Acqualagna rappresenta, insieme ad Alba, la capitale del tartufo italiano; basti considerare che qui vengono raccolti i due terzi della complessiva produzione nazionale, pari a circa 600 quintali. Siamo nel cuore del Montefeltro, e a pochi passi dalla Gola del Furlo, sorge lo storico ristorante Antico Furlo, che da qualche decennio serve tutto l’anno tartufo ai commensali, oltre a piatti della tradizione locale con qualche ammiccamento alla modernità. La gestione è familiare, in cucina troviamo lo chef Alberto Melagrana, mentre il servizio è governato dalla moglie Roberta e dalla loro figlia.
L’interno è avvolgente e familiare, con tanto di foto degli avventori famosi all’ingresso piacevolmente sbiadite, con un bel camino antico a dominare la sala in cui abbiamo pranzato.
La nostra visita, che è coincisa con la Fiera Nazionale del Tartufo Bianco di Acqualagna, ha avuto come protagonista la varietà più pregiata della preziosa trifola, servita in abbinamento alle pietanze più adatte a svolgere il ruolo di comprimarie. Sulla qualità del tartufo abbiamo davvero poco da dire: il vassoio che ci è stato servito a inizio pranzo era una goduria per la vista e per l’olfatto: un trionfo di tartufi bianchi di diverse dimensioni ancora terrosi e dal profumo inebriante e persistente. L’abitudine nel maneggiare il tartufo da queste parti si vede, oltreché dalla scenografica presentazione, anche dal servizio: dopo la scelta e la pesatura al tavolo, i tartufi sono tornati in cucina e, adeguatamente privati dei residui terrosi, ci sono stati lasciati al tavolo, custoditi in una alzata di ceramica in compagnia dell’apposita affettatrice.
Tra i piatti assaggiati a sostegno del Tuber magnatum abbiamo apprezzato particolarmente le Tagliatelle vecchia maniera fatte in casa, servite con una base di brodo di gallina ristretto con parmigiano e burro. Delicatamente tiepide, hanno costituito l’abbraccio ideale per il tartufo, aiutandolo a espandersi al massimo analogamente al Tuorlo d’uovo croccante con parmentier di patate e ai Crostini di pane sciocco di Chiaserna. Meno azzeccati in abbinamento alla trifola i Passatelli al pecorino di fossa, per una spiccata tendenza coprente che abbiamo ritrovato anche nel Crudo di vitellone marchigiano, con capperi, miele, sedano e grana, tra l’altro servito troppo freddo. Semplici, ma ben eseguiti, i due dolci che hanno chiuso il nostro pasto: un Semifreddo alla moretta fanese e una Torta di mele.
Servizio caldo e prodigo di spiegazioni, con tempi di attesa tra un piatto e l’altro però davvero eccessivi, anche se dobbiamo riconoscere al ristorante l’alibi di una sala piena all’inverosimile il giorno della nostra visita. Nota dolente è la carta dei vini: una materia prima di eccellenza assoluta come quella proposta meriterebbe ben altra offerta, per ampiezza e profondità.
Il Boscareto Spa & Resort è una di quelle strutture che riescono a contestualizzarsi perfettamente con il territorio che le circonda. Questo approccio camaleontico non riguarda la struttura in senso architettonico, bensì maggiormente la filosofia che al suo interno viene elaborata.
Il paesaggio morbido delle langhe, con lo sguardo che viene accompagnato dai filari delle vigne fino a sbattere contro la magnificenza mastodontica delle Alpi, viene sintetizzato e rielaborato sotto forma di accoglienza presso il ristorante La Rei, sito all’interno del resort Boscareto. La sala che si sviluppa per il lungo, appoggiandosi sul parquet lucido, introduce ad un viaggio sensoriale completo, in cui le carinerie della squadra di sala si specchieranno sui toni del grigio delle pareti, raccontando un carattere regionale composto di una gentilezza mai ruffiana.
Dal 2013 Antonino Cannavacciuolo ha assunto la direzione del ristorante, riponendo completa fiducia su uno dei sui allievi prediletti, Pasquale Laera.
