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Prima della Prima: Matteo Baronetto

Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Matteo Baronetto

Una grande anteprima per i nostri lettori, un’esperienza privilegiata con la presentazione di un piatto in esclusiva che rappresenta il nuovo corso di Matteo Baronetto. Un sentito “grazie” al duo stellare Meldolesi/Noto, infaticabili e unici.
Bruno Petronilli

Che cucina si mangerà al Cambio di Torino? Fra le punte di diamante della nuova cucina italiana, Matteo Baronetto si è distinto negli scorsi decenni per l’azzardo nella terra incognita dell’astrazione, la cui frontiera gustativa è avanzata senza sosta dietro intuizioni spiazzanti e personali, quando i cuochi italiani agitavano il retino verso abbinamenti e modus operandi della memoria. Parliamo di piatti miliari come il rognone con i ricci e la crème brûlée all’olio di oliva, totalmente privi di agganci nel ricettario tramandato, che presto troveranno posto nel menu di uno dei ristoranti più antichi e blasonati della scena italiana.

Lo spirito dei luoghi tuttavia presenta le sue legittime rivendicazioni a una presenza consistente in carta, per esempio nelle sembianze della finanziera, inventata su questi fornelli quale spuntino fra una seduta e l’altra del primo parlamento d’Italia, più che mai nelle corde di un cuoco versato nel quinto quarto. Che sia filologica o quale guarnizione dell’eccellente carne di fassona piemontese cruda, nel reverse crudista di un arrosto bagnato dal suo sugo. Ci saranno il riso alla Cavour e persino gli agnolotti, intramezzati a ricette basate su tecniche ancestrali, come il carbone che contende i fuochi della cucina Matinox, disegnata dallo chef, al gas e all’induzione.

La cucina a venire sarà poi frutto delle emozioni del momento, quotidiana coma una mamma che ogni mattina mette la casseruola sopra il fuoco. “Vivere il luogo, vivere il momento” taglia corto Baronetto, ponendosi al servizio della rénaissance in atto. Nell’attesa che come avveniva negli ultimi tempi a Milano, subentri la complicità dell’affidamento, il cuoco in sala, il cliente spesso e volentieri in cucina, entrambi tesi a soluzioni estemporanee oltre la rigida coreografia del menu.

Il piatto del ricominciamento a dire il vero c’è già: sa di primavera e di freschezza, dei primi colori verdi che osano bucare il disgelo. Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, da servire in entrata o alla fine del pasto. Con un omaggio discreto a Carlo Cracco, che ha fatto conoscere a Baronetto i piccoli produttori dell’ortaggio cult di Bassano.

Crudismo sì, ma anche macerazione. Perché il cetriolo sul fondo è condito 20 minuti prima dell’impiattamento con olio e colatura di alici per la sapidità, in modo che rilasci i suoi umori e le sue fibre. Completo della buccia, intreccia le sue note a quelle dell’asparago verde, secondo un taglio alla Michel Bras che risolve l’equazione fra la ricetta e il singolo vegetale. Perché si tratta di mixare percentuali di amaro e clorofilla differenti: da una parte il turione verde, aggraziato e femminile, tendente verso la liquirizia; dall’altro il bianco, ruvido e maschile, fibroso, lattiginoso e tannico. Tanto che una leggera spennellata di cioccolato bianco fuso ne mitiga il carattere, legandosi in un ricordo di pasticceria alla spolverata di pane saltato a mo’ di crumble in superficie. Quasi la scarpetta pastosa di un resto d’insalata.

Un benvenuto aurorale che spiazza: semplicità allo stato puro, esaurite le galoppate concettuali e i gongorismi del recente passato. Perché “l’avanguardia è stato un momento magico, che sono stato felice di avere vissuto. Eppure oggi è un bene che sia finito, perlomeno nelle forme in cui lo abbiamo conosciuto”.

