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La Lastra e la Vernaccia di San Gimignano

Storie di produttori: Azienda Agricola La Lastra

Noto per le sue antiche torri e per l’infinito splendore delle sue vedute, il borgo di San Gimignano è certamente uno dei più affascinanti della Toscana. Uno scenario da cartolina che, a suo tempo, ha stregato anche Nadia Betti e Renato Spanu, fondatori dell’Azienda Agricola La Lastra assieme agli “amici di sempre”, Enrico Paternoster e Valerio Zorzi.

In questo meraviglioso angolo di mondo, posto circa a metà strada tra Siena e Firenze, si tramanda la coltivazione della Vernaccia di San Gimignano, vitigno conosciuto in questi luoghi già dal Duecento. Le sue uve a bacca bianca danno vita a un nettare inconfondibile, che si presenta dai lucenti riflessi dorati e dalle spiccate note minerali, caratteristiche naturalmente accentuate da un adeguato invecchiamento per il quale questo vitigno è, tra l’altro, particolarmente predisposto.

La Cantina

Tra i suoi più apprezzati interpreti vi è l’Azienda Agricola La Lastra, cantina fondata nel 1994, che lungo questi placidi declivi possiede 7 ettari vitati, integrati ad altri 23, situati a ridosso del centro storico della città di Siena dove si produce Chianti Colli Senesi Docg. A conduzione biologica dal 2000, quando “il bio non era una moda, ma una filosofia di pensiero”, tutto qui è fatto all’insegna del rispetto della natura e nell’ottica di “riposizionare i veri valori legati alla vita, per dare un futuro alla nostra Terra.

Un obiettivo perpetuato attraverso la produzione di vini di qualità ed ecosostenibili, che raccontano nitidamente il territorio dal quale prendono vita. E in effetti all’assaggio emerge chiaramente la mineralità conferita dalle intrusioni di calcare dei terreni posti a San Gimignano, in zona Santa Lucia, dal pH alcalino. Dal canto loro Nadia e Renato operano in cantina con mano leggera, prediligendo l’acciaio e dosando minuziosamente il legno nella produzione della Vernaccia di San Gimignano Riserva, facendo sì che il vitigno si esprima compiutamente in entrambe le etichette, senza sofisticazioni.

Ecco quindi che al naso emergono tutti gli aromi varietali tipici del vitigno, come la mela e la papaya e delicate sensazioni agrumate e speziate, che col tempo si arricchiranno di pietra focaia, nocciole e miele, facendosi via via più eleganti e intensi.

Vini ‘di valore’

Sempre più conosciuti e sempre più premiati, i vini della coppia giunta in queste terre ancora ventenne e fresca di diploma in agraria da quasi trent’anni impreziosiscono il panorama enologico di San Gimignano. Si tratta, infatti, di etichette dense di valore, che riflettono appieno il motto aziendale: “l’Ambiente prima del business, le Persone prima del brand, la Sostanza prima della forma. Ricerca scientifica, Rispetto, Empatia ed Etica completano la base delle nostre azioni imprenditoriali, piccole o grandi, di breve o lungo periodo esse siano.”

* I vini dell’Azienda Agricola La Lastra sono distribuiti da Partesa.

Un omaggio alla famiglia d’adozione 

40% Fumin, 40% Petit Rouge e 20% di Vien de Nus: siamo al cospetto di un elegantissimo rosso valdostano prodotto in un piccolo clo – come direbbero i francesi – intorno ad Aosta, a Sarre, villaggio poco distante da Quart dove si trova Cave Monaja. Qui, i nomi sono consentanei alla storia.

