Il luogo comune più diffuso, tra gli appassionati, è che un ristorante con una vista e un cadre mozzafiato solitamente nasconda un inghippo. D’altra parte non si può mangiare bene laddove il panorama è da spaccare il cuore e il cervello.
Non è così, sfatiamo questo falso mito che, come tutte le generalizzazioni, lascia il tempo che trova. La Trattoria da Carmelo nasce nel 1975 come ricovero per i bagnanti e via via negli anni si è sempre più raffinata, migliorata ed evoluta. Lasciando intatto il fascino di un pranzo in riva al mare. Nella stupenda veranda, a queste latitudini, c’è il serio rischio che ai primi di gennaio possiate pranzare in maniche di camicia, baciati da un sole caldo e pungente. Ecco quindi che il pranzo può anche passare in secondo piano con una situazione del genere. Ma qui da Carmelo non è così.
Troverete il meglio del pescato locale, pasta fatta rigorosamente in casa, pani fragranti, graziosi e ben eseguiti. Basta stare lontano dalle solite trappole per turisti fai da te, lasciare per una volta perdere scamponi e gamberoni, e potrete divertirvi con una cucina schietta, verace, anche golosa e correttamente eseguita. Qui c’é una famiglia intera che saprà accudirvi dal pescato, al cucinato sino al servizio, in un luogo d’incanto, all’altezza delle aspettative e della vista.
Alcune immagini dello stupendo luogo e della sala.
L’antipasto misto di mare, con le sarde fritte e a beccafico, l’arancino di pescato e tantissime altre prelibatezze.
Le cozze, fantastiche!
La caponata di mare.
Gli imperiali spaghetti con vongole veraci, delicati. La pasta è rigorosamente fatta in casa.
Pasta con pomodori, melanzane e alici.
La frittura di paranza lieve, delicata e ben fatta.
La Sacher torte della casa.
Ed infine…
L’intento è, come spesso accade negli ultimi tempi, decisamente gradito, attuale e à la page. Ampi spazi nella zona della nuova movida milanese, vicino alle sedi di note firme del design nazionale e nel nuovo quadrilatero della moda. Siamo in via Savona, e in questo incantevole ex showroom con annesso giardino di una bellezza e profondità rara per Milano, ha aperto i battenti un altro neo-bistrot. Il progetto è siglato da Emanuele Bortolotti e Ferdinando Ferdinandi, la consulenza in cucina è del duo Negrini-Pisani, una certezza ormai. Il cuoco giapponese, per anni al fianco dei succitati che guidano le cucine di Aimo e Nadia, sa il fatto suo. Ha impresso sin da subito al locale un’impronta territoriale, schietta e prodotto-centrica. Sano, buono, ricercato. Tutti gli slogan al loro posto. Peccato però che alcuni segnali e idiosincrasie tipiche della ristorazione meneghina facciano già capolino, benché l’apertura sia di pochi mesi fa.
Spesso ci troviamo anche noi, su queste pagine, a giustificare ruvidità e imperfezioni per via della partenza recente di un ristorante. Ma sarà poi giusto essere così indulgenti? Molto di frequente, infatti, ci siamo convinti a perdonare piccole imperfezioni a locali freschi di apertura che poi, dopo mesi o addirittura anni di rodaggio, hanno saputo fare anche peggio, ostentando una pericolosa deriva al ribasso. Restiamo delusi dalle promesse in parte mantenute, ma crediamo che la mano dell’esperto chef sia in grado di dare fin da subito un’impronta chiara rispetto alle attese. La linea di cucina è ben pensata, semplice, essenziale, ma forse un filo troppo greve, grassa e ricca di condimento. L’unica cosa che è già a regime è il prezzo, giustificabile per un locale in cui tutto fila liscio fin da subito. Se però la vostra attesa si procrastinerà oltre il lecito, allora la semplicità e la schietta ruvidità non basteranno più. Due ore scarse per due piatti, certo di domenica ma dopo esserci accomodati non all’ora di punta, appaiono sinceramente come il sintomo di un meccanismo imperfetto. Un plauso al servizio, giovane, attento, premuroso, gentile e disponibile. Speriamo non decada, e speriamo che la cucina trovi i suoi tempi, mantenendo gli interessanti guizzi del galletto e della zuppa di funghi e ceci.
Per ora bravi, ma attenzione a non smarrire la bussola, continuando ad aggiustare il tiro…
Qualche immagine dello splendido locale e del dehors.
Pappa al pomodoro, acciuga di Monterosso, burrata e mugnoli.
Zuppa di funghi cardoncelli e ceci delle Murge con cicorietta selvatica e pane di Matera a lievitazione naturale.
Minestrone di verdure con salsa al Pesto di Prà, orzo, fagioli cannellini e piselli selvatici (a novembre?).
Spaghettoni di Gragnano Pastificio dei Campi con pesto di mandorle, pomodorino essicato al sole, bottarga di muggine e davvero troppo olio.
