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Madonna della Querce 2016 di Cantine Dei

Il Vino Nobile di Montepulciano Docg

Il Madonna della Querce 2016, Vino Nobile di Montepulciano Docg prodotto dalle Cantine Dei, è un’etichetta aristocratica.

E non solo perché la famiglia Dei è stirpe senese di patrizio lignaggio, ma perché questa bottiglia racchiude e rappresenta al più alto livello e in una delle migliori forme possibili lo spirito del Nobile di Montepulciano. Primo vino italiano ad aver ottenuto la Docg, agli inizi degli anni Ottanta dell’ormai secolo passato, il Nobile così si chiama a ragion veduta. La sua storia, come la sua fama, è secolare: già nel Quattrocento era sulla tavola del pientino Pio II Piccolomini, mentre cento anni più tardi Caterina de’ Medici, regina di Francia, lo porta con sé Oltralpe.

La nobiltà del Nobile

Ma, al di là di date e di nomi che ne certificano la storia, il Nobile è nobile per sue caratteristiche intrinseche: sui declivi poliziani il Sangiovese, qui nel clone Prugnolo Gentile (che, secondo disciplinare, deve concorrere per almeno al 70% all’uvaggio), si distingue infatti per i suoi esiti spettacolari, che possono ulteriormente essere affinati da lungimiranti vinificazioni e da oculate pratiche di cantina. È così che sotto il tappo di un Nobile si celano profumi fini, materia suadente, tannini vellutati, lunga ed equilibrata persistenza gusto-olfattiva.

Caterina Dei guida l’azienda di famiglia, fondata dal nonno Alibrando e sviluppata dal padre Glauco, con spirito d’artista. I princìpi della musica – lei è compositrice e interprete – primo fra tutti l’armonia, permeano la sua concezione del “fare vino”. Armonia fra la terra e chi la coltiva. Fra la vigna e il terroir. Fra l’acino d’uva e chi lo vinifica. Così, come specchiandosi l’uno nell’altro, la cantina (una magnifica opera sotterranea in travertino, al quale si accede da una rampa circolare a chiocciola) è a impatto zero. E le vigne sono condotte secondo rigidi criteri di sostenibilità.

Il rispetto dell’ambiente e delle caratteristiche del Nobile di Montepulciano prendono forma in una gamma di etichette fra cui svettano i due cru: Bossona e Madonna della Querce. Quest’ultimo (100% Sangiovese), prodotto in appena 4.500 bottiglie, nasce dalla vigna La Piaggia, un piccolo appezzamento di poco più di un ettaro, dalle meravigliose caratteristiche pedoclimatiche. Il terreno, ben esposto, è di origine pliocenica e risale a due milioni di anni fa. La tessitura è omogenea, composta da un’alternanza di argille tufacee e sabbia. Il vino, dedicato da Caterina a suo padre, prende il nome dal piccolo santuario omonimo che sorge nei pressi della vigna.

La degustazione

Il Madonna della Querce, che qui raccontiamo nella splendida annata 2016, appare, nel bicchiere, di un bel rosso rubino. Roteando la materia, impenetrabile e di buona consistenza, la doppia caduta di archetti segnala sin da subito quelle che saranno le sensazioni caloriche e pseudocaloriche che si andranno a percepire poi in bocca. Frangendo la rotazione giunge al naso l’intensità dello spettro aromatico. Ma ciò che colpisce sin da subito è la sua compostezza che si dipana in una corale, fine complessità di elementi fruttati e floreali, minerali e speziati, legati fra loro da leggerissimi tocchi erbacei ed etereo-balsamici.

I riconoscimenti, quanto mai ampi, spaziano da profumi di piccoli frutti rossi e neri alle immancabili marasca e prugna dolce, passando per una inconsueta e fragrante albicocca nella varietà Reale di Imola. Fra i fiori, oltre la caratteristica viola mammola, si possono ravvisare anche la peonia e il geranio rosso, con la sua freschezza erbacea. Proprio quest’ultima trasporta i riconoscimenti su note di sottobosco che virano presto su eleganti sentori minerali (ardesia?). Giunge quindi la non invadente speziatura (data dal passaggio di almeno venti mesi in botte grande) che, integrata agli altri aromi, si muove su sensazioni di dolce equilibrio: pepe nero, chiodi di garofano, soffici tocchi di liquirizia e di tabacco da pipa.

