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Aroma

Una dedica a Roma

A pochi passi dal Colosseo, con una vista impagabile sull’antica arena che da secoli testimonia la bellezza della capitale nel mondo, l’Hotel Palazzo Manfredi ospita il ristorante Aroma. Uno scenario privilegiato quello che si gode dalla terrazza dello stellato Michelin, ai piedi del quale si stendono il Ludus Magnus e, poco più in là, il Colosseo, tanto vicino che pare quasi di poterlo toccare. Al centro di cotanta “cornice” vi è una cucina di livello, che richiama gli avventori grazie all’intrinseca bontà dei suoi piatti oltre che per lo scenario idilliaco. Questa è guidata da chef Giuseppe Di Iorio, che alle spalle ha esperienze di spessore come quella all’Hyde Park Hotel di Londra e al Mirabelle di Roma. Una cucina di facile comprensione, la sua, adatta sia a rassicurare la clientela locale, sia a soddisfare gli assidui frequentatori internazionali, che nel piatto ricercano i sapori della tradizione. Una cucina contemporanea e ben eseguita, dunque, che diventa un punto di riferimento nella categoria della ristorazione d’hotel e accontenta tutti. Lo chef infatti propone tre menù degustazione e un menù “smart”, in ciascuno dei quali il cliente può personalizzare il proprio “percorso”, attingendo dai “piatti special” come la Entrecôte di wagyū, o dai piatti della tradizione, come la Carbonara “shakerata”.

Equilibri e tradizione

Una deliziosa sinfonia di amuse bouche apre le danze e introduce piatti in prevalenza contraddistinti da una suadente morbidezza. È il caso del risotto ai porcini e spugnole con petto, coscia e uovo di quaglia, ma anche della guancia di maiale iberico, cavolo nero e frutto della passione, nella quale si gioca con l’acidità del frutto e la sensazione amaricante donata dalla brassicacea. A chiudere il cerchio una variazione di cioccolato, mousse al fondente e gelato alla stracciatella, il comfort food per eccellenza. Si tratta dunque di una cucina che, come si diceva, gioca con gli equilibri senza tuttavia avvalersi di particolari slanci creativi. Una cucina che utilizza ingredienti, di prima scelta, tra i più blasonati, che chiaramente strizzano l’occhio a una dimensione più continentale, ma nella realtà dei fatti piacciono a tutti, locals e turisti. E il fatto che il ristorante sia “fully booked” per settimane ne rappresenta l’immediato riscontro. Il personale di sala è perfettamente allineato all’ambiente e fornisce un servizio attento e professionale ma mai ingessato. Il cliente così si sente coccolato, sotto ogni punto di vista. Dai piatti dalle sensazioni immediate, dal personale premuroso e dalla vista che può godere in quello che è uno dei contesti più fortunati della città eterna.

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Acciuga a Roma: povero, ma bello

Roma, nell’elegante quartiere delle Vittorie, incastonato fra gli studi radio-televisivi e quelli di professionisti e avvocati vari troviamo un piccolo ristorante che fa del pesce povero, o quantomeno non convenzionale, la sua caratteristica principale. La sala è immediatamente visibile dall’esterno grazie all’ampia vetrata, ma l’intimità del locale è salvaguardata dalla tranquillità della zona e della via poco trafficata. L’ambiente è piuttosto sobrio, con piacevoli tocchi di azzurro che ci fanno intuire l’anima della cucina, fortunatamente lasciando nei favolosi anni Settanta tutti i riferimenti marinari che tanto piacevano. Molto apprezzata la cucina a vista che permette di osservarne la pulizia e, soprattutto, l’abilità del personale nelle preparazioni. Queste si contraddistinguono per una presenza costante: il pesce povero, di piccole pezzature e sempre diverso, selezionato, arricchito e trasformato dalle sapienti mani di Federico Delmonte.

Vedo non vedo

La cosa che più ha suscitato il nostro interesse è la capacità dello chef di variare e dosare il proprio contributo in ogni piatto. Negli antipasti l’ingrediente, più che trasformato, viene coccolato ed esaltato senza snaturane o coprirne il gusto. In questo senso le capesante crude con salsa tartara e rapa marinata sono eccellenti; dalla perfetta consistenza e dolcezza i molluschi, esaltati e mai oscurati dalla delicata salsa e piacevolmente accompagnati dalla croccante rapa. Anche il carpaccio di lampuga segue lo stesso percorso; la decisione di lasciare il pesce volutamente più spesso è vincente e consente di assaporarne a pieno il gusto, ben bilanciato dall’olio di nocciola, e le diverse consistenze delle carni. Decisamente più evidente è invece la mano della cucina nelle linguine rotte; accompagnate da un sugo di brodetto alla fanese, ci offrono un piatto estremamente saporito, dal gusto deciso, ma mai acuto. È nei primi piatti che irrompe prepotente la tradizione marinara marchigiana in tutta la sua purezza e casalinghità.

