E’ difficile trovare le parole per descrivere Venezia.
In quelle ore in cui il centro si svuota dei mille e più turisti, girando a casaccio tra calli e campi che sembrano usciti da un dipinto del ‘600, questa città sa regalare una esperienza unica, da concedersi almeno una volta nella vita.
Trovate una comoda sistemazione, lasciate le valige e poi uscite dimenticando le automobili e i canoni a cui la vostra routine vi ha abituato: semplicemente perdetevi nello stupore.
Non c’è modo migliore per scoprire Venezia che un bel giro di Bacari: basta scegliere una zona della città ed individuare le tappe più raccomandabili, oppure lasciarsi guidare dal “fiuto”. Pazienza se la strada per raggiungerli non è sempre la più breve, i giri a vuoto fanno assolutamente parte del programma (soprattutto all’aumentare del livello alcolico).
Ogni tappa, un’ombra di vino e qualche cicheto. E via verso il prossimo bacaro.
Che la parola derivi dal dio “Bacco” o dal “far bacara” veneziano poco cambia, i Bacari erano in sostanza dei vinai che all’epoca della Serenissima arrivavano in piazza San Marco per vendere il loro nettare assieme a semplici spuntini, i cicheti appunto.
Questi venditori seguivano l’ombra del campanile per proteggere il vino dal sole, da qui il termine “ombra” che fa parte della cultura e storia di tutto il Veneto.
Il tempo ha certamente portato all’evoluzione del concetto, ma ancora oggi i Bacari sono una ottima soluzione per mangiare e bere a Venezia ad un prezzo ragionevole.
Si incontreranno vini più o (molto più spesso) meno buoni, così come cicheti da dimenticare e altri invece indimenticabili, ma non sarà mai questo il punto nodale: il giro di Bacari è una attitudine mentale. Va goduto nella sua interezza: nello scambio di battute con un Oste, nello scorcio rubato da una finestra aperta che fa intravedere un soffitto dipinto da perderci il fiato, nel gusto e nella morbidezza di una semplice polpetta fritta di cui avevi perso il ricordo.
Fa tutto parte dello spettacolo e del biglietto, anche il doppio prezzo riservato a locali e turisti in una città che non fa assolutamente mistero di questo doppio trattamento: è Venezia, prendere o lasciare.
Ma, chissà com’ è, si prende sempre tanto volentieri. Con l’acqua alta, i suoi paradossi, la sua sfuggevolezza. Ma anche la magia, la classe, l’eleganza.
Anche questa è Italia, ricordiamoci della nostra fortuna.
Una città che ti scava nell’anima, soprattutto nelle ore notturne.
Una città dove “il lento procedere del vaporetto attraverso la notte è come il passaggio di un pensiero coerente attraverso il subconscio”. (Iosif Brodskij, “Fondamenta degli incurabili”)
Noi ci siamo concentrati sulla zona Rialto-San Marco, ma torneremo per esplorare anche le altre magnifiche zone di questa città-gioiello.
Osteria alla Ciurma Wine Bar
Cominciamo dalla tappa che ci ha convinto meno, sia per la qualità del vino che per quella dei cicheti. Scelta limitata già alle 18.30 per un locale che sicuramente non indicheremmo tra le soste imperdibili. #anche no
La lavagna
L’esposizione di cicheti non proprio invogliante
L’ingresso
Al Mercà
Un bacaro veramente minuscolo, letteralmente aperto sul campo antistante. Molto frequentato dal popolo studentesco, un locale certamente di buon successo. Il motivo è legato senza dubbio all’ottima proposta di vini al calice, superiore alla media: non sarà difficile trovare qualche etichetta meno convenzionale. Non male anche i cicheti, su tutti la polpetta di carne e quella di tonno. #modaiolo intelligente
Osteria Bancogiro
Prima di tutto un bel locale, dove potersi anche sedere e scambiare quattro chiacchiere con calma. Poi una proposta di cicheti interessante e non banale. Si gioca con delle basi di polenta al posto del solito pane, farcite nelle maniere più varie: la nostra scelta è caduta su polenta al rosmarino con melanzane, piovra e lardo e polenta al prezzemolo con baccalà al forno e ricotta al cren. Ma non scherza anche un semplice panino alla mortadella (e con la quantità di affettato non si lesina affatto).