Il vino in bocca entra in modo assai elegante e sin rarefatto: generosamente ampio ma tutt’altro che scomposto. Il tannino, levigato dal legno e già ben integrato, la giusta mineralità e la magnifica freschezza, ben bilanciano le morbidezze apportate dall’alcol e dai polialcoli. Il quadro complessivo risulta di grande armonia: equilibrato, intenso e molto fine, con un impressionante allungo improntato a pulizia ed eleganza.

Vent’anni di Bibi Graetz

Ritorno a Fiesole in anticipo di qualche tempo rispetto all’anno scorso quando, in auto da Firenze, al posto di Testamatta andavo a degustare i primi vent’anni di Colore e mi stupivo per l’infilata di glicini in fiore aggrappati in ogni dove, anche sui cipressi. Quella di oggi, invece, è una giornata fredda che la luce dell’inverno, benché ancora per poco, imperla di un bianco adamantino e tutti i fiori sono ancora avviluppati nei loro boccioli marzolini.

In Piazza Mino le raffiche di vento tolgono il fiato. Così scendiamo subito, senza convenevoli, fino all’ingresso della cantina raso strada dove ci aspetta il padrone di casa, Bibi Graetz, cui l’attributo non è affatto eufemistico giacché lui vi dimora davvero, al piano superiore, con l’intera famiglia. Casa e bottega, dunque? Di più, perché grazie all’avventura di questo forestiero “un po’ fuori di senno” al centro di Fiesole è stato restituito il momento collettivo della vendemmia, e perfino la piazza, tramite lui, torna a gremirsi di maestranze di varia natura, tutte legate alla cultura del vino. 

Siamo all’interno di quello che fu lo storico Albergo Aurora, costruito nel 1860 da un altro forestiero, Sir W.B. Spencer. Qui, gli spazi al pian terreno sono occupati da una curiosa bottaia diffusa mentre la sala di vinificazione è stata ricavata nelle sale di quella che, negli anni ’90, era la discoteca del paese, con tanto di sfera stroboscopica ancora lì, attaccata al soffitto a mo’ di memento.

La giornata di oggi, comunque, è essa stessa memento e precisamente di quando, vent’anni orsono, Bibi Graetz vinificò per la prima volta i frutti del vigneto di famiglia in quel di Vincigliata.

Sin da allora, il vino per lui è stato un modo per esprimere prima di tutto se stesso e, con esso, l’aire du temp, così come dimostra il contrasto tra le prime annate, muscolose, estratte, imponenti, e le ultime, rarefatte, delicate, cesellatissime: una natura plasmata coi cambiamenti del costume e della società, con la 2012 a fare da spartiacque.

Sono vini, questi, antropomorfi e, come tali, riconosciuti dall’uomo che sin dall’inizio ha amato specchiarvisi, anche narcisisticamente, come dimostrano i tanti riconoscimenti ricevuti: nel 2001 quando Testamatta vinse il premio come miglior vino al mondo a Vinexpo; nel 2006 quando la stessa consacrazione arrivò da Wine Spectator e, ancora, nel 2018, coi 100 punti da Decanter, tanto che dal 2021 sia Testamatta che Colore – i due vini di punta aziendali – incominciano a beneficiare del sistema di distribuzione più raffinato al mondo: quello promesso da La Place de Bordeaux.

Due decadi, insomma, in cui vino e uomo si sono assimilati in un processo di identificazione totale, e così eloquente da raccontarci con pari efficacia tanto dell’uno quanto dell’altro. Come suggerisce il comportamento – o portamento – di ogni bottiglia, mutevolissimo pur nella costanza di una selezione di Sangiovese – quasi sempre in purezza – le cui uve provengono dalle viti più vecchie delle colline del Chianti Classico, come Lamole e Montefili. Ma vi partecipano anche la succitata Vincigliata e poi Olmo, Londa e Siena, per un totale di sei appezzamenti vendemmiati in maniera scalare, fino a nove volte.

Una seconda cernita viene poi fatta in cantina prima della diraspatura, cui segue la pigiatura soffice e quindi l’innesco di fermentazione tramite lieviti autoctoni in barrique aperte, botti o tini d’acciaio, senza alcun controllo delle temperature ma con anche sei follature manuali al giorno. Quindi, dopo una macerazione di circa 7-10 giorni a seconda dell’annata, ciascuna parcella viene travasata in botte o barrique, dove matura per circa 20 mesi.