Il cuoco pugliese, con una saggezza poco proporzionale alla sua gioventù, ha creato attorno a sé una squadra coinvolta e decisa nel perseguire obiettivi comuni. Non è un caso infatti che il trionfo di amuse bouche sia una celebrazione di diverse parti d’Italia, nello specifico quelle di provenienza dei cuochi della sua brigata. A voler andar oltre il settore cucina non ci si può stupire nemmeno se in sala, sotto l’ala dell’ottimo Fabio Mirici Cappa, stia crescendo Carmilla Cosentino che a breve, come già notato da Lorenza Vitali, potrebbe diventare uno dei punti di riferimento nel panorama dei maestri di sala italiani.
La cucina proposta da Laera non si discosta affatto dai toni delicati delle colline di cornice, tinta di colori vivaci che la rendono uno squisito esempio di neoclassicismo realizzato dalla prospettiva genuina di un trentenne. Il rosa, il verde, il rosso colorano preparazioni che si rendono comprensibili ai palati più diversi, seguendo la filosofia di casa, ma che allo stesso tempo non risultano né banali né tantomeno semplici. Le tempistiche sono perfette, il servizio di sala esimio, l’atmosfera produce positività regalando la sensazione di essere parte di un locale in perfetta salute, pronto per fare un ulteriore salto di qualità da un momento all’altro. Ma durante lo svolgimento della degustazione, come una promessa fatta e non mantenuta, tale stacco non arriva. Forse a causa anche di una clientela, quella composta dagli ospiti del resort, non sempre disposta ad assecondare la creatività e l’azzardo dello chef, Laera insegue l’inarrivabile traguardo di non fare torto a nessuno. Le proposte aderenti al menù degustazione, seppur più che corrette, si sono sempre mostrate come una sorta di vorrei ma non posso, o meglio di vorrei ma invece non voglio, perché, date le capacità di Laera, potrebbero eccome.
Questa non vuole essere una critica ma anzi, deve fungere da sprono nei confronti di Pasquale, che grazie a due passaggi eseguiti di sua sponte, ha dato prova di essere un cuciniere di notevole finezza, completezza tecnica e ottimo palato.
Baccalà, polenta, caviale, acqua di cozze, prezzemolo e aceto di Arneis è l’esempio calzante di quanto appena scritto. Piatto eccellente in cui la golosità e la grassezza della polenta e del baccalà vengono nobilitate dal caviale e dalla sua sapidità avvolgente, mentre il guazzetto accompagna in maniera decisa ma mai invasiva la masticazione, scatenando una salivazione abbondante che richiama un boccone dopo l’altro. Pan di Spagna alle nocciole, cremoso al topinambur, spugna di cioccolato, gelato alle spugnole, tartufo bianco e polvere di timo è l’epilogo brillante di una degustazione che lascia un certo senso di insoddisfazione, non perché non all’altezza della situazione in assoluto, ma solo ed esclusivamente nei confronti del potenziale che potrebbe esprimere.
Pasquale Laera è un cuoco perfino più bravo di quello che sembra, dal quale è lecito aspettarsi di più, perché la sua stella non aspetta altro di poter brillare più luminosa che mai. Detto questo, una visita al ristorante La Rei è già caldamente consigliata. Sarete accolti come in una grande casa, vi circonderete del bello in ogni sua espressione e riconoscerete certamente di essere al cospetto di un grande cuoco.
La mise en place.
Il primo dei vini in accompagnamento.
Una panoramica degli amuse bouche serviti. Tutti davvero ben eseguiti.
Nello specifico: panino fritto con cavolo rosso e senape.
Finto tartufino con patè di fegatini.
Acciughe al verde.
Pane carasau, pecorino e gelatina di al pepe.
Tarallo con finocchietto selvatico.
Grissino e salame.
Gnocco fritto di grano arso e salsiccia di Bra.
Insalata di baccalà e patate con peperone arrosto.
Il pane.
I grissini e le cialde.
Il burro alle nocciole.
Cannolo di zucca, robiola di Roccaverano, crema di castagne e tartufo bianco. Ottimo inizio.
Gamberi, insalata di rape, colatura di acqua di burrata e acqua di rape. Materia prima ittica eccezionale e piatto ideato correttamente. Peccato per la salsa un po’ debole di un tocco acido-lattico che avrebbe giovato al piatto.
Baccalà, polenta, caviale, acqua di cozze, prezzemolo e aceto di Arneis. Il piatto della serata.
Prosegue la degustazione.