Proposta di vino senza infamia e senza lode ma è un locale in cui si sta indiscutibilmente bene.
In estate ci si può anche sedere all’aperto con vista su Canal Grande, che non è poco.
#confortevole
Il banco dei cicheti
La lavagna dei vini al calice
Interni
La nostra scelta
Ai Rusteghi
Ecco un bacaro davvero fuori dal coro. Come lo è il proprietario, Giovanni, personaggio che da solo vale il prezzo del biglietto. Entrate con tanta voglia di divertirvi e vi divertirete di sicuro, anche stuzzicandovi a vicenda con l’Oste che regge volentieri il gioco. Grandi bottiglie alla pareti (con prezzi altrettanto “grandi”), ottimi panini anche con abbinamenti non scontati (buono quello scelto da noi, al salmone affumicato). E poi tre prosciutti al taglio: Cormons (D’Osvaldo), Parma 36 mesi, Cinta senese 24 mesi. Ma qui è davvero l’Oste a fare la differenza. Consigliatissimo, ma occhio al conto.
#rustego vero
Le bottiglie alle pareti: c’è da divertirsi
Uno scorcio del bancone: il locale è piccolo, ma ci sono anche alcuni sgabelli e tavolini alti per una sosta confortevole
Il taglio al coltello del prosciutto
Chiedete uno spritz all’Oste Giovanni e poi fateci sapere cosa vi ha risposto.
Continua…
Ci sono luoghi eterni, troppo belli per essere capiti, creati forse con l’unico obiettivo di stupire, sempre e comunque.
Venezia è uno di questi.
I canali accompagnano il passeggio lungo le calli, su e giù per i ponti, con improvvisi scorci che si aprono nei campielli, per poi ricominciare il proprio vagare errante, alla ricerca del niente, semplicemente seguendo il bello.
Arrivati in piazza San Marco ci si trova spesso ad osservare la Giudecca, isola dirimpettaia, scoprendosi particolarmente creativi nell’immaginare cosa possa succedere dall’altro lato del canale.
Ebbene, sull’altra sponda si trova un luogo che in qualche modo, con le dovute proporzioni, riesce ad essere uno dei simboli della Serenissima: l’Hotel Cipriani.
Nelle cucine che diedero i natali al carpaccio, da qualche mese si respira un’aria nuova.
Trevigiano di nascita, con un glorioso passato in Francia, lo chef Davide Bisetto officia all’interno del ristorante Oro, riuscendo a coniugare la tecnica ed il rigore creativo francese con l’emozione ed i sapori tipici della laguna.
La sala sontuosa, con candelabri in vetro soffiato di Murano e divani di sobria eleganza, si immerge nell’atmosfera placidamente sofisticata che Venezia ha insita in se stessa.
La clientela internazionale viene curata attentamente da un team di sala preparato ed affiatato.
La carta dei vini, seguita da ben tre sommelier, permette di sbizzarrirsi nella scelta del compagno di avventura, spaziando dagli impeccabili grandi classici francesi fino ad arrivare ai caratteri più irriverenti delle numerose chicche biodinamiche presenti in lista.
La cucina di Bisetto si veste, per il momento, di un abito didattico, volto ad educare i clienti storici dell’Hotel Cipriani, accompagnandoli per mano sul ponte che separa Calle Vecchia da Calle Nuova. Il risultato è una cucina tecnicamente impeccabile, che osa non oltre il consentito, più attenta alla qualità ed autenticità del prodotto che all’estro adoperato per lavorarlo.
Ecco quindi che gli ortaggi, selezionati da piccoli produttori locali, danno vita ad “Underground, tutto sotto terra”, in cui una variazione di rape, il dressing ai legumi, l’olio in infusione con 28 tipi di verdure diverse, creano un’insalata di grande personalità, in cui le consistenze e le note terrose delle verdure si armonizzano con la vena lipidica data del dressing di legumi.