La verticale di Testamatta

La degustazione dello scorso 8 marzo si è svolta come la precedente, dedicata a Colore, simultaneamente in 12 città del mondo e sei fusi orari diversi (Lisbona, Oslo, Vienna, Zurigo, Bordeaux, Fiesole, Londra, Shanghai, Singapore, Tel Aviv, Seoul e Dubai).

2000

Mistico, vanta profumi di incenso da chiesa, fiori secchi e balsami orientali, e a poco a poco rilascia commoventi eco di violetta e, ancora, frutto rosso. Simile freschezza al palato, dove l’evoluzione del tannino si materializza in una percezione piccante affatto calda e in un sorso succoso, salato, slanciato. L’integrità è commovente ma già lo dimostra, alla vista, la distribuzione serica dei pigmenti che, nel calice, brillano di un rosso ancora acceso. 93/100

2001

Note di agrumi e bacche di vaniglia, mentuccia, prugna quasi essiccata, antro di cantina. È più generoso del 2000 e, al contempo, più bizzarro, pur vantando una invidiabile profondità e un toccante legame col mondo da cui proviene, fatto di flora e fauna. La sapidità è accesa e quasi tagliente e pervade una materia indiscutibilmente carnosa e carnale, che s’infittisce man mano che si beve. È tra i più sapidi della giornata. 90/100

2002

Un’annata disastrosa, i cui effetti si sentono in questo vino speziatissimo di pepe Timut e paprika e abitato da nette note di erbe aromatiche, dragoncello su tutte. È quello che mostra più evidenti i segni del tempo tanto che, al netto di una sapidità molto viva e saporita, lesto svapora. s.v.

2004

Una pietra miliare e per l’azienda e per l’intera batteria: il 2004 fu, infatti, l’anno in cui Bibi Graetz cominciò a seguire il processo di vinificazione in totale autonomia. Molto lungo il ciclo vegetativo, con vendemmia posticipata di 15 giorni, ne sortisce un blend di Sangiovese e Canaiolo (20%), oggi dettagliatissimo: una cornucupia di agrumi (arancia rossa soprattutto, anche con la sua scorza) e rose bianche, e poi spezie mediterranee. Il palato è teso, tonico ed energico, succoso e salato e, soprattutto, ancora in potenza. 94/100

2005

Più ombroso, il primo naso parla di grasso di officina e terra per comporsi, poi, in foglie non infuse di tè nero e tabacco, e si fa generoso, in chiusura, di polpe di more e mirtilli. L’annata fredda e forse il blend (oltre al Canaiolo c’è anche il Colorino, col Sangiovese) restituiscono un vino che esaspera ulteriormente la tensione del 2004, tanto che pare doversi ancora distendere. Il sale e le spezie volteggiano su un succo ancora di frutto. 92/100

2006

Un’annata di agoni e contrasti, che si riverberano in un vino dal comportamento dicotomico, fatto di repentine chiusure e aperture vertiginose. Dapprincipio florealissimo, vira poi verso un tabacco austero e una piccantezza già olfattiva di tabasco. Il palato è potente e strutturato, ma severo, benché ammorbidito da un guanto di tannini vellutati e quasi cremosi. 86/100

2007

All’olfatto la 2007 è il compendio di quanto assaggiato finora: espressivo e trasognato di zagara, tabacco, cioccolato e violetta, al palato colpisce la delicatezza e, al tempo stesso, la lunghezza delle percezioni. Un vino solo apparentemente semplice, di straordinaria progressione e, dunque, bevibilità. Il retrolfatto parla, ancora, di fiori, in particolare di incenso indiano (spento). 91/100

2010

Considerata una grande annata in Toscana, l’aumento delle temperature appena prima della vendemmia ha concentrato il succo, imprimendo maggior concentrazione e struttura. Ne sortisce un olfatto non particolarmente espressivo che, solo col tempo, mostra note di essenza di arancia e china. Il tannino, ancora un po’ iracondo, inaridisce le fauci pur rilasciando potenti profumi di agrumi, tabacco e salgemma. 90/100

2011

Molto borgognone nella natura aromatica, l’annata 2011 restituisce un vino speziato e sottile di fiori, lamponi e pepe Timut. Al palato ha slancio e ascensionalità, retrolfatto molto potente e definito, ancorché poco consistente nel corpo e rarefatto nella persistenza. Piacevole e lezioso. 88/100

