E’ noto come chi scrive di ristoranti, usurpi o meriti il pezzetto di fama che la vita gli ha riservato, viva sotto un fuoco amico di richieste di consigli da parte di conoscenti, zii acquisiti via internet ed ex fidanzati di biscugine dei propri compagni di liceo: un fenomeno inarginabile che il vero o presunto esperto affronta con l’entusiasmo con cui in genere va incontro ad un banchetto nuziale. Cercare di trovare per ogni area una risposta buona e pronta, per estorcere al richiedente quantomeno un gratificante “non ti si coglie mai impreparato” di rimando, è comunque un ottimo esercizio per astrarsi da tutte le perversioni gastronomiche e concentrarsi su ciò che un cliente non assiduo si aspetti da un grande ristorante.
Un bell’ambiente, per esempio, elegante ma non ingessato, intimo ma non claustrofobico; uno staff in grado di creare il giusto feeling con il cliente, defilato in caso di serata importante e complice con l’avventore alla ricerca dell’esperienza gastronomica; una cucina, infine, che fornisca solidi appigli, causando più capogiri che grattacapi a chi non ha la fortuna o la pazienza di sedersi frequentemente ad una tavola prestigiosa. Complice anche un rapporto qualità prezzo non proibitivo, in particolare in relazione al conto medio dei ristoranti della Capitale, la nostra risposta alla vexante quaestio è, nel caso di Roma: Pipero al Rex.
Il sodalizio avviato fra il mattatore di sala Alessandro Pipero, che a quarant’anni vanta già un incredibile palmarès di talent-scout, e Luciano Monosilio, talento di portata superiore al mero dato numerico, ha portato da subito successi ed allori nei locali dell’invero piuttosto anonimo Hotel Rex.
La carbonara (foto d’apertura) a peso, il Tavernello in carta a un euro, l’attività sui Social possono aver portato qualche cliente agli esordi ed aver costituito una sorta di operazione-simpatia, ma è proprio in una fase successiva all’apertura che il duo Pipero-Monosilio ha dimostrato le proprie capacità, sciogliendo ogni dubbio circa le intenzioni di dar vita ad un progetto credibile ad alto livello.
E se, in un primo momento, alla luce delle potenzialità dello chef, avevamo scelto di dare fiducia al locale concedendo qualcosa in termini di punteggio, ora possiamo affermare di aver visto bene da subito, dato che la valutazione di allora si è nel tempo consolidata ed è ora pienamente giustificata da piatti che, pur attingendo spesso alla tradizione più povera, vengono vestiti dell’abito della festa da una cucina precisa e attenta.
L’unico interrogativo che resta ora aperto riguarda gli ulteriori margini di miglioramento di una cucina che, pur compiendo quotidianamente autentici miracoli nell’insegnare le regole dell’alta società a piatti di così umili natali, rischia di precludersi traguardi ancora superiori crogiolandosi nei successi che questa linea ha permesso di conseguire. Non siamo però certi di augurarci che le cose cambino, poiché riteniamo che un locale con questa impostazione possa costituire per il neofita un’eccellente porta d’accesso per una ristorazione concettualmente più impegnativa e per il gourmet un’occasione per realizzare che un’ottima cena può (deve?) essere divertente, oltre che ghiotta.
Snack iniziali, notevoli per varietà e realizzazione: si inizia con lardo di patanegra e mosto cotto,
si prosegue con un’oliva ricostruita: sfera di oliva di Gaeta e caprino,
cialda di orecchie di maiale,
cialde soffiate di riso e alghe , miso e fiori
e neola con fegato di vitello e vino dolce.
Ottimamente governato nei contrasti è lo sgombro marinato al lime, rafano, wasabi e cipolle bruciate.
Di crippiana golosità (Monosilio ha del resto vissuto parte della propria formazione ad Alba) l’uovo con patata, nocciole e tè
Davvero notevole è la presa di maiale arancia e aglio, soprattutto per il ruolo rivestito da quest’ultimo elemento, dominato con classe.
Giù il cappello per i rigatoni broccoli e salsiccia, cremosi ed amalgamati ma dai sapori nitidamente percettibili.
Sella di agnello, alici e lamponi. Più convenzionale di ciò che promette.
Un’altra eccellente trovata: panino di tiramisù.
Chiusura ghiotta con il crumble, gelato alla nocciola, visciole sciroppate e cioccolato bianco.