Il pranzo prosegue sulle ali della delicatezza, con quella finezza che solo i francesi possono vantarsi di avere, e che Bisetto può andar fiero di aver appreso. “L’Americana di canoce” è un omaggio alla laguna, ai suoi sapori ed odori, riproposti e declinati con infinita classe.
Ma è il carpaccio di seppia, conchigliacei, spugna di peperone, mantecato di cozze alla marinara e acqua di conchigliacei il passaggio che rende maggiore giustizia al cuoco, che dimostra di avere personalità da vendere, reinterpretando il piatto più celebre mai creato al Cipriani in chiave marina.
Si prosegue, le mille attenzioni dei camerieri si susseguono, l’atmosfera è elegante, leggera, positiva. Lo chef fa il giro dei tavoli, chiede opinioni, ascolta, spiega i suoi piatti. Non è facile capire ed adattarsi ai ritmi veneziani, ancor meno se lo si fa avendo sulle spalle i fasti di un mostro sacro come l’hotel in cui sorge il ristorante Oro.
Il cielo è stellato, l’acqua è spezzata dalla prua della barca che fa da collegamento con piazza San Marco, le luci in lontananza cominciano a traballare e il pensiero si posa sulla serata appena trascorsa. Consapevoli di essere al cospetto di un cuoco preparatissimo si torna verso casa con la brama di poter tornare al più presto in un luogo magico come il Cipriani, aspettandosi qualche altra piacevole sorpresa.
L’ingresso del ristorante.
Il benvenuto della cucina, pan di zucca, foie gras, tartufo bianco e aceto balsamico. Decisamente un buon inizio.
L’ottimo pane fatto in casa.
Il burro.
La selezione d’olio. Siamo in una città dove l’utilizzo del burro e quello dell’olio si equivalgono e Bisetto dimostra di averlo capito subito.
“Underground, tutto sotto terra” variazione di rape, dressing di legumi e olio con infusione di 28 tipi di verdure.
Insalata di alghe crude, alice alla scapece di spezie orientali, tonno, spuma di vongole, spugna di prezzemolo e dressing di coriandolo. Piatto complesso che richiama il fatto che Venezia fosse la punta d’oriente da cui passavano spezie ed erbe aromatiche di ogni genere.
Granseola, alici marinate, granita di cetriolo, acqua di bloody mary e aspic di fragola. Altro bel passaggio, fresco e decisamente gradevole.
Carpaccio di seppia, conchigliacei, spugna di peperone, mantecato di cozze alla marinara, dressing di acqua di conchigliacei. Piatto della serata.
“Americana di canoce”. Variazione di granchi, fumetto di canoce, polpettina di gransoporo, raviolino di garusoli, schie, gamberi rossi crudi e canoce crude. La laguna nel piatto.
Tortellini ripieni di ossobuco, consommè di gallina e gelatina di whisky torbato. Sfoglia del tortellino perfetta, consommè chiarificato in perfetto stile francese e la gelatina di whiskey che dona quella verve necessaria per imprimere nella memoria un piatto. Molto bene.
Branzino poché in olio, salsa di conserva di ricci di mare e cavolo nero, mozzarella di bufala. Nulla da segnalare, passaggio un po’ anonimo. Lo chef si rifarà a breve.
Agnello laccato al Marsala, polenta in pasta fillo, arance amare e cipolla sotto sale. Carne cotta alla perfezione ma il vero protagonista del piatto è la polenta croccante, davvero straordinaria.
Anatra, dragoncello, melograno, fondo all’amarone e topinambur e una crocchetta con le cosce del volatile. Ottimo.
Branzino in salsa Matsushima, verdure del giardino e garusoli. Lo chef avendo percepito un nostro tentennamento riguardo il branzino presentatoci precedentemente ci propone in chiusura di cena quest’altra versione, presente in carta fino a qualche giorno prima della nostra visita. Il risultato è decisamente migliore del precedente. Piatto complesso, profondo, con forti riferimenti alla cucina giapponese che in questo caso si fonde perfettamente con i prodotti lagunari.