2012

Se dopo la 2009 s’intuisce la volontà di Bibi di sposare uno stile più delicato, fatto di minor estrazione e una certa stilizzazione delle caratteristiche delle annate, con la 2012 siamo precisamente a cavallo tra questi due stili interpretativi. L’olfatto è vivo di esotismi: l’incenso indiano torna a raccontare storie di fiori – frangipane – tabacco e spezie. Al palato è una festa di agrumi e tannini succosi, salati, adesivi. C’è slancio e potenza, nonché la promessa di sensibili e ulteriori evoluzioni future. 95/100

2013

Le gelate di aprile hanno concentrato le rese. Ciò si riflette in una sensazione di concentrazione evidente, già all’olfatto, di agrumi, come di tamarindo. Molto maschile il repertorio olfattivo: tabacco trinciato, menta piperita, grasso di officina si riverberano anche al palato, intrigante e compatto, teso e concentrato. Un vino irresistibile e viscerale, come un amore non corrisposto. 89/100

2015

Un vino mite, figlio di una stagione equilibrata e senza estremi, né d’inverno né d’estate. Al naso è molto trasognato, di agrumi, vaniglia, e una traccia ematica. Con quest’annata si entra di diritto nel regno della giovinezza di Testamatta e, come tale, gli si perdonerà tanto la timidezza quanto l’eccesso di zelo. Al palato, in particolare, è spensierato, e fa balenare alla mente le scorpacciate di ciliegie e il sale sulla pelle dei primi bagni d’estate. Innocente. 93/100

2016

Un’altra bellissima annata, foriera di una progressione vegetativa perfetta. Una “felicità” che si materializza in un olfatto primaverile di glicine, violette e amarena, con un’incantevole nota vinilica. Ha la stessa bellezza trasognata del 2015, ma con un nucleo profondo più duro, vivo di un’energia propulsiva e salata. Già affascinante, è lapalissiano l’incredibile potenziale. 94/100

2018

Un’annata borgognona il cui assemblaggio fu concepito nel raccoglimento del lockdown. Già al naso si intuisce la quiete e, al contempo, l’aspettativa: i profumi sono tersi di ciliegie ed erba tagliata, c’è la durezza salace della 2016 in un mosaico di grande espressività floreale, di rosa rossa e di viola. Ne sortisce un vino profondo e conturbante, gioioso ma chiaroscurale, profondo. Al palato è inizialmente titubante poi si infittisce regalando un sorso succoso e salato, che s’irradia di una luce calda e speziata. Ancora in divenire, ma già bellissimo e, soprattutto, pacifico. 95/100

2019

L’annata dell’anniversario sublima tutti e 20 gli anni di esperienza di Bibi Graetz che, oggi, tende soprattutto all’eleganza. Musa o chimera che sia, complice l’annata equilibrata ed equanime nella distribuzione degli eventi atmosferici, il 2019 svela la sua istanza narrativa nella grande freschezza e nella cesellatura di spezie e fiori. Ancora giovanissimo, irretisce per quello che, soprattutto, promette. 92/100

Una rara realtà multiforme e sfaccettata

Ci sono fulcri di ricchezza e storie, non soltanto enoiche, destinate a disorientare il cronista per sovrabbondanza di materiale.

Partiamo dal territorio, innanzitutto, dato che tanta parte ha proprio la location in questa narrazione. Siamo in Valdera, a Palaia, comune della provincia di Pisa che, ad una prima visita, sorprende non trovare tra le destinazioni-cardine della nuova viticoltura italiana poiché si tratta di una collina marnoso-tufacea coperta da un 30-40 centimetri di riporto di terra decisamente fertile (un tempo adibito, fra gli altri, alla coltivazione di tabacco) stretta tra i corsi dei torrenti Chiecina ad est e Roglio ad ovest, attraversata inoltre da una strada che in epoca etrusca conduceva a Volterra.