Le stupende polpette di razza piemontese…
…e il galletto di Villanova, ottimo.
Il buon baccalà al vapore marinato alla verbena e aceto di mele su panzanella e crema di canellini.
La torta
“E spesso vado a sedermi come allora sulla rive del grande fiume e mentre mastico un filo d’erba penso: si sta meglio su questa riva …”
G. Guareschi
Com’è possibile che in un luogo così famoso e ricco di storia gastronomica, spesso affollato da frotte di turisti e quindi non obbligato a cercare la qualità e a mantenere i capisaldi della tradizione in carta a tutti i costi, riescano nonostante tutto a prepararvi una cena coi fiocchi in una nebbiosa notte d’inverno inoltrato? La risposta è semplice: la Passione. Precisamente quella di Mario, Villiana e Rosalba che tutti i santi giorni svolgono il loro instancabile e impeccabile ruolo di custodi della tradizione parmigiana. Qui si trovano, tutti concentrati in una carta quasi chilometrica che è forse l’unico appunto che ci sentiamo di fare, i piatti storici locali in una numerica estensione che non troverete neanche in tutti gli altri ristoranti dei dintorni.
Ebbene sì, a parte i culatelli e gli affettati di gran qualità, ci sono i tortelli in 5 declinazioni diverse. Si spazia dall’insalata di cappone, al salamino in crema di tartufo, al poccio coi crostini (praticamente introvabile altrove), alle fettuccine di pasta sporca al sugo, alle fantastiche mezze maniche ripiene in brodo di terza e al monumentale, allappante e fantasmagorico fagioli e cotiche che troverete fotografato e lasciato ai posteri in eredità.
Le mezze maniche, ad esempio, un piatto che nessuno fa più. La pasta fatta a mano, il ripieno che profuma di casa, il pane raffermo, la salsiccia, il parmigiano. Ed il brodo, detto appunto di terza per via delle tre tipologie di carne al suo interno (manzo, pollame, maiale). Un piatto che ti avvolge e irretisce con la sua delicata e golosa imperfezione.
A chiudere un zuppa inglese fatta alla maniera tradizionale, molto soda e consistente. Carta dei vini interessante, con qualche significativa etichetta anche al di fuori della regione.
E dopo cena vi resterà la voglia di ritornare ancora tra le nebbie e perdervi qui, nella bassa, per un secondo passaggio, il prima possibile.
Il nostro compagno di avventure…
Culatello 24 e 30 mesi, eccezionale.
Lardo in conca.
Il Poccio con i crostini.
Le Mezze Maniche ripiene in Brodo in terza.
Le fettuccine di pasta sporca al sugo.
I fantastici fagioli e cotiche.
La zuppa inglese.
Nello scrivere la recensione di un posto come il Consorzio è facile profondersi in lodi e si rischia di passare per tifosi di questa trattoria contemporanea.
D’altronde, tutto qui è stato pensato con intelligenza e professionalità ed è realizzato allo stesso modo: una cucina autenticamente aderente alla tradizione ma con dimensioni delle portate coerenti con i tempi di oggi; materie prime e loro fornitori selezionati con grande cura; carta dei vini di formidabile ampiezza, eccezionale per questa tipologia di ristorazione e piena di perle non solo piemontesi; prezzi alla portata di tutte le tasche.
Tutto questo rincuora, in un momento in cui l’alta ristorazione in Italia sta vivendo buona salute (almeno dal lato offerta), ma è difficilissimo trovare ristoranti all’altezza quando si passa alla proposta di cucina di tradizione in location semplici e popolari. Tante le trappole per turisti in cui piatti sciatti sono contrabbandati per tradizionali e servizi di approssimazione imbarazzante sono giustificati dai prezzi abbordabili.
In una fredda sera novembrina, avendo avuto l’accortezza di prenotare il nostro tavolo con congruo preavviso, abbiamo davvero goduto nel fare, per il cibo, la scelta più semplice, cioè il menù degustazione (a prezzi da pizza “gourmet”…) e nel dedicare un bel po’ di tempo alla fantastica offerta di cantina. Qui, tra nomi che fanno sussultare l’appassionato (da Beaufort a Leclapart, da Roagna a Mascarello, da Overnoy a Vatan) abbiamo avuto il piacere di cogliere un pressoché introvabile chenin blanc da sogno, il Genèse Blanc le Jardins de Esméraldins 2000 di Xavier Caillard, vino dal naso di infinite sfumature di fiori, miele, cera e bocca coerente dalla persistenza infinita.
La successione di piatti del menù è piacevolissima sin dall’apertura: un cucchiaio di latte di capra e acciuga, ostrica dei poveri.
Tutto è ghiotto e ben fatto, con sapienza e ottima tecnica e picchi di godimento si toccano con i sontuosi agnolotti gobbi, ripieni di arrosto di vitello, coniglio e maiale, accompagnati dal solo burro fuso. Magnifica e indispensabile da segnalare anche la chiusura dolce, affidata a una panna cotta che si ribella alle stragi fatte in suo nome in millanta (è il caso davvero di dirlo) menù in ogni dove, accompagnata da chinotto o nocciola.