Soufflè, rosa canina, rosolio e mirtillo rosso.
La cassata.
Raviolini dolci con rum, limone, fichi secchi e noci.
Il servizio del thè in stile giapponese. Una delle tante attenzioni non scontate che si possono trovare al ristorante Oro.
La tavola delle cioccolate. Ottimo modo per chiudere in bellezza una serata trascorsa in un luogo magico.
Il giardino dell’hotel.
La laguna.
40 anni di storia e tradizione non sono cose che si comprano all’etto al mercato: o ce li hai o non ce li hai.
Si sentono potenti e penetranti: si annusano nell’aria, si avvertono nelle attenzioni, nei sorrisi, nei gesti calibrati.
La ristorazione è cosa seria e spesso capita che dietro grandi ristoranti ci siano grandi famiglie.
Così è anche per i Cera e per la loro creatura in quel di Lughetto di Campagna Lupia: una evoluzione naturale negli anni, dalla semplice Osteria di paese, dedita a confortare gli avventori con cicheti e ombre di vin, fino al grande ristorante di oggi, sempre nel segno dell’unità familiare, della cura del dettaglio, dell’amore per la tavola.
Allora non ti puoi stupire se anche il personale di sala gira a meraviglia e non sbaglia un colpo: è equazione certa. Non puoi meravigliarti se il menù scelto è prontamente stampato e messo a disposizione, se ogni dettaglio sembra posto lì per rassicurare e coccolare il cliente.
Questo è un grande ristorante, nessuno può metterlo in discussione.
Lo è per il servizio, per la cantina, per la qualità del pescato e, sì, anche per i prezzi.
E’ quel ristorante che mette d’accordo tutti, quello di cui sentirai sempre dire: “come si mangia bene lì”.
Certamente per il livello di qualità del pesce di cui riescono a rifornirsi, davvero fuori dall’ordinario.
Ma anche la tecnica in cucina è di altissimo livello: lo si vede nella cottura di uno scampo o di uno sgombro, così frequentemente maltrattato. Sanno usare i fuochi e le padelle e non solo fare la spesa: questo non può che fare la differenza nelle nostre valutazioni. E’ cucina di rotondità, di morbidezza.
E’ evidente la strizzatina d’occhio al Sud Italia, in particolare alla Sicilia, nella ricerca dei suoi sapori e dei suoi colori: il cuoco è palesemente innamorato della Trinacria e non ne fa mistero nelle sue preparazioni. Ma rimane comunque cucina di Adriatico nell’anima. O più semplicemente è una cucina italiana, che non teme la proposta di più piatti con protagonista o co-protagonista la pasta: lo sforzo di dare dignità e una nuova interpretazione alla pasta secca è continuo e, spesso, convincente.
Sempre eccezionale la portata dei crudi: può piacere o meno, ma è indubbio che qui si sia portato il crudo di pesce a uno scalino superiore, dove la mano del cuoco diventa importante tanto quella del pescatore. Un crudo cucinato, passateci il gioco di parole.
Le note dolenti in questa visita vengono da una certa ripetitività nell’uso del pomodoro o di componenti lattico-grasse e da una deriva esageratamente dolce che rende il menù leggermente monotono e a cui bisognerà prestare particolare attenzione.
Ma, soprattutto, al gourmet più smaliziato rimarrà sempre il dubbio di quello che potrebbe essere e non è, di cosa potrebbero fare in questo posto se decidessero di provocare un po’ di più il cliente.
Se lasciassero più spazio alla vegetalità (che non è solo pomodoro) o alle innumerevoli erbe che popolano la personale serra a lato del ristorante. Senza paura del reale sapore dell’ingrediente, senza per forza arrotondare ogni spigolo.