Piccola pasticceria.
Notevolissimo il pane; su tutto la focaccia al limone.
Qualche bottiglia portata per l’occasione. La carta prevede comunque ottime alternative.
Negli ultimi anni la scena gastronomica romana si è dimostrata molto vivace, concentrandosi su due tipologie principali di locali. Molti sono i ristoranti in cui si è data grande importanza alla parte architettonica, replicando in maniera più o meno riuscita modelli di successo nati altrove, abbinandola con un’offerta di cucina tutto sommato in secondo piano anche se imbellettata con formule stereotipate per essere “alla moda” (km0; “naturale”; locale multifunzionale; cucina di strada); più rari, quelli in cui si è riusciti a proporre, in salsa nostrana, la stessa filosofia dei neobistrot d’oltralpe, cioè materie prime povere ma cucina non banale e capace di superare o reinterpretare in maniera non scontata tradizioni e territorio.
Quello che è mancato, con l’eccezione di alcuni grandi hotel meritori, sono tavole dove, davvero, incontrare degli “autori”, dei grandi chef fuori dal coro, capaci di far divertire anche gli avventori più smaliziati.
Per questo motivo, l’arrivo a Roma di Massimo Viglietti va salutato con sincero entusiasmo ed è, a nostro avviso, una delle migliori notizie di quest’anno.
In una cornice di eleganza decisamente retrò, spicca ancora più forte il contrasto con una cucina, viceversa, davvero mai vista, tanta è la personalità di uno chef che non si rifà a nessun altro. Un grado di originalità raro da trovare non solo nella capitale, che giustifica gli alti e bassi che, inevitabilmente, si sperimentano quando il livello di rischio è così alto.
Il menù degustazione, “wish you were here”, è, in ogni piatto, psichedelico, con contrasti, associazioni, nuance mai banali, mai già viste. Talvolta la costruzione si fa talmente complessa che ci si perde; in alcuni casi l’impiattamento (quasi mai bellissimo) richiede attenzione al commensale nella ricerca della combinazione migliore delle varie componenti. Mai, però, si cade nel déjà-vu, nella strizzata d’occhi ruffiana, men che meno nell’errore tecnico, perché la mano di Viglietti è sapiente.
Già folgorante è l’avvio: spinaci crudi, baccalà, foie gras d’anatra ed emulsione di balsamico. Un caleidoscopio che pare improbabile sulla carta e invece resta miracolosamente in equilibrio.
E gli altri piatti rischiano altrettanto, alcuni con grande successo (le cozze e fagioli), altri con meno fortuna (le polpettine di guancia, al cui equilibrio sarebbe indispensabile per ogni boccone il sapido brodetto di cottura servito però a parte, col consiglio di berlo alla fine) sempre però facendo pensare, spiazzando.
Anche sui dolci, personalità da vendere, e la banana con spugnole, meringa e gelato alle giuggiole vola dritto nell’empireo dei dessert dell’anno.
Spiace aver cenato in una sala desolantemente vuota, nella quale, peraltro, è possibile muoversi alla ricerca della bottiglia preferita, in un’offerta amplissima e prezzata in modo da far felici gli appassionati. Spaziando in un’offerta d’oltralpe ampia e non banale, si possono pescare chicche come il Nuit 1er cru 2006 di Prieuré-Roch che ci ha accompagnato (a 88 euro…) e anche le proposte italiane sono tante e non solo tra i nomi più noti, con grande profondità di millesimi.
Il voto è il risultato di una difficile media tra picchi anche superiori e qualche esito meno convincente, ed è soprattutto il riconoscimento di una statura di grande interprete cui si augura un meritato successo.
Gli amuse-bouche
Il pane, ineccepibile
Insalata di spinacio crudo, baccalà e foie gras d’anatra, emulsione di balsamico
Cozze al naturale, taccole, frutta secca e cioccolato a scaglie. Una riuscita fenomenale
Acciughe e agretti in frittura, robiola e marmellata di cedro, pomodorini alla bottarga, olio emulsionato al limone, riduzione di campari
Seppie saltate in padella con guanciale e olive, carciofo alla roma. Strizzata d’occhio al territorio, meno stimolante del resto della cena ma eseguita con perizia
Triglia in frittura, formaggio di capra, fave, piselli e asparagi. L’anarchia nel piatto; trova la sua quadratura, per noi, solo alla fine, quando finalmente mescoliamo tutti gli ingredienti nel piatto e nel contorno (spezie, funghi, peperone ecc.)