Spaghetti, ceci e seppie. Buona esecuzione ma piatto fin troppo semplice.
Dentice, cime di rapa e colatura di “impepata di cozze”. Un trionfo di suggestioni meridionali in un grande piatto.
Suprema di piccione, verza e frisse. La cucina classica in tutta la sua purezza. Pasquale Laera è un cuoco molto preparato.
Carote di Polignano con crème fraîche al mandarino. Contorno molto fresco, adeguato alla pulizia della bocca.
“In vigna”: crumble di nocciola, cremoso di mosto d’uva, cognà e foglia di zucchero. Ottimo predessert.
Il vino da dessert.
Pan di Spagna alle nocciole, cremoso al topinambur, spugna di cioccolato, gelato alle spugnole, tartufo bianco e timo.
La piccola pasticceria.
Per raccontare quanto la famiglia Alciati sia stata, ed è tuttora, un pilastro portante dell’alta cucina langarola ci vorrebbero anni.
Una storia che affonda le radici in questo luogo magico. E che continua a perpetrare una tradizione fatta di grandissima ed accurata selezione di ingredienti, composta da una fila enciclopedica di piatti e di preparazioni, classiche, da far invidia alla Francia intera.
Da Guido è una istituzione e i figli Piero (in sala) e Ugo (in cucina) continuano a portare avanti questa tradizione con grande competenza, senso del gusto e attenzione. Ospitati e accolti nella splendida Villa Reale della tenuta Fontanafredda, luogo di rara magia e fascino discreto.
E anche in quest’occasione, momento in cui un manipolo di amici si ritrova per approfondire l’annata tartufesca 2016, si sono dimostrati ai vertici della cucina classica italiana. Con piccoli tocchi di attualità, usando tecniche moderne, alleggerendo alcuni passaggi e preparazioni. Facendo ciò che un cuoco dotato di buon senso e di ottima tecnica farebbe. Lasciando cioè il più intatto possibile il sapore e il “profumo” dei grandi classici di questa terra. Ma le ragioni del successo di questa famiglia non affondano solo nella grande capacità tecnica ed intelligenza di entrambi i fratelli. Risiedono anche e sopratutto nella capitalizzazione di una storia che ha visto, da generazioni, l’approfondimento e la conoscenza del territorio e dei suoi massimi esponenti. Che significa, in parole povere, saper dove trovare la carne migliore, la verdura migliore, il tartufo migliore… e così via.
Potrebbero vivere di rendita gli Alciati, ed invece continuano ad apportare piccoli ritocchi, impalpabili cambiamenti, qualche piccolo soffio impercettibile per migliorare costantemente ed attualizzare una cucina così perfetta e precisa che più non si può.
Ne sono un esempio gli antipasti, tutti di una precisione tecnica invidiabile ma al contempo di una leggerezza quasi eterea. Ma tutto il pasto, di fatto, scorre via senza batter ciglio. Senza un filo di grasso in eccesso, senza una imperfezione né stilistica né di cottura, né tanto meno di consistenza.
Impresa tutt’altro che facile, ma impresa certamente vinta, non v’è dubbio alcuno!
La splendida facciata della Villa Reale in Tenuta Fontanafredda.
Il tavolo conviviale.
La splendida Molteni.
La cantina.
Cardo di Nizza, acciughe, pera.
Strepitoso Carpaccio di vitella.
Uovo in camicia, di una qualità e precisione tecnica invidiabili, patate, parmigiano.
Gli agnolotti di Lidia al tovagliolo.
Cosciotto di capretto di Roccaverano al forno.
Con olio e pepe fresco.
Poche regioni italiane acquistano un fascino pari a quello delle Langhe, nella stagione autunnale. Colori, profumi, sapori, atmosfere: la terra parla ad ognuno dei nostri sensi e se i nostri sensi sono quelli di appassionati gourmet è impossibile restarne indifferenti.
Da Alba ci inerpichiamo verso il vicino borgo di Guarene, imboccando una strada di campagna qualche centinaio di metri prima di arrivare nel nucleo storico. Attorno a noi vigneti, orti e piantagioni di frutta, più in lontananza i colli del Roero parzialmente coperti dalla tipica bruma autunnale, che la sera acquistano un fascino del tutto particolare. Raggiungiamo la nostra meta: un casale recentemente ristrutturato in un elegante resort di charme, con elementi di design ma con un caloroso rispetto del passato, completo di piscina, lounge bar, possibilità di pernottamento in strutture poco distanti e, ultimo ma non certo in importanza, un ristorante dalle alte ambizioni gourmet.