Il dubbio è ingigantito da quelli che sono stati i migliori piatti della giornata, cioè i +2 del percorso colori del mare. Zuppa di lucerna e tortellini con ripieno di mandorle: un gioco tra il dolce e l’amaro sfacciatamente intrigante. Zuppetta di alghe ed erbe, con vongole e dentice: una zuppetta elegante fino allo sfinimento tanto è carica di sapori, dove non si ha paura del messaggio che l’ingrediente (alga e erbe) pretende di comunicare.
Sono solo sfumature o diversi visioni di cosa debba trasmettere un piatto, ma a questi livelli fanno la differenza.
La pasticceria si mantiene su alti livelli e Sara Simionato non fa rimpiangere il suo predecessore.
Dessert freschi, come è giusto che si sia, ben strutturati e pensati. Una bella mano, da seguire con attenzione.
Una casa da scegliere a occhi chiusi, dove si starà bene, senza se e senza ma, qualunque sia il vostro ospite, qualunque sia il vostro gusto personale.
Dal Menù ”Oppure”:
Il benvenuto dalla cucina: focaccia al vapore.
Amuse bouche.
Tubetti freddi con burrata, pomodoro, viola gambero e capperi.
Spaghettino freddo con mazzancolla, lucerna, salsa di pistacchi di Bronte e basilico.
Colori del mare “scaletta di 8+2 crudi”.
Branzino all’acqua di mare con caviale: fantastica la consistenza del branzino.
Scampo… a colori.
Cappasanta nella sabbia (pane fritto e sesamo).
Ricciola con fragole e nocciola.
Pasta allo scoglio: una tapas di pasta da applausi.
Canocchia scottata con pappa al pomodoro.
Mazzancolla shabu-shabu con salsa al pistacchio e verdure.
Pizza di sgombro.
Zuppa di lucerna e tortellini con ripieno mandorle: persistenza e profondità di sapori.
Zuppetta di alghe ed erbe, vongole e dentice: classe ed eleganza.
Un sorbetto di lime e zenzero per alternare i sapori.
Scampi dorati con melanzane, battuta di pomodoro, pesto al basilico, salsa di ricotta e acqua di pomodoro: un buon piatto, ma sulle stesse note di alcune delle preparazioni precedenti.
Risotto di canocchie e curcuma fresca con burrata e guazzetto di lucerna, vongole e scorfano: inutile la burrata che finisce per uniformare i sapori. Risulta un piatto tecnicamente corretto ma molto dolce, sarebbe servita una curcuma ancora più incisiva.
Spaghetti al torchio con seppie e finocchietto selvatico: tanta Sicilia. Ottimi.
Insalata di erbe e melone con sgombro e salsa di papaya e aceto. Sgombro fantastico, per qualità e cottura.
Gelato al timo, fragole, miele di barena.
Piña Colada (rum, ananas e cocco).
Yogurt liquirizia lamponi con tegola di dragoncello. Un grande dessert, per concezione ed esecuzione.
Zuppa inglese.
Piccola pasticceria.
Frutta marinata.
Lo straordinario Clos des Goisses 1991 Philipponat: una spremuta di terra.
Le piante aromatiche nella serra accanto al ristorante.
Non è detto che per fare un pasto di qualità in Piazza San Marco a Venezia sia necessario chiedere un mutuo. E il Gran Caffè Quadri ne è la prova.
Da tre anni a questa parte, Massimiliano e Raffaele Alajmo hanno messo il loro zampino tra le magiche calli della città lagunare, pensando ad una offerta poliedrica, che va dal lusso senza compromessi a proposte meno impegnative ma pur sempre qualitativamente certificate.
In questo caso non si parla del ristorante stellato ubicato al primo piano, ma della formula “bistrot” pensata per la sala inferiore di questo storico luogo (aperto dal 1775) rinato grazie alla nuova linfa donatagli dalla corazzata di Rubano, con la complicità dell’altrettanto imponente Ligabue S.p.A., società di catering che opera su scala internazionale, già proprietaria delle licenze del pluricentenario caffè.
C’è poco da dire, si tratta di un progetto che ha assunto uno sviluppo degno di nota ma che, probabilmente, viene offuscato dalla più rinomata proposta “upstairs”.