Ristorante Consorzio, Torino

Nello scrivere la recensione di un posto come il Consorzio è facile profondersi in lodi e si rischia di passare per tifosi di questa trattoria contemporanea.
D’altronde, tutto qui è stato pensato con intelligenza e professionalità ed è realizzato allo stesso modo: una cucina autenticamente aderente alla tradizione ma con dimensioni delle portate coerenti con i tempi di oggi; materie prime e loro fornitori selezionati con grande cura; carta dei vini di formidabile ampiezza, eccezionale per questa tipologia di ristorazione e piena di perle non solo piemontesi; prezzi alla portata di tutte le tasche.
Tutto questo rincuora, in un momento in cui l’alta ristorazione in Italia sta vivendo buona salute (almeno dal lato offerta), ma è difficilissimo trovare ristoranti all’altezza quando si passa alla proposta di cucina di tradizione in location semplici e popolari. Tante le trappole per turisti in cui piatti sciatti sono contrabbandati per tradizionali e servizi di approssimazione imbarazzante sono giustificati dai prezzi abbordabili.
In una fredda sera novembrina, avendo avuto l’accortezza di prenotare il nostro tavolo con congruo preavviso, abbiamo davvero goduto nel fare, per il cibo, la scelta più semplice, cioè il menù degustazione (a prezzi da pizza “gourmet”…) e nel dedicare un bel po’ di tempo alla fantastica offerta di cantina. Qui, tra nomi che fanno sussultare l’appassionato (da Beaufort a Leclapart, da Roagna a Mascarello, da Overnoy a Vatan) abbiamo avuto il piacere di cogliere un pressoché introvabile chenin blanc da sogno, il Genèse Blanc le Jardins de Esméraldins 2000 di Xavier Caillard, vino dal naso di infinite sfumature di fiori, miele, cera e bocca coerente dalla persistenza infinita.
La successione di piatti del menù è piacevolissima sin dall’apertura: un cucchiaio di latte di capra e acciuga, ostrica dei poveri.
Tutto è ghiotto e ben fatto, con sapienza e ottima tecnica e picchi di godimento si toccano con i sontuosi agnolotti gobbi, ripieni di arrosto di vitello, coniglio e maiale, accompagnati dal solo burro fuso. Magnifica e indispensabile da segnalare anche la chiusura dolce, affidata a una panna cotta che si ribella alle stragi fatte in suo nome in millanta (è il caso davvero di dirlo) menù in ogni dove, accompagnata da chinotto o nocciola.
Locale semplice ma capace di trasmettere lo stesso calore della proposta gastronomica, con nota di merito aggiuntiva per la qualità dei calici che saranno scelti con attenzione a seconda della bottiglia che avrete ordinato.
Quando si incontrano posti del genere e se ne riscontra il grande successo (sala piena, sorrisi di gente contenta di uscire di casa e stare così bene) ci si chiede perché le nostre città non siano piene di un’offerta così ben fatta, capace di pescare nelle centinaia di piatti delle nostre diverse storie regionali. Una tappa da consigliare non solo a chi ama la buona cucina ma, soprattutto, in termini formativi, come esempio di riferimento, a chi pensa di lanciarsi in un’iniziativa nell’ambito della ristorazione.

La tavola.
tavola, Ristorante Consorzio, Torino
Amuse-bouche: latte di capra e acciuga.

L’ottima carne cruda battuta al coltello.
carne cruda, Ristorante Consorzio, Torino
Uovo croccante su spinaci, fonduta di cheddar e pancetta croccante. Tecnicamente perfetto e ghiottissimo.
uovo croccante, Ristorante Consorzio, Torino
Agnolotto gobbo. Perfezione nella semplicità, accompagnato dal solo burro fuso. Il ripieno ai tre arrosti (coniglio, vitello e maiale) è memorabile.
agnolotto gobbo, Ristorante Consorzio, Torino
Brasato di Fassone al Ruché con verdure di stagione.
brasato di fassone, Ristorante Consorzio, Torino
Uno chenin blanc formidabile.
Ristorante Consorzio, Torino
Un’osteria deve avere anche la mescita (e avercene così…)
Ristorante Consorzio, Torino