Ai suoi fornelli ormai già da un paio di anni un giovanissimo, Michelangelo Mammoliti, 100% piemontese, compaesano di Matteo Baronetto con alle spalle un curriculum su cui, non c’è da dubitarne, chiunque ambisca a questa professione metterebbe la firma: gli esordi con Marchesi, l’incontro con Stefano Baiocco, gli oltre cinque anni trascorsi in Francia, alle corti di Alain Ducasse, Pierre Gagnaire, Yannick Alléno e Marc Meneau. E poi i viaggi in terre e culture lontane, in Libano, in Giappone, alla costante ricerca di nuove conoscenze e nuove suggestioni. Tutti spunti che ritroveremo nella sua cucina: una base di partenza certamente focalizzata sulla tradizione piemontese a tutto tondo, ma ricca di contaminazioni culturali maturate da esperienze e peregrinazioni. Tanta Francia, certo, nella cura maniacale dei piatti, nella gestione delle salse, nella grande passione per il mondo vegetale, di produzione peraltro tendenzialmente propria, inteso non come mero elemento decorativo bensì come parte attiva della costruzione dei piatti, ma anche l’esotismo, le tecniche di preparazione e le fragranze orientali.
Una cucina che già sorprende, per la profondità degli spunti e della gestione estetica, soprattutto in rapporto alla giovane età dello chef. Una cucina che non è ancora perfetta, d’altronde sarebbe ingiusto e scorretto pretendere che già lo fosse. A una tale raffinata complessità di suggestioni e accostamenti e a una tale sicurezza nel gesto estetico non sempre durante la nostra cena è infatti corrisposta quella chiarezza al palato, quella definizione dei piani gustativi, quella personalità che ci aspettavamo, mentre in alcune proposte è mancata la chiusura perfetta del cerchio.
L’impressione complessiva è che comunque Michelangelo non osi ancora spingersi su terreni particolarmente rischiosi, e non ci sentiamo di biasimarlo o di penalizzarlo per questo, gli obiettivi per il momento sono altri ed è giusto che sia così, coerentemente con la massima che torreggia sopra la cucina: «Lascio agli altri la convinzione di essere i migliori, per me tengo la certezza che nella vita si può sempre migliorare».
Confidiamo comunque che, sempre nel segno di questa filosofia, con il tempo egli possa prendere coraggio e spingere di più sull’acceleratore, conferendo maggior forza propulsiva a spunti ed accostamenti che già ora appaiono intriganti e senz’altro meritevoli di essere ulteriormente approfonditi.
L’impressione, al netto di queste piccole critiche che ci permettiamo di esplicitare, è comunque quella di un giovanissimo talento di cui sentiremo parlare e di cui sicuramente parleremo ancora, seguendolo con costanza: andatelo a conoscere, ne vale davvero la pena.
Due parole su servizio e cantina: il primo, salvo qualche piccola lieve defaillance, si dimostra all’altezza del livello attuale del locale mentre alla seconda, ovviamente indirizzata prevalentemente alla produzione della zona, va un plauso per l’onestà dei ricarichi e la possibilità di accesso a partire da prezzi davvero irrisori.
La via di avvicinamento al ristorante.
Visione di insieme.
L’accesso.
La piscina.
L’ingresso.
La sala di accoglienza, per aperitivi o degustazione di vini.
La selezione di distillati e… di guide gastronomiche.
Una delle sale.
La mise en place.
Le bollicine d’apertura.
I primi stuzzichini: “Canapè”.
Tubo croccante con besciamelle di funghi porcini.
Barba Juan di pollo.
Bavarese di Parmigiano Reggiano 36 mesi.
Tuile al nero di seppia, tartare di gambero di Mazara del Vallo marinato al pepe di Timut e limone alla marocchina, cromesquis di foie gras.
Amuse bouche.
“Polenta e baccalà”.
Tipologie di pane, sfoglie al sentore di cappero, burro bianco salato.
“Astrattismo omaggio a Kandinsky”.
Lingua fondente, bagnetto rosso e verde, crema di pane della tradizione fermentato.
