada” e wasabi kizami.
Causa fritta con pollo and huacatay (pianta della famiglia delle Asteraceae).
Ravioli Xiao Long Bao ripieni di maialino da latte con olio “ají limo” (peperoncini peruviani).
“Sanguchito” (sandwich) di guancia di maiale fritta con sottaceti.
Pesce pappagallo fritto con sale andino.
Soba Cancha chulpi (un tipo di mais) con “leche de tigre ají amarillo” e bottarga.
Per finire:
Lumaca di mare con brodo di pollo e huacatay.
Rock fish con salsa nikkei “escabeche”.
Aged rib eye steak con polvere all’aroma di griglia e salsa béarnaise con chincho (una erba aromatica).
La preprazione di…
…melanzana arrostita con miso e crema di fegato.
Sorbetto Huacatay.
Desserts Honzen Ryori.
Melone con frutto della passione.
Lime con pisco e miele di zucchero di canna.
Sashimi di mango con shiso verde (perilla).
Pesca con miso bruciato.
Insalata di cocco e daikon.
Patate dolci “picarones” con fichi secchi al miele.
Cioccolato Pakta.
Divertente: in questa unica e semplice parola si potrebbe racchiudere il Tickets.
E non crediate sia poca cosa, che sia un aggettivo sminuente per il lavoro che viene fatto qui: un’attività ristorativa che sa divertire il cliente, ha in mano le chiavi del successo.
Ed infatti il pubblico qui non manca, mai.
Nonostante i turni multipli, nonostante le difficoltà di prenotazione (l’apertura delle stesse avviene solo due mesi prima della data, e alle 00.01 i posti vengono bruciati in poche ore, con il sito web in tilt quasi sistematicamente), nonostante tutto: locale sempre e inesorabilmente pieno.
E questo apre uno spunto di riflessione sulle capacità imprenditoriali dei fratelli Adrià, che non solo hanno saputo rivoluzionare la storia della gastronomia, ma contemporaneamente sono riusciti probabilmente anche a fare un pozzo di soldi, circondandosi di soci illuminati e realizzando idee quasi sempre vincenti.
Si possono fare tanti soldi con la qualità: date un’occhiata qui dentro, e provate a fare un rapido calcolo di quale possa essere l’incasso settimanale.
La genialità la si coglie anche nel modo in cui viene data forma alle idee: Tickets è indubbiamente l’evoluzione gourmet del Tapas Bar, una taperia con il vestito della festa, colorato, bello e luccicante, studiato in maniera millimetrica per piacere e fare parlare di sé.
Ma non è l’unico locale di questo tipo di Barcellona, in altri hanno cercato di rendere più modaiolo quello che a Barcellona è più uno “state of mind” che un modo di mangiare.
Ma l’unicità, la chiave del successo, è che Tickets, in questa sua evoluzione, non ha perso l’anima del Tapas Bar, non ne ha perso l’essenza. Che è fatta di amici, di convivialità, di libertà, di bevute anarchiche passando andata e ritorno da cocktail a vino, a birra, di comande sempre troppo corte o sempre troppo lunghe, di aggiunte, di cancellazioni, di “porta pure tanto non rimane sul tavolo”, di confusione di gusti e sapori, di innamoramenti gustativi e profonde delusioni. Il Tapas bar ci concede di tornare bambini per due ore, di mangiare con le mani, di prendere qualcosa dal piatto del vicino, di spezzare i conformismi.
In un tapas bar c’è tutto un mondo, al Tickets anche di più.
I riferimenti al mondo di Alice, al Circo, ai cartoni animati vanno tutti in questa direzione: una ambientazione al limite del kitsch, eppure stranamente piacevole e azzeccata anche quando volutamente eccede.
A tutto questo è dovuto numeretto lì in alto, all’inizio della recensione: forse c’è solo qualche preparazione che valga quel numero, o forse no.
Ma questo posto è unico.
E noi ci torneremmo ancora, e ancora, e ancora.
Che teste questi Adrià…
Il locale si sviluppa in diverse aree di lavorazione: crudi, salumi, piatti caldi.
La carta delle bevande si presenta così:
Un Mojito favoloso, giusto per scaldare i motori.
Le olive del Tickets: nel nostro caso, varietà Gordal, con cannella, anice stellato, pepe nero e buccia di limone.
Jamón Ibérico Joselito Gran Riserva.
Pane e pomodoro, semplice e immancabile. Per chiarire meglio il concetto, per capire come la qualità si basi sui dettagli: questo è il pane al pomodoro più buono che troverete girando per tapas bar.
Rubia gallega in un Air Baguette: grande classico che merita tutta la sua fama.
Tonno in cornetto di alga nori: assemblato al tavolo. Stupefacente la profondità gustativa.
Ventresca di tonno, grasso di prosciutto e caviale: come si può spiegare una cosa come questa se non definendola capolavoro? Noi giriamo locali per cose come questa. Da lacrime. E da bis, ovviamente.
Ostriche!
Viaggio a Parigi: con aceto di vino al dragoncello.
Viaggio a Barcellona: con brodo caldo di pesce. Molto interessante.
Pomodoro e pomodoro: acqua di pomodoro, cuore di pomodoro, crema di mais e huacatay.
Polpo croccante e piparra (un tipo di peperoncino) sottaceto: polpo impanato con panko, bietola fermentata.
Anche questo ha richiesto il bis, senza nessuna discussione tra i commensali.
Pollo marinato, aria di lime, pane imbevuto nel suo succo di cottura.
Gamberi al carbone.
Accompagnati da una salsa olandese e da brodo di pesce.
Salsicce e seppioline, mare e montagna: la tradizione attuale. Spettacolo.
Per i dessert ci si può spostare in un’altra sala, decisamente “singolare”.
Il soffitto…
Le preparazioni.
Alle pareti video famosi…
Al Tickets i cucchiaini crescono sugli alberi.
La singolare carta dei dessert.
I Dessert sono tecnicamente perfetti, ma gustativamente non hanno la complessità della parte salata.
La Rosa, sfera di litchi e fragola con gelatina di acqua di rosa.
Air-pancake, spuma di yogurt, wafer caramellizzato, sciroppo d’acero e composta di ribes nero.
Cono di carota, yogurt al cardamomo, sesamo, gelato di mango e carota.
Éclair al cioccolato, nocciole e royaltine.
Millefoglie verticale coon una base di cioccolato, crema di burro di nocciole e fragoline di bosco.
Il cheese cake di Tickets: crema di formaggio “coulommiers”, cioccolato bianco, nocciola e frolla.