Enrico Zanirato, 34 primavere, è chef patron del Tajut, una casa cantonale d’epoca con vineria e cucina sita nella prossima periferia di Torino. Un luogo interessante che negli ultimi due anni sta vivendo una trasformazione continua, a discapito di taglieri di salumi e formaggi, e verso la direzione di una cucina moderatamente creativa.
Lo chef si può definire un Lopriore Boy, anche se un breve passaggio alla Credenza di San Maurizio Canavese può aver tratteggiato alcuni caratteri del suo stile, caratterizzato da una moderata innovazione, utilizzo di sapori ed ingredienti riconoscibili, una buona dose di tecnica (che qui non manca affatto). Il conto, alla fine del pasto, è molto leggero: gli elementi per generare un successo sia di pubblico che di critica ci sono tutti.
Qualche piatto si segnala per alcune imperfezioni, rendendoci la sensazione di “parecchi lavori in corso”, così come una nota generalmente virante al dolce troppo presente in molti assaggi ci ha costretto ad informarne lo chef.
Però le idee, interessanti, sono molte, così come le realizzazioni, a cui forse sarebbe opportuno sottrarre qualche ingrediente di troppo, che genera ridondanza gustativa e non pulizia.
E non spaventi l’uso eccessivo di prosciutto, perché questo menù è stato composto da me e dai miei gioiosi commensali in totale autonomia, pescando dalla carta.
Certamente Enrico è (testuali parole dell’amico Bob Noto che ci ha consigliato e accompagnato in questa visita), un buon prototipo di novità torinese: fresca , ed in continuo aggiustamento. Sicuramente andare al Tajut oggi espone a qualche rischio (per carità, molto controllato), ma al contempo è uno di quei luoghi in fermento ormai rari in giro per lo stivale.
Troverete cambiamenti continui, e ci auguriamo vivamente passi avanti nella direzione del consolidamento di questa cucina che già oggi è molto soddisfacente. Ecco perché abbiamo deciso anche noi di rischiare, di guardare oltre l’ostacolo e di premiare il lavoro di questo intrigante cuoco.
Tra un anno, o forse prima, torneremo, sperando di trovare conferme ai nostri slanci entusiastici.

Pata negra, sfoglia fritta, cipolline all’agro e burro di erba cipollina
goloso e divertente, con la sfoglia leggermente troppo unta.

Patate, tartufo, olio al prezzemolo e patè di olive
Un goloso ma intrigante cremoso di patate tutto da scoprire, con giochi di sapori che si rincorrono, e una pregevole variazione di textura con qualche pezzo di patata intera. Bravo!

Ricci, ricciole e capricci dello chef. Interlocutorio. Troppo flebile l’apporto della salsa di ricci, forse supportabile da una lieve nota acetico-acida. Buona l’idea del caldo-freddo e crudo-cotto di ricciola.

Crema di ceci, olio al rosmarino, scampi, nervetti, vongole e gelato al fiordilatte.
Stooooppp please!!! Buoni crema, olio al rosmarino e scampi, il resto una ridondanza disturbante e inutile.

Paccheri al salmone, salsa d’ostrica.
Buona l’idea, ancora da migliorare l’esecuzione e l’equilibrio degli ingredienti. La nota metallica della salsa d’ostrica, qui non perfetta, e le uova di salmone non bilanciano il burro di erba cipollina.

La fassona cotta perfettamente nel fieno, la salsa di senape, la patata. Un giro centrato e divertente, forse ridondante il Sejrass con tartufo pleonastico.

Una milanese-torinese di scabiniana memoria davvero formidabile!

Ottimi gnocchi croccanti con crema di parmigiano (forse troppo abbondante) e prosciutto. Centrato e goloso.

Segreto di maiale (troppo cotto) alla brace. Toglierei, qui sì, la ridondanza dei fiocchi di prosciutto.

Scampi alla carbonara, goloso, centrato, perfetto!

Un divertente, anche se veramente troppo addolcito, giro attorno alle interiora di agnello con cipolline in agro (poco) dolce (troppo).
Così com’è, è in sostanza un divertente pre-dessert da goloso gourmand.

Spunto intrigante nei dolci: qui rabarbaro, lampone, patata viola, sedano e zenzero. Perfetto!

Colpo d’ala. Semifreddo affumicato, finocchietto e liquerizia.
Bilanciamento perfetto, molto divertente e loprioriano doc.