Polpettine di guancia di vitello impanate e fritte, peperoni gialli e rossi, sedano rapa e, a parte, brodetto di riduzione di cottura (indispensabile all’equilibrio soprattutto in termini di sapidità)
Dulcamara: cioccolato, olive e ricotta di bufala.
Banana con spugnole, meringa e gelato alle giuggiole: un colpo di genio, per un dolce memorabile.
Dall’estate del 2013 l’Enoteca La Torre, unica stella a brillare nel panorama gastronomico viterbese, ha colto l’occasione di un trasferimento nella città eterna.
La possibilità si è concretizzata grazie alla famiglia Fendi, che ha deciso di dotare il proprio residence di charme, “Villa Laetitia”, di un ristorante di adeguato livello.
La scelta è caduta sulla coppia Danilo Ciavattini, in cucina, e Luigi Picca in sala che, armi e bagagli, hanno trasferito un pezzo di Tuscia nel cuore di Roma.
L’ambiente qui gioca senz’altro un ruolo importante: una bellissima villa Liberty, affascinante location che, pur essendo in centro città, dà l’impressione al cliente di essere in una vera e propria bolla sospesa nel tempo.
La sala, infatti, e il bel giardino a essa prospiciente contribuiscono a calarsi piacevolmente in un’altra dimensione: l’arredamento, gli specchi, le luci, gli spazi tra i tavoli e lo stile impeccabile e un po’ formale del servizio sono assolutamente singolari in una città come Roma e rimandano a sensazioni già percepite, fatte le debite proporzioni, in grandi sale d’oltralpe.
L’anima della cucina si è mantenuta senz’altro territoriale e non potrebbe essere diversamente vista l’origine del ristorante e dello chef, entrambi legati a un luogo ricco culinariamente di carattere e personalità.
Il saggio proposito è stato quello di declinare con raffinatezza il radicato e sentito retaggio originale per meglio adattarlo a una clientela certamente più cosmopolita.
La tecnica e l’abilità allo chef, che ricordiamo essere stato già scelta di Pipero ad Albano laziale, certo non difettano, basti citare l’eccellente fattura dei ravioli di ricotta, la cottura dell’agnello o un piatto come la “patata interrata”, già signature dish in quel di Viterbo. Non si possono non notare però, in questo processo di adattamento a più lievi e moderni canoni gastronomici, alcune cadute che rendono altalenante l’andamento del degustazione provato.
In quest’ottica va letto, ad esempio, un piatto come il salmone, in cui la congenita grassezza delle carni non necessiterebbe di accompagnamenti altrettanto impegnativi come la pur buona maionese e il giro d’olio che chiude.
A latitare, più in generale, sembrano le contrapposizioni che, pur volenterosamente programmate nella composizione dei piatti, non riescono pienamente nel loro intento.
Nonostante anche i dolci, tranne il predessert, non siano stati particolarmente memorabili, si arrotonda per eccesso la valutazione, consapevoli delle indubbie capacità tecniche dello chef.
Mise en place.
Amuse-bouche 1: piccola cornucopia di ricotta ed erbe.
Amuse-bouche 2: pane di farina di segale, uova di coregone e panna acida.
Amuse-bouche 3: raviolo, olio di Blera e crema di asparagi. Buono forse, però, un filo più caldo sarebbe stato ancora meglio.
Salmone, maionese con uova di pesce di fiume, amaro d’erbe, rapa rossa. Il grasso del salmone si somma stucchevolmente a quello della maionese (e all’olio), la salsa non riesce a interrompere la calorica soluzione di continuità.
Creme brulèe di baccalà e cacao amaro. Anche qui il contrasto ricercato latita: il cacao, oltretutto dolciastro più che amaro, soccombe al cospetto di un baccalà peraltro di buona fattura.
Patata interrata (fuori menù). Una patata bollita, polvere di erbe di campo, funghi porcini, tartufo bianchetto, galletti saltati.
Tartara di manzo, fegato grasso marinato e affumicato, rape rosse, senape di Digione.
Ravioli di ricotta, scampi arrostiti, gocce di carciofi e bisque. Qui la bisque avrebbe dovuto essere più incisiva per esaltare dei ravioli davvero encomiabili.