Visivamente molto simile alla Valdorcia o alla Valdichiana, vive, soprattutto per il suo essere contesa tra i comuni di Pisa, per l’appunto, e di Lucca, un storia travagliata, soprattutto da un punto di vista vitivinicolo. Eppure è proprio qui, in un borgo già attestato come fattoria produttiva di vino nel 980 d.C., che la famiglia inglese Hands, guidata da Guy, fondatore della seminale compagnia di private equity Terra Firma, con interessi in finanza, discografia e hôtellerie di lusso, decide di investire per rivalutare uno storico complesso di circa 720 ettari tra boschi, ulivi, vigne, colture, antichi casolari e ville adibite all’ospitalità.

La storia di Villa Saletta attraversa proprietà e secoli rafforzando la sua vocazione iniziale: quattro grandi famiglie si succedono alla guida: i Gambacorta, nel 1300, quella dei Riccardi, abbiente famiglia fiorentina di banchieri di Casa Medici, che trasformarono Villa Saletta in una vera e propria azienda rurale (una specie di clos allargato o maso chiuso, classica Fattoria all’Italiana) nel corso del 16° e 17° secolo, la famiglia dei Castelli e infine gli Hands, che la rilevano nel 2000.

L’idea è di mantenere il fulcro sulla produzione enoica in un progetto molto ambizioso – con già 250 milioni di euro allocati – che prevede la ristrutturazione dell’antico borgo di Villa Saletta e il restauro delle ville esistenti, ben 43 (di circa 300 metri quadri l’una) che diventeranno un vero e proprio resort di lusso, completate da trattoria, negozi e un ristorante gourmet.

Dalle forme di allevamento ai singoli vigneti

Alla guida della cantina, ora ospitata provvisoriamente in un (bellissimo) edificio progettato dallo studio Rossiprodi, a Montanelli di Palaia (la nuova sede verrà verosimilmente completata per il 2023), come direttore tecnico e AD c’è, fin dal 2015, l’agronomo ed enologo David Landini, origini toscane, curriculum di grande rilevanza, che annovera esperienze significative tra Frescobaldi, Antinori e Gruppo Bertani Domains.

E con il supporto di Silvia Mellini, agronoma, il progetto vinicolo, in effetti una delle attività produttive insieme a coltivazione di frutta, ortaggi, erbe, grano e olio, non nasconde le proprie ambizioni, come dimostrano gli assaggi, sia le prove di vasca che le anteprime dei vini in commercio. David non si risparmia le avanguardie (anche se in realtà si tratta di un recupero attualizzato) di cantina, come la vinificazione integrale, per permettere alla produzione attuale, circa 100.000 bottiglia da 30 ettari (di cui 17 in produzione e altri che entreranno a regime a breve, ma si arriverà al massimo a 40 ettari totali), di essere insieme significativa e variegata.

Un totalizzante orientamento alla qualità, con evidenti, strumentali sacrifici sulle quantità prodotte, che nascono da un lavoro preparatorio agronomico monumentale: i vigneti sono di piccole dimensioni, non disdegnando di mescolare le varietà rappresentate (Sangiovese, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot, con alcune anteprime a venire, succose sperimentazioni su varietà internazionali a bacca bianca di grande eleganza) e le forme di allevamento, tra Cordoni speronati bilaterali, Lyra per il Sangiovese, Guyot per le varietà internazionali (Cabernet Sauvignon e Franc) e miste per il Merlot, nel caso in cui il terreno e le condizioni siano o meno favorevoli.

Le lavorazioni, soprattutto, sono caratterizzate dalla grande cura artigianale, senza estremismi o prese di posizione integraliste ma comunque orientate al minimo interventismo chimico, alternando interfila lavorati e sovesci, con utilizzo di crucifere e leguminose, o inerbimenti naturali e successivamente potature verdi solo se necessarie.

La vendemmia, poi, è momento cruciale, con tripla selezione in pianta e successivamente cèrnita sul tavolo. Spicca, tra i cru aziendali, il vigneto Il Torrino, splendido allestimento circolare su marne argillose bluastre che rappresenta il cru, davvero sorprendente, di Cabernet Sauvignon, e il vigneto Le Colline, l’altrettanto splendido cru di Franc (con all’interno il ‘clos’ di 5000 metri quadrati destinato al 980 AD), che rappresentano le due marcate vocazioni aziendali insieme, ovviamente, al Sangiovese. Il resto lo fanno, c’è da credere, i boschi maestosi che circondano i terreni vitati, anch’essi, lodevolmente, oggetto di recupero varietale (e riarredo paesaggistico) e operazioni di ripristino di vecchi camminamenti, che permetteranno anche agli ospiti del resort di godere di esperienze immersive uniche.