Il Maguràbìn probabilmente è una figura medievale, sorta di santone che peregrinava tra quelli che oggi sono le Langhe e i borghi limitrofi di Torino per fornire alla gente prestazioni (anche legali) di diverso tipo. Il termine era inoltre utilizzato per invocare “l’uomo nero” e spaventare i bambini inappetenti costringendoli a mangiare il pasto quotidiano.
Marcello Trentini, dieci anni or sono, decise di battezzare il suo piccolo ristorante all’ombra della Mole con un nome che rimanesse facilmente impresso in mente e, allo stesso tempo, che avesse uno stretto legame con la tradizione e il territorio.
Già, il territorio piemontese, vasto come pochi sì da non temere rivali in termini di prodotti alimentari e grandi vini.
Bene, se diciamo che a Marcello Trentini piace “sovvertire” il suo territorio, potete immaginare quanto sia interessante come persona. Ha una filosofia chiara, precisa e che aprirebbe dibattiti infiniti sul tema.
Dobbiamo ammetterlo, il suo ragionamento non fa una piega. Può non essere condiviso da tutti, ma è rispettabile come pochi.
E’ strettamente necessario servire frutta, verdura o altri prodotti fuori stagione? E perché no se, ad esempio, il sapore dell’asparago cileno nel pieno della stagionalità è comunque ottimo a febbraio anche in Italia? In effetti se pensiamo alla stagionalità delle banane e al fatto che solo in alcuni luoghi al mondo non sono fuori stagione, nessun ristorante europeo dovrebbe servirle.
È il “chilometro zero a livello globale” secondo il Trentini pensiero. La stagionalità non può prescindere dai confini geografici. Ricordiamo un suo piatto goliardico che era in carta qualche tempo fa, in pieno inverno, chiamato “Km 10.000”, con asparagi bianchi del Cile, piccione dalla Francia e ciliegie del Madagascar, quasi una presa in giro del chilometro zero.
Filosofia chiara, come lo stile di cucina del suo autore, personale, di stampo classico ma intriso di spunti e influenze estere, molti sono i rimandi ai cocineros spagnoli – specie per il quasi onnipresente connubio carne-pesce/crostacei – ma anche alla vicina Francia, fino a ritrovare alcune note orientali (vedi il bok-choy, sebbene coltivato in terra piemontese). Tutto questo però, partendo dalla base, ovvero dal territorio e dalla rivisitazione (ove possibile) dei classici della tradizione, come l’interpretazione del vitello tonnato, sempre in carta, insieme agli immancabili plin.
Al Magorabin troverete una cucina di sostanza e divertente, magari non sempre bilanciatissima, anche se vanno riconosciuti i meriti allo chef che si prende il rischio di giocare sul filo dell’equilibrio gustativo.
Alla piacevolezza complessiva contribuisce anche la curatissima location, in centro città e, dulcis in fundo, un servizio decisamente di alto livello – vi servono appetizers, due entrate e pre-dessert – e la carta vini sorprendentemente ricca e con bassi ricarichi.
Avanti così.

Piacevoli gli stuzzichini iniziali (molto rustici) serviti con un Bellini fatto a regola d’arte, con succo di pesche di Volpedo.

Club Sandwich al cucchiaio. Ottima materia prima e rivisitazione personale e intelligente.

Secondo amuse bouche. Ancora il territorio rivisitato: Rape e salsiccia.

Ottimo e vario il pane, ma anche i grissini e le schiacciatine.

Per non parlare del cremoso burro all’erba cipollina.

Oyster – Steak Tartare. Gioco acido-iodato bilanciato dalla mela verde. Bravo.

Lingua , Gamberi e Mandarino, dal gusto iniziale orientale, poi sul finale torna la rotondità gustativa della tradizione con la lingua brasata.

Castellana di Capesante 2.12. Bella idea con la capasanta che sostituisce il tradizionale vitello (tradizionalmente farcito con prosciutto e tartufo) e con i ripieni all’esterno. Il gusto però è poco convincente, con il tubero praticamente non pervenuto.

Impeccabili i Plin di Nonna Lucia. Preceduti dagli altrettanto classici Tortelli con scampi e bisque di crostacei (foto di apertura) questa volta con l’influenza transalpina a farla da padrone.

Maialino , Scampi e Bok-Choy. Piatto spagnoleggiante, ma il fondo bruno ti riporta sotto le Alpi. Da manuale la cottura del maialino.

Ricciola con fegato grasso, asparagi (appunto cileni) e scalogni glassati. Abbinamento riuscito, ma un piccolo errore tecnico c’è stato nella cottura pronunciata del pesce (forse dimenticato qualche secondo di troppo sotto la salamandra).

Pre-dessert golosamente appagante: krapfen alla crema con sorbetto al mandarino.

Pesca e cioccolato, una rivisitazione della Sacher.

Friandises



Questa recensione aggiorna la precedente valutazione che trovate qui

Recensione Ristorante
Davide Scabin lo seguiamo da più di dieci anni, dai tempi della trattoria di Almese, un locale anonimo e tutto sommato convenzionale che, certamente, stava stretto ad un vulcano in eruzione come Davide.
Il menu creativo, in quel periodo, era un rito vagamente carbonaro ed andava richiesto all’atto della prenotazione. Un luogo, la trattoria di Almese, che per certi versi era una versione tutta nostra del Bulli, in cui officiava un rivoluzionario che spiazzava con le sue idee ed i suoi piatti ad alto contenuto innovativo. E non erano periodi affatto facili allora, in cui si parlava ancora poco di cucina e ancora meno di alta cucina.
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