La piccola cantina, in località Ameriqué, è gestita da Andrea Peloso. Coreano di origine, è stato adottato all’età di un anno dalla famiglia Monaja-Peloso. Ma il suo vero nome è Chul Kyu, e nella sua terra nativa, ad oggi, ci è tornato solo tre volte. Il trentanovenne Andrea inizia a muovere i suoi primi passi osservando i vigneti della vallée, da bambino partecipa alle prime vinificazioni artigianali nella piccola cantina di famiglia. Tra i profumi dei mosti fruttati e speziati, Andrea vede un’opportunità per “ripagare” – e con prestigio –  la famiglia che lo ha accolto e cresciuto. Nell’adolescenza si trasferisce ad Alba per studiare, dopo qualche anno diventa agrotecnico ed enologo. Dopo qualche esperienza in qualche azienda delle Langhe, ove assorbe e fa sua la percezione latomica dei vini piemontesi, ritorna nella sua Valle d’Aosta per iniziare a gestire i vigneti del nonno Carlo Alessandro Monaja (classe 1914), nominato Cavaliere della Repubblica, già Presidente dell’associazione degli artigiani. Un uomo di valori, un esempio per la comunità.

Osservazione, precisione e dolcezza

È il profilo di Andrea in vigna e in cantina, davanti alle sue barrique, anfore ma anche vasche d’acciaio. Chiamato dalla famiglia a gestire pochi filari (400 mq) il suo fare non è passato inosservato, in poco tempo diventa il “custode” di altri appezzamenti (30) per un totale di due ettari di vigneti dislocati in 8 comuni attorno ad Aosta. In Andrea inizia a farsi strada l’idea di recuperare e valorizzare vecchie viti nel villaggio abbandonato di Farys, una frazione del Comune di Saint-Denis, assieme a quelle “piccole vigne familiari” in via d’abbandono poiché di difficile gestione ma soprattutto antieconomiche per grandi aziende. Nel 2016 il suo progetto diventa un rendering prima di diventare concreto, nel 2018.

L’approccio in vigna è naturale, si adottano pratiche colturali delle certificazioni bio, con particolare riguardo alla sostenibilità, come l’adozione del sistema di lotta alla tignola con confusione sessuale o la scelta di non inserire nel proprio processo produttivo un sistema di raffreddamento per la stabilizzazione tartarica, facendo affidamento sulle temperature rigide dell’ambiente montano. Cave Monaja è la prima azienda valdostana che sposa i criteri del Ministero della Transizione Ecologica (MITE), il “Certificato VIVA” della sostenibilità ambientale.

Diversi i vini prodotti, Monaja 300 (40% Petit Rouge; 30% Fumin; 30% Vien de Nu; 300 bottiglie annue da vigne di ottanta anni), il Foehn (40% Fumin; 30% Petit Rouge; 30% Vien de Nus; affina 18 mesi in tonneaux e ulteriori 12 mesi in bottiglia), Stau (60% Chardonnay; 20% Muscat; 20% Traminer; vinificazione in acciaio e 12 mesi di affinamento in barrique) a cui si aggiungono due referenze della linea ‘Prêt à Porter’, vini di grande presenza fruttata, apprezzabili già in gioventù, realizzati con cultivar indigene e internazionali, frutto di una scelta rispettosa della tradizione della regione, che in passato vedeva la presenza del “blend” già in vigneto, e che ben racconta di quanto sia funzionale al vino l’unione di più cultivar, di più anime.

Selection Monaja Souvenii AOC Vallée d’Aoste Rouge 2020

Solo acciaio per questo mix di uve coltivate in terreni morenici sciolti ed esposti a sud, raccolte in un singolo clos vicino a Casa e di proprietà da sempre della famiglia Monaja, da cui il nome. Una vino per espriemere rispetto, e senso di appartenenza alla Valle d’Aosta nonché in ricordo a chi gestiva la storica vigna. La precisione e la pacatezza di Andrea si respirano nella nitidezza dei profumi e nella scansione dei sapori al palato. Il gusto è raffinato, commendevole per la sua viscosità da un lato, e nitidezza e piacevolezza vellutata dall’altra. Già presente in qualche carta di prestigiosi ristoranti stellati in Italia come Mudec, LAQUA, Cracco, Petit Royal.