Ebbene, considerate le premesse, c’è da scommettere che se qui a Villa Saletta si proseguirà il lavoro minuzioso fatto finora, che ha alla base la salvaguardia del territorio e la mente, alla ricerca delle condizioni migliori per permettere alle varietà coltivate di esprimersi al meglio, se ne vedranno davvero delle belle, come dimostrano peraltro i radiosi assaggi di seguito:

Rosato Italiano Rosé 2020

Nato come esperimento, ora invece frutto di una ben precisa idea di vino rosa. Ideale vino da ‘apertura’ pasto. Blend di Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, affinato solo in acciaio. Bella acidità al naso, con sentori di ribes rosso e maggiorana, bocca sapido-salina e persistente, con ritorno fruttato.

Chianti Superiore DOCG 2016

Un Chianti Superiore lontano dalla zona del Classico che sorprende per i marcatori peculiari. Frutti a bacca nera, ribes su tutti, poi tocchi eleganti di foglia di pepe e sottobosco. Bocca succosa, intensa, marcata densità ed estratto imponente ma grande bevibilità. 

Toscana IGT Chiave di Saletta 2017

Un uvaggio di Sangiovese vinificato in maniera tradizionale, non in tino ma in acciaio, poi selezione di Cc (in parte da vinificazione integrale) capaci di rendere la parte più ‘polposa’ delle visioni enoiche di Villa Saletta. Mirtillo, foglia di pepe e noce moscata al naso, succoso alla bocca.

Toscana IGT Saletta Riccardi 2016

La tête de cuvée di Sangiovese, da vinificazione integrale, fermentazione in tino tronco-conico con leggera macerazione 3-4 giorni e 20 mesi di invecchiamento in legno fino al secondo passaggio. Melograno al naso, con tocchi di sottobosco, radice di liquirizia e pepe bianco. Bocca salmastro-sapida, persistenza e beva.

Toscana IGT Saletta Giulia 2016

Uvaggio di cuvée Cabernet Franc e Sauvignon da 100% vinificazione integrale con barrique bordolesi di tostature medio-forti. Ribes rosso, tocchi di maggiorana e timo disidratato, poi noce moscata e rabarbaro. Bocca salmastra, con ritorno fruttato e finale persistente.

Toscana IGT 980 AD 2016

Lo splendido apice aziendale, da 100% Cabernet Franc da vigneto Colline, una piccola parcella da mezzo ettaro.  Estratto sontuoso. Vinificazione integrale con fermentazione in legno bordolese poi tonneaux di legno di borgogna. Piccoli frutti neri di sottobosco, mora, bella spinta officinale di alloro, mentolatura finale da mentuccia selvatica. Bocca succosa, tannini sapidi, lunghissima persistenza di beva.

“Cantinando” da Martino Manetti

Viaggiando verso la Toscana, dopo la lunga sosta della pandemia, mi viene voglia di tornare in luoghi con solide radici nel passato. Per ritrovare anche un certo clima di tradizione e conforto. Sicché ritorno a Radda in Chianti, per visitare la cantina Montevertine.

Il territorio è nella parte settentrionale della provincia di Siena, zona di confine dell’area del Chianti Classico, a un’altitudine poco sopra i 400 s.l.m., caratterizzato da forte prevalenza boschiva. Le coltivazioni a vigneti di questi colli sono dunque in netta minoranza, favorendo la biodiversità, su terreni calcarei con strati rocciosi di alberese e galestro diversificati nei versanti della tenuta; la parte della vigna con esposizione a nord, nord-est, la storica Pergole Torte (di 2 ettari) piantata nel 1968, ha infatti anche delle intrusioni ferrose.

Tutto intorno alla struttura della cantina, collocata nel punto più alto della tenuta e adiacente l’abitazione della famiglia Manetti, si trovano le altre vigne come Montevertine e Pian del Ciampolo, per un totale di circa 17 ettari. 

Sono Sangiovese (90%), Canaiolo e Colorino, nel pieno rispetto dell’identità territoriale; le vigne più vecchie col sistema a Guyot e il resto a Cordone speronato con una resa intorno ai 55 q/ha per puntare alla massima qualità. Tutto in conduzione biologica.