Infine due parole sul dessert, che ci aspettavamo più in linea con la proposta confortevole delle portate salate: l’ardire di un dolce così spinto forse suona male all’interno di questo percorso e non si integra perfettamente. Adeguato, invece, l’accompagnamento di vini proposto, con la piacevole intrusione di un Pinot Nero ad accompagnare, egregiamente, l’intensità del nostro primo. Menzione speciale per l’ottima genziana artigianale proposta a fine pasto, incredibilmente amara e decisamente autentica.

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LievitiAMO

Mi si nota di più se vengo o se non vengo?” chiedeva Nanni Moretti. A poca distanza dal cinema di proprietà del regista, Pier Daniele Seu probabilmente risponderebbe la seconda, proponendo un impasto, protagonista indiscusso, così leggero da quasi sparire. Oggi non è più raro trovare proposte a lunga lievitazione o con farine particolari, ma il risultato che troviamo qui si distingue dalla concorrenza, perlomeno capitolina. 

Da Seu Pizza Illuminati, infatti, la pizza non è solo buona, è iconica, immediatamente riconoscibile. Come detto l’impasto è l’assoluto protagonista: lievitato alla perfezione; impercettibile al centro, dove lascia spazio ai condimenti senza, però, mai abbandonarsi alla mollezza; glorioso nell’inconfondibile cornicione che permette di assaporarlo in purezza. Colpisce la regolarità di forma, dimensione, condimenti; tutto è preciso al centimetro. Se il forno non fosse a vista si rischierebbe di pensare ad una produzione meccanica, quando invece è esclusivamente il frutto dell’esperienza e della precisione maturate grazie alle migliaia di pizze infornate negli anni.

Oltre alle bolle (da lievitazione) c’è di più

Non bisogna, però, commettere l’errore di pensare ad un mero esercizio di tecnica. I condimenti sono di primissimo livello e soddisfano sia gli amanti della tradizione che i più curiosi. La nostra Dop, una tradizionalissima margherita con bufala, era squisita, con un pomodoro incredibilmente dolce, impeccabile. Piacevole sorpresa della serata la S(E)UD: alici, provola affumicata e crema di olive sono minuziosamente distribuite e bilanciate, garantendo un gusto differente ad ogni boccone senza mai perdere l’equilibrio, anche grazie all’aiuto delle preziose zeste di limone. Fra i fritti proposti, tutti molto ben eseguiti ed asciutti, meritano una particolare menzione i supplì, il cui riso è così ben condito che risultano quasi fondenti. I dolci hanno margini di miglioramento; molto interessante il caramello al mandarino della “Brandino”; decisamente troppo dolce la “Non Margherita”. La scelta delle birre non è particolarmente ampia, ma le quattro spine, tutte provenienti dal birrificio Opus, consentono di trovare l’abbinamento necessario.  Quello che era considerato un enfant prodige della lievitazione romana è ormai una realtà affermata dalla forte identità; grazie a Pier Daniele Seu, alle porte di Trastevere, c’è un locale dove passare una piacevole serata fra amici, in compagnia di una pizza di altissima qualità.

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Da Imágo Andrea Antonini“serve l’Italia”

Una tale dichiarazione di intenti potrebbe apparire di primo acchito un po’ stentorea ma, se ascoltata alla fine di una cena al ristorante Imágo, da Andrea Antonini, trova assoluta congruità e pertinenza con quanto appena proposto dallo chef, anzi cuoco, come egli, con coerenza, preferisce definirsi. La lungimiranza di averlo scelto, da parte di Roberto Wirth, patron dell’Hassler, è stata notevole. Trattandosi di sostituire una figura importante come quella di Francesco Apreda, che per più di tre lustri aveva aggiunto, attraverso la ristorazione, ulteriore prestigio e notorietà all’hotel, la scelta da compiere appariva ardua e dal coefficiente di difficoltà piuttosto alto.

Una decisione presa nella primavera del 2019, quella di optare per lo chef che, al momento, collaborava con Enrico Crippa al sommo Piazza Duomo di Alba. Evidentemente il curriculum di Andrea Antonini, già da Quique Dacosta a Denia e al Celler de Can Roca a Girona, ma anche da Tetsuya a Sydney (dove per la prima volta è venuto a contatto con il fine dining), non deve essere passato inosservato. E giustamente, perché una sana e vera gavetta, meglio se praticata da mostri sacri della ristorazione, rappresenta una delle garanzie di maggior attendibilità.

E così da Imágo, in uno dei più bei salotti di Roma, già dotato di una squadra in sala di professionisti di ottimo livello coordinati da un gran padrone di casa come il navigatissimo Marco Amato, con Andrea Antonini Roberto Wirth ha optato per una scelta in discontinuità con lo stile precedente del ristorante, prediligendo una cucina determinata a celebrare esclusivamente il nostro paese, mettendone in rilievo ricchezza di varietà e abbondanza di materie prime.