L’oro rosa del Lago di Garda

Il Lago di Garda potrebbe definirsi il locus amoenus per eccellenza. La bellezza sconfinata delle sue coste ha irretito gli avventori di ogni tempo, divenendo persino una tappa obbligata del celebre Grand Tour ottocentesco, che qui richiamava illustri personaggi del calibro di Lord Byron e Goethe. Un’attitudine che perdura ancora oggi, con accenti perlopiù di variegata estrazione nordica che sono andati a sostituire i romantici letterati inglesi, ma dove tutto il resto è rimasto immutato. I bei paesini affacciati sul lago sono sempre più valorizzati e circondati da ordinate colline verdeggianti che promettono riparo nelle torride giornate estive. Anche la proposta gastronomica è in costante crescita qualitativa. A fianco del prevaricante turismo teutonico si è sviluppata infatti una vera e propria nicchia di turisti gourmet, che vengono qui per quelli che sono ormai considerati dei luoghi di culto, come il ristorante Lido 84 di Riccardo Camanini.

Storia del Valtènesi

In particolare spolvero è, poi, il settore enologico sulla sponda lombarda: dalla tradizione antica, ma dal sapore freschissimo. Il vino infatti è lo stesso nettare rosato con cui già Lord Byron e poi D’Annunzio brindavano in calici di cristallo al bien vivre; riproposto oggi in una veste estremamente simile, solo leggermente scolorita per adattarla ai canoni estetici attuali. Si tratta del Valtènesi, sottozona e ideale apice qualitativo della Denominazione di Origine Controllata Riviera del Garda Classico.

Il procedimento produttivo di quel “claretto” diffuso sul territorio fin dal 1500, venne codificato nel 1896 ad opera del senatore veneziano Pompeo Molmenti, che ne amplificò la fama portandolo a diventare una referenza di successo nei salotti e nei locali milanesi del primo ‘900. Il Chiaretto Valtènesi era ottenuto a seguito della vinificazione in rosa del vitigno autoctono più prezioso del territorio, il Groppello, le cui bucce rimanevano a contatto con il mosto per poche ore nel processo di “vinificazione con svinatura per alzata di cappello”.

Nasceva così il “vino di una notte”, nettare dal tradizionale colore rosato intenso che nel tempo è sfumato verso tonalità sempre più tenui ed eleganti, la cui tradizione è oggi tramandata dai 96 soci del Consorzio Valtènesi, attraverso poco più di 800 ettari vitati e circa 2 milioni di bottiglie prodotte annualmente.

Il vitigno e il territorio

Operativa dalla vendemmia 2017, la nuova Doc Riviera del Garda Classico nasce da un patto di territorio sottoscritto dal 90% dei produttori per sostituire le denominazioni precedentemente in vigore. Un accordo finalizzato ad unificare le denominazioni Riviera del Garda Bresciano e Garda Classico (sottozona della Doc Garda) in una nuova, unica denominazione a nome Riviera del Garda Classico, con il riconoscimento della sottozona Valtènesi come ideale apice qualitativo.

Vinificato in rosso o nella sua vocata veste rosata, il Valtènesi si produce in un’area più centrale e prevalentemente collinare della Riviera, tradizionalmente votata alla coltivazione del Groppello, vitigno che si coltiva e vinifica esclusivamente nella sponda occidentale del lago. Questo deve essere presente (nei biotipi Gentile e Mocasina, S. Stefano) per un minimo del 30% e può essere integrato da Marzemino, Barbera e Sangiovese per un massimo del 70% (o ancora da altri vitigni a bacca nera non aromatici per un massimo del 25%).