Locale semplice ma capace di trasmettere lo stesso calore della proposta gastronomica, con nota di merito aggiuntiva per la qualità dei calici che saranno scelti con attenzione a seconda della bottiglia che avrete ordinato.
Quando si incontrano posti del genere e se ne riscontra il grande successo (sala piena, sorrisi di gente contenta di uscire di casa e stare così bene) ci si chiede perché le nostre città non siano piene di un’offerta così ben fatta, capace di pescare nelle centinaia di piatti delle nostre diverse storie regionali. Una tappa da consigliare non solo a chi ama la buona cucina ma, soprattutto, in termini formativi, come esempio di riferimento, a chi pensa di lanciarsi in un’iniziativa nell’ambito della ristorazione.
La tavola.
Amuse-bouche: latte di capra e acciuga.
L’ottima carne cruda battuta al coltello.
Uovo croccante su spinaci, fonduta di cheddar e pancetta croccante. Tecnicamente perfetto e ghiottissimo.
Agnolotto gobbo. Perfezione nella semplicità, accompagnato dal solo burro fuso. Il ripieno ai tre arrosti (coniglio, vitello e maiale) è memorabile.
Brasato di Fassone al Ruché con verdure di stagione.
Uno chenin blanc formidabile.
Un’osteria deve avere anche la mescita (e avercene così…)
Il fatto che Milano sia, da lungo tempo, un luogo di scambio assai più che una cittadella inespugnabile di tradizioni centenarie ha fatto sì che, pur essendo a suo modo fortemente caratterizzata, la città abbia gradualmente perso molti degli aspetti “quotidiani” della propria identità. I milanesi che parlano dialetto non sono infatti così facili da trovare ed inevitabilmente anche i piatti della cucina tradizionale si sono un po’ persi per strada. Resistono, certo, la cotoletta, l’ossobuco, i mondeghili, ma essi non sono che una piccola porzione di un patrimonio un tempo assai più vasto, anche se non sterminato come le risorse di altre cucine regionali. Come conseguenza di ciò anche il concetto di trattoria a Milano non è, logicamente, quello che ad esempio possiamo trovare a Roma, dove la tradizione culinaria è difesa da un altissimo numero di cavalli di frisia camuffati da locali popolari.
Ciò che Nicola Cavallaro è riuscito a conseguire nell’anno e mezzo scarso alla guida di Un posto a Milano è importantissimo. Anche se la vocazione del locale è tutt’altro che strettamente meneghina, lo chef è riuscito, anche grazie ad un’importante strategia di comunicazione indispensabile per la piazza di Milano, a creare un invidiabile modello di trattoria, presentando una qualità superiore di materia prima e di esecuzione alla migliaia di cittadini che a queste cifre prima potevano trovare un livello culinario assai inferiore. Questo risvolto “didattico” è a nostro modo di vedere il punto più lodevole dell’iniziativa.
Una delle migliori pizze che si possano trovare in città (non c’è sempre, purtroppo, ma ci sentiamo di dichiararci fiduciosi per il futuro) e piatti a base di pasta di livello sensazionale come la storica aglio, olio e selezione di peperoncini dello chef o il buonissimo spaghetto al pomodoro con cozze provato in questa circostanza sono senz’altro fra i punti più alti che si possono toccare in questa cascina cittadina che è tornata di recente a vivere. Non dimentichiamoci però di secondi (ah, quel galletto!) dove i prodotti vengono sapientemente sottolineati con l’evidenziatore della tecnica culinaria.
Il puro livello gastronomico è, e dopo tutte queste lodi lo si sarà capito, di grande spessore, e tende a far letteralmente impazzire la lancetta quando al denominatore si metta il prezzo. Un Posto a Milano è uno dei primissimi posti (insieme alle grandi tavole della città) che ci sentiremmo di raccomandare, e forse il solo che consigliamo a tutti di visitare a prescindere dalle abitudini e dalle possibilità di ciascuno. Ecco allora perché le tre cipolle: la cantina, è vero, non si avvicinerà neppure ad essere un’ottima cantina, il servizio si muoverà pure su lunghezze d’onda assai diverse da quelle della cucina ed il numero di decibel tenderà a schizzare verso l’altro nelle serate dei fine settimana, rimbombando nelle ampie sale dagli alti soffitti e rendendo il tutto un poco convenzional-milanese, ma qui l’alta qualità è davvero per tutti, e riteniamo giusto premiarla.
Insalata nizzarda con ventresca di tonno.
Panzanella
Mozzarella, melanzane e pomodori appassiti.
“cotolette” di alici con maionese allo zafferano (anche troppo opulenta)
Spaghetti al pomodoro con cozze e pomodorini.
Battuta di fassona con pomodoro, erbe spontanee e parmigiano.
Galletto con patate.
Crostatina crema e fichi (!)
Scelte forti sulla mise en place.
e un ottimo pane.