Due uomini di Montevertine: Giulio Gambelli e Sergio Manetti

Una figura di riferimento per il mondo del Chianti e in particolare per il Brunello di Montalcino, è stata Giulio Gambelli, straordinario assaggiatore, eccellente conoscitore del Sangiovese.

«Giulio è stato la persona che ha convinto il mio babbo a fare il vino, assicurandogli il suo aiuto, la sua esperienza» mi racconta Martino Manetti che oggi tiene le redini della cantina e che dal 1990 ha seguito raccolto dopo raccolto, imparando da Gambelli e dal padre Sergio.

Con grande lungimiranza, nel 1967 Manetti acquistò la tenuta Montevertine, una località abitata fin dall’XI secolo. C’era ancora la mezzadria. Lui era un industriale siderurgico e cercava una casa di vacanza. Durante i restauri impiantò due ettari di vigna allestendo pure una piccola cantina con la sola intenzione di fare il vino per amici e clienti. La prima annata prodotta, il 1971, fu molto incoraggiante e Sergio Manetti ne mandò alcune bottiglie al Vinitaly tramite la Camera di Commercio di Siena. Fu subito un successo. L’entusiasmo di quegli anni lo portò quindi a dedicarsi completamente al mondo del vino e così nasce la storia di Montevertine, da allora sempre in constante crescita. 

Ed ebbe anche molto coraggio, Sergio Manetti, nel non aderire al disciplinare del Chianti, contribuendo quindi anche lui alla nascita dei grandi vini toscani che sarebbero diventati i cosiddetti Super Tuscan. Il figlio Martino è cresciuto in un clima di grande amicizia, fra Giulio Gambelli e il papà Sergio. Ci sono tanti episodi che dimostrano le doti di Gambelli; si narra che una volta chiese di assaggiare il vino della vasca 24; gli fu portato e subito Giulio disse: «Che vasca m’hai dato? La 21… non la 24». Naturalmente aveva ragione lui. 

Poi c’è stata la costante collaborazione di Bruno Bini. E oggi la parte enologica è affidata a Paolo Salvi, supportato dall’agronomo Ruggero Mazzilli, il tutto si traduce in una produzione intorno alle 90.000 bottiglie all’anno.

In cantina, Il metodo di vinificazione è quello tradizionale. Si raccoglie a mano e l’uva fermenta nelle storiche vasche di cemento vetrificato color rosso intenso, senza controllo della temperatura. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica sempre nelle stesse vasche. Infine i vini riposano in botti di rovere di Slavonia e di Allier da 5,5 a 18 ettolitri e in barrique di Allier da 225 litri per un periodo di circa due anni. I vini non vengono mai filtrati e l’imbottigliamento avviene per caduta.

Veniamo alla degustazione, con il privilegio dell’anteprima assoluta (la visita è di metà aprile), dato che per tutto il periodo della pandemia non si sono svolti eventi, presentazioni, degustazioni. Praticamente nulla di nulla.

Pian del Ciampolo 2019 

Questo è il vino da tutti i giorni di Montevertine; nella lavorazione include anche vino torchiato ed è ricavato da uve di seconda selezione con un taglio di Sangiovese al 90%, poi Canaiolo e Colorino. La sensazione è di un’annata molto equilibrata, in grado di accontentare tutti. 13,5% Vol. e un colore rosso rubino luminoso, questo vino all’olfatto è ricco di frutti a bacca scura come i mirtilli, addolciti da note di fragoline di bosco; è ancora spigoloso, del resto sappiamo che è stato imbottigliato da pochissimo e per un vino è sempre una sorta di choc passare dalle botti all’angusto recipiente di vetro. Tannini, acidità e sapidità ora sono vigorosi, ma già in equilibrio. Si affina in botti grandi per 12 mesi. L’etichetta, come Montevertine, quest’anno è in edizione commemorativa per i 100 anni dalla nascita di Sergio Manetti: un suo piccolo ritratto compare in scudo sulla sommità.

Montevertine 2018

Questo vino è frutto di un’accurata selezione delle uve; il taglio è lo stesso del Pian del Ciampolo, però la permanenza nelle botti è di 24 mesi. E una bell’annata, non c’è dubbio. Martino Manetti la descrive come «molto nostra; il carattere è quello di un vino verticale, elevato, lungo in bocca, consistente». 14% Vol. ha un colore già più intenso, concentrato, con uno spettro olfattivo ora ricco anche di spezie, di note di liquirizia e tonalità legnose frutto della recentissima uscita dalle botti. Persistente, tannico e sapido al punto giusto. E tutt’ora è sferzante, ma piacevole; del resto, come dicono i cantinieri, il vino si fa per berlo. E come ci ricorda divertito, Martino:

«La bottiglia buona, alla fine è quella vuota…». 