L’amplificazione del gusto

Già gli amuse bouche ne sono adeguato biglietto da visita, rappresentativo di quello che è di là da venire, con la loro funzione di tracciare, in sintesi, la sensibilità gastronomica di Andrea Antonini. Una cucina in cui ingredienti e sapori sono ricercati ed esaltati attraverso preparazioni che sfruttano spesso e volentieri eterogenei accostamenti, come il surf and turf degli squisiti ravioli mari e monti, che non si risolvono affatto in un’unica modalità espressiva.

L’obiettivo, più in generale, è sempre l’amplificazione del gusto anche attraverso lo sfruttamento di ogni elemento nella sua interezza, come il sontuoso coniglio la cui maionese e le cui frattaglie contribuiscono a renderlo memorabile. Piccole chicche, poi, come il dischetto di popcorn e caramello salato, a testimoniare una padronanza tecnica a 360°, o l’insalata di cetriolo di mare con crema di riccio di mare, bergamotto e basilico costellano felicemente il menù manifestando anche la volontà di proporre tecniche moderne o materie prime più desuete anche in piccole preparazioni, riuscite e significative.

Da Imágo si sta, così, assai bene in una tavola che coniuga felicemente la bellezza estetica con quella gastronomica.

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Pizzarium, lì dove è iniziata la rivoluzione

Nel 2003, in una tranquilla strada del quartiere trionfale, ha aperto la pizzeria Pizzarium; non una semplice pizza al taglio, ma un vero e proprio laboratorio di innovazione da dove l’ormai celebre Gabriele Bonci ha fatto iniziare la sua personale rivoluzione. Dalla forza della farina, all’idratazione dell’impasto, Gabriele ha reso mainstream ciò che prima era appannaggio di pochi. Qui ingredienti di altissima qualità si mischiano con fantasia, regalando un prodotto originale che non ci stancheremmo mai di mangiare.

L’impasto è tutto, coccolato e accudito dagli esperti pizzaioli, con le sue alveolature rappresenta il punto di forza di questo locale e un marchio ormai inconfondibile; la pizza che ne deriva è alta, orgogliosamente rigonfia; soffice e quasi impercettibile la pasta, squisitamente croccante la base; un perfetto connubio sul quale far riposare i condimenti più disparati.

La pizza

Ma, unitamente alle ricette più tradizionali, troviamo proposte più particolari e moderne, che variano con la stagionalità dei prodotti e la fantasia dei pizzaioli, tanto che sarebbe possibile tornare per settimane trovando sempre nuove alternative.

Personalmente, ci ha conquistato la pizza funghi cardoncelli, cipolle e fior di latte, molto sfiziosa, con un particolare plauso alla marinatura leggermente agra delle cipolle. Sembra quasi dimenticarsi della sua origine in teglia la proposta di pizza, Fassona, cicoria, pomodoro e nocciole tostate: una soluzione più vicina al piatto del ristorante che alla pizzeria al taglio, tanto che non fossimo abituati alle sperimentazioni di Bonci potrebbe risultare sorprendentemente fuori contesto.

I puristi della pizza romana, nella città dove la pizza è per definizione bassa e scrocchiarella, potranno rimanere leggermente diffidenti rispetto all’impasto, ma i tranci alti, alveolati e croccanti offerti da Pizzarium sono veramente goduriosi, e trovare loro dei difetti è praticamente impossibile senza sfociare in atteggiamenti farisaici. Una piccola selezione di teglie tradizionali potrebbe rappresentare il giusto equilibrio, consentendo di conquistare anche i più nostalgici e mantenendo inalterato l’attuale format vincente.

…e il resto

Quanto al resto della proposta, il pane spazia dall’economica proposta per il buonissimo filone quotidiano, sempre e solo a lievitazione naturale, alle soluzioni più ricercate e particolari; l’offerta è però decisamente più ampia nel vicino panificio Bonci, dove possiamo trovare l’ottimo pane extracotto con la simpatica (e fanatica) scritta marchiata a fuoco.

Oltre ai lievitati, da Pizzarium, c’è però molto di più, come i fritti, che sono imperdibili. Ai tradizionali supplì, rigorosamente al telefono, seguono le ormai classiche declinazioni cacio e pepe e amatriciana, frittatine di pasta e altri sfizi come le polpette di bollito, che hanno fatto centro: l’eccellente frittura, asciutta e croccante, racchiude un ripieno morbido, umido al punto giusto e correttamente speziato. Il prezzo (4€ l’una), potrebbe essere rivisto al ribasso, ma dopo il primo morso è un aspetto che passa completamente in secondo piano. Apprezzato anche l’innovativo supplì di spaghetti, anche se il triangolo amoroso fra riso, sugo e mozzarella, resta ancora imbattibile.

Quella che era una piccola pizzeria di quartiere è ormai, insomma, il centro di un percorso evolutivo che ha portato la pizza di Bonci fino agli Stati Uniti; la qualità ed il gusto sono rimasti inalterati, chissà cosa potremo aspettarci per il futuro.

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