Nella Valtènesi non si produce solo vino, ma si coltivano anche olivi, agrumi e capperi. A testimonianza della particolare vocazione di questo territorio rivolto al sorgere del sole e del suo particolare quadro microclimatico, che conserva le caratteristiche di un Mediterraneo “slittato” di 1000 chilometri ai piedi delle Alpi. Caratteristiche uniche che, unite ai sottosuoli di matrice eterogenea, danno luogo a vini dalle sfumature variegate, ma di qualità sempre elevata e costante. Il risultato è un vino atto ad appagare i sensi. Prima alla vista, con sfumature che vanno dal petalo di rosa ai riflessi aranciati di un tramonto; poi al naso, con sentori floreali e fruttati sottili ed eleganti; quindi al palato, con la grande freschezza a ravvivare il sorso e una piacevole sapidità a renderlo memorabile.

Alcuni assaggi

Valtènesi Preafète 2021 – Podere dei Folli

Un’azienda giunta oggi alla quarta generazione quella che dà vita a questo vino di grandissima eleganza e piacevolezza. Lo splendido color rosa tenue dai riflessi ramati è un invito all’assaggio. I sentori sono sottili, con fragolina di bosco, pompelmo rosa e fiori di acacia che introducono un sorso setoso e rinfrescante, rinvigorito da un piacevole tono sapido sullo sfondo.

Valtènesi Rosé Doc “Micaela” 2021 – Conti Thun

Color buccia di cipolla alla vista, fruttato e floreale al palato. Petali di rosa e frutti di bosco contraddistinguono il sorso che pervade il palato: fresco, intenso, sapido e persistente. Un vino decisamente gastronomico, ideale da abbinare alle più svariate portate.

Valtènesi “Setamora” 2019 – Turina

Un discorso a parte bisogna fare per questo vino, riserva che affina per circa due mesi in legno e poi altri sei in acciaio prima di essere imbottigliato e immesso sul mercato. Il colore ricorda il rosa pesca, mentre il naso lascia trapelare note decisamente più dolci, come il pompelmo candito e la menta. Al palato è vibrante, fresco e sapido, di piacevolissima beva.

Alla scoperta del Nero d’Avola con Sicilia Doc

Nerboruto e potente, vellutato e ammaliante, il Nero d’Avola cela una sorta di doppia identità che di primo acchito potrebbe farlo sembrare un vino scontroso. Tuttavia approfondendone la conoscenza emergono quelle qualità che te ne fanno apprezzare la compagnia. La sapidità apportata dalla vicinanza al mare, i tannini mai troppo ruvidi, l’avvolgenza delle bottiglie più evolute che, come spesso capita a cose e persone, si ammorbidiscono nel tempo. Il Nero d’Avola è un vino dalla forte personalità. Come un vecchio pescatore, burbero e scolpito dal mare, che però è in grado di ammaliare chi lo ascolta con le sue storie, ricche sia di esagerazioni che di brutale realtà.

Storie che si è avuto modo di conoscere e approfondire in quel contesto di esagerata bellezza che è Villa Igiea, storico palazzo di Palermo appartenuto a Ignazio e Franca Florio e che oggi reca le insegne del marchio di lusso Rocco Forte Hotels. Tra quelle pareti affrescate con alcune delle più belle illustrazioni in stile Art Nouveau di Ettore De Maria Bergler e le sale adornate con gusto affacciate sugli splendidi giardini della villa e, più in fondo, sul mare, è andata in scena una tre-giorni di degustazioni, seminari e momenti di approfondimento dedicati a due vitigni iconici di questa terra: Nero d’Avola e Grillo.

Un evento nel quale il Consorzio di tutela vini Doc Sicilia non solo ha voluto rendere omaggio agli interpreti del territorio e alle diverse espressioni vitivinicole nelle quali esso si articola, ma anche presentare il progetto SOStein: 24 aziende, con oltre 40 milioni di bottiglie, intente nella promozione della sostenibilità ecologica della regione Sicilia, la più ampia superficie vitata italiana a conduzione biologica.