Spaghetto con gambero rosso, midollo di bue, lavanda e limone.
Agnello in tre cotture: spalla stracotta, controfiletto e costola in padella, purè arrostito.
Filetto di manzo, purè di patate alle erbe
Predessert: fettuccine dolci, fatte con la pasta delle crepes, con ragù di frutti di bosco e gelato alla vaniglia.
Charlotte di fragole e mandorle, sorbetto di fragole. Un dessert abbastanza anonimo.
Tiramisù moderno: fetta di pane bagnata nell’orzo, crema di mascarpone, cialde al cioccolato, gelato al caffè. Una rivisitazione non particolarmente significativa.
Petit fours
Un’ottima bottiglia.
La sala…
Accanto a tanti improbabili e anonimi locali che, in un frenetico susseguirsi di aperture, animano la movida gastronomica romana, compaiono interessanti realtà ben più degne di attenzione, come questo piccolo bistrot, anch’esso di recente inaugurazione.
Lo stile adottato incarna i dettami parigini dell’offerta gastronomica più in auge nella ville lumière: menù vivaci, dal frequente avvicendamento, sensibili alla disponibilità del mercato (situato proprio di fronte al ristorante), all’utilizzo di materie prime diversamente nobili, legati all’estro e al buon senso degli chef e caratterizzati da prezzi contenuti in un ambiente informale e vibrante di giovanile passione.
Il termine piccolo, riferito agli spazi, è un eufemismo: all’entrata, uno spazio winebar davvero minimo offre, su qualche sgabello al bancone posto a fianco della cucina, l’occasione di scegliere oltre i piatti e i menù del ristorante anche golosi assaggi di street food con vini al bicchiere, mentre sul retro, con passaggio esterno attraverso un giardinetto ahimè aperto solo nei mesi più caldi, la vera e propria sala ristorante, minuscola e oblunga, con soli quattro-cinque tavoli.
La cucina è semplice, gustosa, comprensibile ed eseguita in modo impeccabile, riferendoci con questo non solo a cotture adeguate ma anche ad abbinamenti fatti con buon senso e attenzione.
Alcune preparazioni sono certamente perfettibili come la concentrazione del fondo vegetale e l’anodina presenza della patata allo zafferano nella triglia, ma altre, come lo squisito tataki di palamita o il calamaro con guanciale, rappresentano già piatti rodati e registrati.
Da non sottovalutare la possibilità di provare bottiglie non banali, nazionali e non, scelte con competenza pari alla validità espressa dalla cucina.
E’ un locale dove si sta bene, si spende il giusto e dove, soprattutto, ci si augura che la qualità della cucina cresca proporzionalmente al successo di pubblico che senz’altro merita.
Amuse-bouche: ricotta infornata, crema di sedano rapa e calamari.
Gamberi gobbi, rapa rossa e aceto tradizionale di Modena.
Tataki di palamita, crema di piselli e patate.
Baccalà, pil pil, crema di patate, rape, cipolle ed erbe spontanee.
Triglia, fondo vegetale, patata allo zafferano.
Spaghettone ostriche, bergamotto e ricci di mare.
Buon risotto con indivia, canocchie e pecorino (fuori menù).
Calamaro, guanciale, carciofi e crema di patate.
Lingotto di cioccolato bianco con ripieno di nocciola, pralinato alle mandorle con riso latte alla vaniglia e cialda agli agrumi con sale maldon.
Croque en bouche al pistacchio.
Uno champagne dosage zero degno di nota.
Un particolare e molto interessante chardonnay dello Jura.
Una coda di volpe super fermentato e macerato di Antonio di Gruttola.
Per chiudere in bellezza…
Il nome pagliaccio si narra sia in onore di un dipinto, regalato al cuoco da sua madre, che raffigura un pagliaccio, appunto. Simbolo per Anthony Genovese di stravaganza e originalità. Una leggera nota autobiografica traspare dalla citazione. A noi piace pensare che una fonte di ispirazione sia anche stata la famosa opera lirica di Ruggero Leoncavallo, che mostra un contraddittorio forte tra l’anima scanzonata della commedia e il dramma della realtà. A volte cruda, inaspettata, intensa e vibrante.