La lingua fondente viene accompagnata da una crema al peperone rosso, peperone giallo e bagnetto verde tipicamente piemontese. Nella cocotte crema di pane della tradizione che viene fermentato, accompagnato da una cialda di pane ripresa anche sul piatto.
Più accomodante di quanto la denominazione potrebbe lasciar intendere; un’elegante apertura di suggestione pittorica e decisa preponderanza vegetale, uno dei tratti salienti della cucina di Mammoliti. Piatto di bella freschezza, in cui coerentemente con l’ispirazione e con il gesto estetico non avremmo tuttavia disdegnato una maggiore spinta propulsiva sul fronte gustativo, in particolare nella differenziazione delle varie componenti.
Un Arneis delle Langhe.
“Perla bianca”.
Noce di capasanta arrostita nella sua conchiglia, con burro di tartufo bianco d’Alba e salsa alla bagna cauda.
La capasanta viene arrostita nella sua conchiglia, glassata nella crema di zucca, e accompagnata da un’emulsione alla bagnacauda.
Variazione della capasanta presente in carta, verosimilmente pensata per l’abbinamento con il tartufo bianco che, però, non si mostra con la personalità per la quale è giustamente apprezzato. L’emulsione alla bagna cauda, per quanto pregevole per finezza ed eleganza se considerata come elemento a sé stante, non possiede il carattere necessario ad impedire da sola il raggiungimento del punto di appagamento ben prima della completa fruizione del piatto. Un peccato, in quanto una più accentuata mineralità avrebbe portato ad esiti ben più apprezzabili. Non fraintendeteci: piatto buono ma da rivalutare in presenza di un tartufo di maggior impatto.
“Sottobosco”.
Mousseline di patate della bisalta affumicate, quinoa cotta in un brodo di sottobosco, lumache in fricassea.
Consistenze, profumi e sapori per un bel piatto di intensa mineralità, accentuata dall’utilizzo del carbone vegetale. Un boccone di terra tipicamente langarola, nel senso positivo del termine. Molto buono.
Un ulteriore bianco di langa.
“BBQ”.
Spaghetti “Pastificio dei Campi” cotti al barbeque con un brodo di prosciutto crudo di Cuneo.
La pasta viene mantecata in un burro affumicato nel Weber e accompagnata da un crumble e dall’olio di prosciutto crudo di Cuneo, oltre a una spruzzata di polvere di carbone vegetale.
Nonostante la sua giovinezza, già un signature dish e a ben ragione. Piatto goloso, di piacere primitivo e bella caratterizzazione gustativa. Avendo il tartufo in questo caso un ruolo non essenziale, il suo scarso apporto non condiziona la riuscita del piatto, né in positivo né in negativo, ma non importa: davvero ottimo anche così.
Si passa a un rosso.
“Cubix”.
Ravioli ripieni di anguilla arrostita allo yakitori, barbabietole cotte in un dashi di Parmigiano Reggiano, emulsione al rafano.
Una grande protagonista della cucina tradizionale piemontese presentata con affascinanti suggestioni italo-nipponiche. Di grande eleganza l’emulsione al rafano, incisiva e al tempo stesso discreta, più misurato invece l’apporto del Parmigiano Reggiano.
Il piatto in arrivo, prima del servizio.
“Mi sono stufato”.
Rombo stufato in olio di chorizo, condimenti iodati, coriandolo.
Piatto in cui è possibile intravvedere quali potenzialità si celino nello chef quando decide di premere un po’ sull’acceleratore gustativo. Iodio (rombo, riccio di mare, emulsione di cappero), terra (porro di Cervere arrostito), suggestioni orientali (coriandolo), tutto contribuisce a un piatto armonioso ma di carattere. Bravo!
Si sale con un Nebbiolo di Alba.
“Natura”.
Petto di piccione arrostito al Weber, rabarbaro impregnato all’ibisco e jus di mais tostato.
Eccessiva deriva su toni tendenzialmente dolci sul piatto principale di carne, non essendo il rabarbaro né la tostatura del mais sufficienti per offrire un proporzionato contrappunto. Comunque un buon piatto.
“Infusion”.
Infuso di fiori di ibisco, zenzero e verbene.
Reset del palato all’insegna di una pulente acidità, con simpatica continuità dal piatto precedente (ibisco).