Da Palermo a Milano

Un secondo incontro con questo vitigno si è avuto, poi, a Milano, in quello che potrebbe definirsi il tempio Art Déco della gastronomia milanese: il ristorante Cracco in Galleria. Qui, al fine di evidenziare lo stretto legame del vitigno con il territorio, i sette campioni sono stati serviti alla cieca, con la sola indicazione dell’annata e della provincia di provenienza. Il tutto declinato in un abbinamento coraggioso, con il menù interamente vegetariano proposto da Carlo Cracco. Ebbene, il vegetale non ne ha risentito affatto e la proposta è stata convincente; a ulteriore dimostrazione della grande versatilità di questo vino.

Le caratteristiche del Nero d’Avola

In occasione del grande evento tenutosi a Palermo sono stati circa cinquanta i Neri d’Avola portati in degustazione. Una raccolta imponente a rappresentanza delle annate più giovani disponibili sul mercato, che ha dunque permesso di conoscere i diversi stili approntati dalla singola cantina e, con uno sguardo più ampio, le macro-differenze dovute alle rispettive zone di coltivazione.  

Vitigno a bacca nera tra i più diffusi in Sicilia, se i territori della tradizione erano rappresentati da Pachino e Vittoria, dalla fine del 1800 si diffonderà in tutte le province siciliane, fino a diventarne l’indiscusso protagonista. Del resto i suoi non sono pregi da poco conto. È un vitigno con una buona capacità di accumulare gli zuccheri, senza che questa caratteristica vada ad inficiare sull’acidità complessiva, che risulta sempre elevata. Alla vista si presenta dunque carico di colore, ma in bocca non è mai stucchevole grazie all’acidità, prevalentemente tartarica, che fa ordine sul palato riequilibrando la componente alcolica e la tannicità, ben presente ma mai troppo aggressiva. Al naso spiccano gli aromi primari, con costante percezione di ciliegia, fragola e violetta, ma anche di note vegetali e speziate.

Le macro aree enologiche

Il profilo organolettico del Nero d’Avola cambia nettamente a seconda del clima e del suolo sul quale insiste. I polifenoli risultano infatti maggiori al diminuire dell’acqua e all’aumentare dell’esposizione solare, mentre le componenti aromatiche variano a seconda del suolo. Sui terreni argillosi profondi, che in estate permettono di accumulare buone riserve idriche, i vini risultano più freschi, sapidi e leggermente amaricanti. Sui terreni limoso-sabbiosi, ricchi di scheletro, non molto profondi e tendenzialmente siccitosi, il profilo aromatico si fa più complesso, spostandosi verso sentori speziati e di frutta secca.

Illustrati in maniera puntuale dall’enologa Lorenza Scianna, di seguito la panoramica dei diversi territori.

Cinque vini che ci sono piaciuti

Palermo

Donnafugata – Sherazade 2020

Da vigneti coltivati tra Palermo e Marsala, su suoli argillo-calcarei, nasce il Sherazade. Un vino dal colore brillante, dove accanto al netto sentore di ciliegia emergono subito le note speziate del pepe nero e più delicati accenni balsamici. In bocca il tannino è suadente e il nettare scivola via in una piacevole carezza al palato, vellutata e fresca.

Caltanissetta

Duca di Salaparuta – Passo delle Mule 2019

Il terreno a composizione mista calcareo-silicea dà vita a un vino intenso e dalla piacevole sapidità. Al naso protagonisti sono i frutti, con marasca in primo piano e qualche spezia a contorno; al palato il vino dimostra tutta la sua bevibilità nonostante il grado alcolico elevato.

Agrigento

Planeta – Plumbago 2019

Nato da appezzamenti diversi, con scheletro abbondante a Ulmo e mediamente calcareo a Dispensa, il Plumbago rappresenta l’immediatezza del frutto. Al naso si palesano subito prugne mature, more e datteri, integrate da un corollario a base di cacao. Al palato è morbido, con tannini ben integrati.