Il bistrot del Quadri, operativo dalle 12 alle 15 e dalle 19 alle 22.30, permette di mangiare piatti autentici e degni della nostra cultura, con il primario intento di salvaguardare il turista straniero da usi o tradizioni taroccate. Nessuna complessità, ma solo piatti semplici. Certo, semplici, ma concepiti dalla mente di un grande cuoco.
L’Alajmo pensiero si è materializzato anche su questo fronte e la filosofia del “ciò che diventa era” si rispecchia nella elegante e sfarzosa sala da pranzo arricchita da specchi, stucchi e vetrate su una delle piazze più fascinose e famose al mondo, crocevia di popoli e cultura in cui, un tempo, solitamente, sostavano personaggi come Lord Byron e Honoré De Balzac, ed in cui oggi è possibile assaggiare una degna interpretazione dei classici della cucina veneta ed italiana in generale.
Considerando il pedigree, le aspettative sono assolutamente soddisfatte.
La base di partenza è, appunto, quella della storia gastronomica del Bel Paese.
Nel menu si spazia da Nord a Sud, dai più locali “cicchetti” tra cui spiccano le classiche sarde in saor o il baccalà mantecato con polenta, ai piatti della tradizione locale come lo “scartosso de pesse”.
C’è spazio ovviamente anche per gli stereotipi di casa nostra, come lo spaghetto al pomodoro o l’insalata caprese o altri piatti-simbolo come la lasagna alla bolognese o lo spaghetto alle vongole. C’è un concentrato dell’abbecedario della cucina italiana, ma, dato che siamo a Venezia, c’è anche un occhio di riguardo intelligente verso lo straniero più conservativo e meno colto che viene messo a proprio agio concedendosi un pasto extra-tradizionale come la versione “Big Max” dell’hamburger o il club sandwich.
E i prezzi? Assolutamente nella media cittadina con il merito (straordinario vista la location) di non ritrovare la voce “coperto” nel conto finale.
Il design Alajmo è ormai un cult mondiale e coniuga eccellenze locali (vetri di Murano) e stile personale.
Pane (unica tipologia lievito madre, ottimo) e grissini, altrettanto buoni.
La nostra degustazione di “cicchetti”.
In dettaglio: semplici ma perfette e ingentilite le Sarde in saor
e il Baccalà mantecato con polenta fritta
Mentre decisamente più modesta ci è sembrata la Insalata di polpo.
Apparentemente grasso il Cappuccino primaverile (asparagi, fagiolini, piselli, carote
e rapa rossa), rivelatosi, in verità, in perfetto stile Alajmo, molto leggero.
Tagliolini con astice alla busara. Piatto semplice e ricco.
L’imponente Fritto di sarde, schie e cozze, nello “scartosso” con salsa “Quadri” a base di senape. Frittura asciutta e croccantissima, eseguita con grandi tecnicismi (il pesce viene bagnato nella pastella e fritto, a metà cottura viene asciugato, passato nella farina di mais e nuovamente fritto).
Dettaglio
La cassata di albicocche è una una reinterpretazione non scontata e chiude piacevolmente il pranzo.
Berkel griffata Alajmo.
Dipinti carnevaleschi.
Tavolini eleganti, essenziali ma anche molto ravvicinati.
Ingresso al Gran Caffè.
Come in tutti i centri storici delle città a forte vocazione turistica, non è facile trovare un ristorante che sappia coniugare qualità e giusti prezzi. Anche a Venezia l’impresa risulta molto ardua: negli ultimi anni l’attenzione per il mondo food è decisamente aumentata anche qui in laguna, ma i buoni indirizzi rimangono tuttora in numero limitato, soprattutto nelle zone più centrali.
A due passi da piazza San Marco, il Ridotto continua ad essere un’oasi ristorativa per l’appassionato in visita alla Serenissima. La passione del patron Gianni Bonaccorsi è tangibile: nei suoi racconti, nelle sue parole, c’è tanto amore per il proprio lavoro. Questo si riflette anche nel locale, curato e accogliente pur in spazi molto limitati.