Un Moscato Passito per la parte dolce.
“Raggio di sole”.
Bocconcini fondenti al mandarino, mousse al moscato, melone giallo impregnato al mango.
Dolce non particolarmente ambizioso, ma di bella freschezza tenuta viva dalle componenti acide.
A chiudere un Barolo chinato.
“Cardasplash”.
Raviolo idrosolubile, ripieno di pralinato di nocciole Gentile delle Langhe, caffè aromatizzato al cardamomo.
Un ricordo del percorso dello chef in Medio Oriente, in particolare del caffè al cardamomo degustato a Beirut e del Narghilè che usava fumare quando beveva il caffè. Il raviolo va immerso con la pinzetta e degustato il prima possibile.
Una sbirciata in cucina a servizio terminato.
Un grande cuoco è certamente colui che crea una cucina personale, con molta tecnica celata ma al contempo efficace, con idee originali e centralità gustativa, non dimentichiamolo, ai massimi livelli.
Un grande cuoco però si vede anche alla prova del nove, ovvero quando deve, nel solco della tradizione più spinta, far esprimere uno o più ingredienti al meglio. Con tecniche e manualità classica, perchè nulla è più da inventare.
Ricordo ancora nitidamente il racconto che mi fece il compianto e mai troppo ricordato Stefano Bonilli, in merito alla sua prima spedizione a Cala Montjoi. Era ancora il secolo scorso e Ferran Adrià, forse il più grande cuoco di questo secolo, accolse la sparuta truppa giunta in missione dall’Italia con una cena, memorabile a detta dei partecipanti, a base di grandi classici francesi.
Nello stupore e nell’incredulità di tutti, a fine cena, il maestro catalano disse : “Stasera vi ho dimostrato che sono un cuoco e so cucinare, domani vedrete quanto questa conoscenza mi sia servita a creare innovazione”.
Ebbene si, un grande cuoco si vede anche alla prova sui temi classici. E ad Alba cosa c’è di più classico che la valorizzazione, in chiave moderna s’intende, di un ingrediente principe di langa come il Tartufo?
Ecco quindi Enrico Crippa alla prova con l’esaltazione e la sublimazione del divin Tubero: iniziamo col dire che l’obiettivo è stato colpito ed affondato. In questo lungo percorso non mancano citazioni, rimandi, riflessioni anche storiche e molti luoghi comuni sfatati. Il primo, che racconta dell’esaltazione del tartufo attraverso il veicolo del calore, posto sotto al prezioso tubero. Vero, ma solo in parte. La realtà, anche provata dalla scienza alimentare, è che il veicolo per gusto e profumo migliore per il tartufo è il freddo, o il tiepido, ben calibrato. Più che il caldo.
E in questo caso la classe, l’esperienza e le grandi capacità del cuoco Crippa sono saltate fuori alla grande. Piatti originali, ben pensati, ottimamente eseguiti, con una gestione di proporzioni e temperature che sfiora il maniacale. Tutti quanti tra il perfetto e l’ottimo.
I nostri preferiti? L’albese, il capriolo e il molto discusso al tavolo, ma a nostro avviso migliore, riso al cardamomo e tartufo. Un concentrato di eleganza in cui il cardamomo, e la tiepida temperatura del riso, amplificava ed esaltava il divin pregiato.
Chapeau a questa sequenza, dando spazio alle foto, ogni piatto fotografato con e senza Tartufo…
Il protagonista della giornata.
La sequenza, forse fintanto eccessiva, dei fantastici amuse bouche.
Noce e tartufo bianco.
Nocciola e tartufo.
Fantastico ragout di coniglio e polenta, come rendere un classico un piatto di alta cucina d’autore.
Capesante, purea di radici. Un piatto in cui la temperatura, oltre che gli abbinamenti, giocano un ruolo chiave.
La sublime albese, davvero fantastica.
Merluzzo e Zucca.
L’ormai classico crema di patate e Lapsang Souchong.
Animelle e bietole.
Straordinario riso e cardamomo.
Plin in fonduta.
Capriolo e foie gras.
E il suo secondo servizio.
I vuoti dell’impegnativa giornata…
…e un fantastico fine pranzo.
I colori della vigna.
Un rinfrescante cocktail.
I saluti finali.
Mela campanina.
L’arrivederci.