Cantine Settesoli – Mandrarossa Cartagho 2018

Dai suoli calcarei e sabbiosi di Menfi, a breve distanza dal mare, prende vita questo vino di grande eleganza. Alla marasca si affianca la nota resinosa del pino, mentre in lontananza si palesano richiami mentolati e balsamici. Al palato emerge una piacevole mineralità, che ben stempera la rotondità generale dell’assaggio.

Trapani

Baglio oro – Ceppineri 2016

Ci spostiamo a Marsala, su terreni di medio impasto tendenzialmente argillosi. Con qualche anno in più di affinamento sulle spalle, questo vino mostra tutto il carattere del vitigno. Al naso spiccano note salmastre e fumé, tabacco e frutti che diventano piccoli e dai sentori più scuri, come il ribes nero. Una viva freschezza rimette al suo posto la generosa morbidezza, il tutto in un piacevolissimo equilibrio, che perdura a lungo sul palato.

Čechov e i vini illegittimi

Cronologia vivente (1885) è un raccontino satirico folgorante di Anton Pavlovič Čechov scritto quando il grande drammaturgo russo aveva 25 anni.

Il salotto del consigliere di stato Sharamykin è avvolto in una piacevole penombra. Una grande lampada di bronzo dal paralume verde colora di toni a La Notte Ucraina le pareti, i mobili, i volti. Di tanto in tanto nel camino che si sta spegnendo s’infiamma un ceppo che prima ardeva debolmente e per un attimo inonda i volti di un bagliore di incendio, ma questo non sciupa la generale armonia delle luci…

Fantasia checoviana

Fin dalle prime parole siamo introdotti in una calorosa atmosfera casalinga davanti al camino. Sharamykin assieme ad un caro amico se la spassa a elencare orgoglioso lo splendore dei tempi andati in confronto alla miseria del presente. Quando nella loro cittadina di provincia succedevano tante cose eccitanti (teatro musica eventi), interpellando di tanto in tanto da un’altra stanza la moglie trentenne presidentessa del comitato locale delle signore Anna Pavlovna, per ricordare le date dei vari eventi eccezionali: il passaggio in città del famoso attore, del grande cantante, dell’ufficiale turco. La Pavlovna è “una damina vivace tutto pepe dai vispi occhietti neri.” Il rendiconto di queste “venute” nell’arco del tempo corrisponde esattamente all’età dei loro 4 figli, Nina (10 anni), Nadechka (13 anni), Kolia (7 anni), Vanja (5 anni). 

Čechov, ancora così giovane ma già raffinatissimo nella sua arte dell’allusione amara e del sottinteso incisivo che tutto dice senza esplicitare nulla, rivela al lettore che ognuno dei figli è il frutto degli amplessi della moglie del povero Sharamykin con l’attore famoso, con il grande cantante, con l’ufficiale turco e infine con quel suo amico con cui l’ignaro e cornutissimo consigliere di stato sta condividendo questa piacevole chiacchierata serale accanto al fuoco.

Passano i secoli eppure questa condizione di “cornuto felice” possiamo ancora adesso ritrovarla intatta attorno a noi proprio come ce la descrive Čechov con tutta la sua carica di amarezza comica, di vivace forza grottesca. Se penso all’orgoglio inopportuno di molti produttori di vino o vignaioli improvvisati nei confronti dei loro presunti figli cioè delle proprie bottiglie di vino, mi pare che non si esca dalla situazione del consigliere di stato Sharamykin.

Che sia Maremma, Chianti, Montalcino, Langhe, Etna, Liguria, Bordeaux, Borgogna, Loira, Champagne, Alsazia, Mosella, Wachau, Napa, Stellenbosch, Valle del Douro… non riesco a non vedere che una folla pittoresca di viticoltori cornutoni e mazziati a tradimento. Produttori di vino inconsapevoli e forse proprio per questo autocompiaciuti dei propri vini seppure figli illegittimi, figli semmai dell’enologo di turno, magari sempre lo stesso mandrillo che semina all’impazzata figli – le bottiglie di vino appunto – in giro per gli areali vitivinicoli d’Europa e del mondo.