Dalla scorsa primavera è stato chiamato a rinforzare il “reparto offensivo” un bomber di razza: quell’Ivano Mestriner che tanta attenzione aveva attirato agli inizi della sua carriera quando officiava a Badoere di Morgano.
Un fuoriclasse che col tempo aveva perso un po’ la bussola, ma dalle indiscutibili qualità tecniche.
In verità radio casseruola parla già di presunti contrasti tra patron e neo-chef e di un imminente divorzio: nel corso della nostra visita i due erano regolarmente ai posti di comando ma vedremo nei prossimi mesi come evolverà l’ipotetica tenzone.
Una cucina che comunque, oggi, ha ben poco del Mestriner che avevamo conosciuto: la creatività è molto misurata e i piatti ricercano più la morbidezza che le spigolosità.
Una scelta probabilmente corretta in una sede come questa, per una clientela più propensa al comfort food. Piatti quindi di impostazione classica ma non per questo poco interessanti, anzi: è chiara una ricerca filologica, alla riscoperta di ricette antiche da interpretare con mano e pensiero moderni.
E’ il caso, ad esempio, dell’anitra, servita in brodo di alici e cipollotto per dare la giusta grassezza: un recupero, appunto, di una vecchia ricetta scovata da Gianni Bonaccorsi e reinterpretata assieme alla brigata di cucina. Altro esempio è lo spaghettoro con emulsione di cipollotto e vongole: semplice e ben fatto, perfettamente centrato per cotture e gusto.
Alle volte, nel lodevole tentativo di lasciare parlare con maggior forza gli ingredienti, si rischia di cadere sul banale, ed è forse questo il limite di una cucina che dovrebbe riversare nei piatti in maniera più convinta e convincente idee e pensieri di cuoco e proprietario, idee che sembrerebbero proprio non mancare.
Oggi il Ridotto è un ristorante di sicuro appagamento: i piatti sono eseguiti in modo corretto utilizzando sempre ingredienti di primo ordine. Magari non si sobbalzerà dalla sedia, ma si passeranno senza dubbio un paio di ore piacevoli in un locale molto accogliente.
Spendendo il giusto: lodevole la proposta del lunch menu, tre piatti a 28 euro. Ma anche il menu più costoso è prezzato a 70, che nella zona di San Marco è un prezzo da competizione, con questa qualità.
Carta dei vini notevole, sia per referenze sia per prezzi, nettamente al ribasso rispetto alla media lagunare: ci rimane qualche perplessità relativamente alla conservazione delle bottiglie (su scaffali a muro della adiacente Aciugheta) ma per nostra fortuna la nostra scelta è risultata in condizioni perfette.
Un plauso anche agli uomini di sala, spigliati, ironici e preparati: certamente importanti contributori della piacevolezza di tutto l’insieme.
Il voto, forse leggermente penalizzante, rimane prudente in attesa di una definizione più chiara della linea di cucina che si intenderà seguire.
Appetizer: crema di zucca e formaggio
Insalata calda di verdure autunnali con gelato di carciofo, granita al sedano e colatura di alici
Tartare-pomodoro e tartare con tartufo, maionese di soia
Scampi, mandorle e crema di cavolfiore
Spaghettoro con emulsione di Cipollotto e Vongole
Orecchiette Cacio e Pepe su Passata di Melanzane
Zuppa come un Caciucco con pasta mista al profumo di Lime
La caccia di laguna: Anitra in brodo di alici e cipollotto. Il piatto più interessante, per profondità e complessità.
Cachi, castagne, rum e zucca con gelato alla birra. Una riuscita interpretazione dell’inflazionato binomio cachi-castagne. La birra regala quella punta di amaro che sostiene tutto il dessert. Davvero ottimo.
Il Tiramisù (Vegano – senza Zucchero, senza Latticini né Uova): emulsione di latte mandorla, tortino di carote, caffè.
Corton Charlemagne J. Prieur 2005