Le Pergole Torte 2018

Il 1977 è il primo anno di questo grande vino 100% Sangiovese. Ne furono imbottigliate solo  3500 bottiglie. È l’unico vino della cantina che fa anche barrique. La sua peculiarità sta nell’etichetta, un disegno del pittore reggiano Alberto Manfredi. La casualità delle cose della vita volle che io incontrassi questo vino durante gli studi di Architettura, a Firenze, precisamente l’annata 1990 che ho avuto la fortuna di bere. Dico la casualità, perché riconobbi subito lo stile di Manfredi, dato che il pittore abitava sotto casa mia. L’annata 2018 per certi versi assomiglia alla 2013, ma soprattutto accende tanti ricordi. È sempre lui. È sempre Le Pergole Torte. Un riferimento. All’olfatto si aprono note di mora, amarene, piccoli frutti di ribes nero non ancora maturi, ma anche di rosa e una latente freschezza erbacea che mi ricorda le ginestre lungo la strada. Al palato c’è tanta armonia, una delle caratteristiche più evidenti di questo grande vino toscano, ma anche freschezza che deriva da uve esposte alle giuste escursioni termiche. Completa lo spettro la ricchezza dei legni, con all’orizzonte dei tratti di cacao amaro e tannini ora muscolosi.

Finiamo col divertirci nella cabala delle annate con l’8, tutte con vini di grande struttura: ’18, ’08, ’98, ’88, ’78, ’68. D’altra parte, come racconta Martino Manetti: «Io francamente mi diverto, finché sono in cantina mi diverto».

Protagonismo del Sangiovese

Chianti Colli Senesi 2019 – Fattoria del Cerro

Le diverse tenute della proprietà sparse sul suolo toscano e umbro permettono ai vini di Tenute del Cerro di regalare uno spaccato della viticoltura del centro Italia, quella che si snoda fra le colline tanto dolci quanto selvagge. Fattoria del Cerro è situata ad Acquaviva di Montepulciano, in provincia di Siena. Incastonata fra i borghi medioevali come fossero dei punti cardinali, l’azienda poggia su una superficie di ben 600 ettari, 181 dei quali sono coltivati a vigneto. Il Chianti Colli Senesi è un’espressione di Sangiovese, che affina in presenza delle fecce fini per 4 mesi.

La componente fruttata di piccoli frutti di bosco sottende a una nota di radice, per poi aprire al mondo della confettura di bacche rosse e a qualche spezia. Il sorso è freschissimo, giustamente tannico, vigoroso nella sua espressione giovanile eppure anche dotato di buona morbidezza. L’ultima parola viene lasciata all’acidità, che porta avanti la beva. Da abbinare con un piatto di tagliolini ai funghi porcini e salsiccia.

C/o Vino.com: 7,60 €

Chianti Classico DOCG 2016 – Pieve di Campoli

Pieve di Campoli è proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di Firenze dal 1985. L’azienda si estende su una superficie di 450 ettari, distribuiti su sette comuni. Di questa vastità, 75 ettari sono dedicati al vigneto per la produzione di Chianti e di Chianti Classico, mentre altri 100 sono abitati da ben 20.000 olivi. Il Chianti Classico di Pieve di Campoli si ottiene da uve Sangiovese in prevalenza con l’aggiunta di una piccola quota di Syrah, entrambi coltivati ad un’altitudine compresa fra i 300 e i 350 m.s.l.m.

Colore rosso rubino intenso. Il naso è denso come il suo colore: ricorda la marasca, la corniola e il caffè. Poi si apre alla frutta secca, alla spezia e alla mora. I suoi quattro anni di vita non sono stati ancora sufficienti per smorzare la freschezza e la tempra, che sapranno riservare belle sorprese in futuro. Il palato è riempito e appagato, per poi essere pulito dalla freschezza e dal tannino, rendendo la bocca pronta per un altro sorso. Ottimo in abbinamento a una quaglia ripiena.

C/o Vino.com: 9,90 €