Tutti ben sanno che un clown, il pagliaccio, deve essere malinconico per essere un buon clown, e che per lui questa è una faccenda molto seria, è la sua vita. Il contrasto continuo tra la malinconica sensibilità e l’eterna vibrazione di sofferenza fa si che un clown assurga a grande, immenso interprete dell’antitesi, dell’opposto, del sorriso e dello scherno. Immerso in una laconica ed avvolgente tristezza.
Proprio questo combattimento continuo, questa tensione opposta, questa vibrazione cangiante abbiamo scorto nella cucina di questo grande interprete: Anthony Genovese.
Una cucina composta di moltissimi ingredienti, quasi apparentemente caotica, ma che trova un filo conduttore netto, preciso e personale al termine del percorso. La complessità dona ai piatti lunghezza gustativa quasi sorprendente, a tratti spiazzante. Perché tutto ci si aspetta fuorché precisione, rigore, linearità gustativa. Ed invece la cucina di Genovese è un tripudio di personalità, di note speziate, di oriente ma anche di occidente (romano francese) e di una costante deriva dolce che è la timbrica connotante del suo percorso.
L’anno scorso visitammo il Pagliaccio e rimanemmo perplessi di fronte ad alcuni passaggi che non ci parevano nelle sue corde, scomposti, fuori contesto per quel luogo e per quella cucina. Forse tentando di adottare uno stile non suo, una cucina lontana dal suo istinto e dal suo pensiero, Genovese ha rischiato di appiattirsi su toni, quelli dolci, e su tonalità che non gli sono proprie. Rischiando l’anonimato.
Anthony Genovese deve osare, deve mixare sapientemente le spezie come solo lui sa fare, deve complicare un piatto con tanti ingredienti, quelli a lui fondamentali, che riconducono il percorso all’impronta caratteristica della sua cucina, la cucina del Pagliaccio.
Un paio di esempi eclatanti? Scampo croccante, acqua di melanzane, crema di peperone e lampone, in cui il brodo di melanzana affumicata, accompagnata da spaghetti soba, è l’emblema dell’umami nippo-italiano fatto a persona, con la firma dello chef. Lo scampo fritto alla perfezione, non unto ma croccante e suadente, accompagnato da un potpourri di spezie e ingredienti che lo completavano magnificamente.
O ancora i Dim alla piastra, gamberi bianchi, coda di bue croccante, altro emblema di contaminazione romano-orientale sapientemente interpretata.
E poi tanti altri, la faraona, l’agnello, senza dimenticare un piatto di pasta che assurge ad alta, altissima cucina nel paradigmatico Spaghetti olio e peperoncino, lumachine di mare, con tocchi orientali evidenti che rendono elegante e raffinato il carboidrato.
Questa è la cucina che desideriamo trovare al Pagliaccio, personale, istintiva, del cuore. Profonda, appagante, golosa ma anche molto raffinata. E con quel pizzico di malinconica sensibilità che pervade ogni piatto.
In sala un gruppo giovane, motivato ed eccezionalmente preparato tra cui ci piace ricordare Gennaro Buono e Matteo Zappile, l’uno Maitre e l’altro Sommelier, grandiosi interpreti e co-protagonisti di questa fantastica, grottesca e mirabolante commedia che ogni giorno va in scena qui, a via dei banchi vecchi 129, a Roma.
Ottimi e vari amuse bouche, già sul timbro caratteristico della cucina:
Carciofo con crema di burro di cacao all’olio d’oliva
Crema di asparagi con spuma di speck e semi di papavero
Anguilla affimicata con composta di cocco
Panino al vapore con glassa al pomodoro
Polpetta di nasello con mango e tofu
Ala di pollo con salsa tandori
Capesante, acqua di carciofi, alga kombu e grano (foto di apertura).
Scampo croccante, acqua di melanzane, crema di peperone e lampone.
L’ottimo brodo di melanzana affumicata e soba in accompagnamento.
Seppia alla griglia, asparagi e uovo al tè nero.
Spaghetti olio e peperoncino, lumachine di mare.
Dim alla piastra, gamberi bianchi, coda di bue croccante.
San Pietro, crema d’orzo, cipollotto e olio al caffè.
Faraona, tè Earl Grey, spinaci e cetrioli.
Agnello, scorzanera, crumble al cacao.
Barretta di gelato al “caramelia”, crumble di ovomaltine e more.
La fantastica ed elegante piccola pasticceria…
…e i nostri compagni di viaggio