Cristina Bowerman e Fabio Spada formano un binomio protagonista della ristorazione di qualità romana da diversi anni.
Partendo, appunto, da Glass, le loro capacità e la loro verve hanno donato alla città Romeo, uno degli spazi contemporanei che meglio hanno coniugato qualità dell’offerta e architettura contemporanea, e la recente avventura nello street food di Cups, al mercato Testaccio.
E’ comunque Glass l’ammiraglia, il ristorante gastronomico che dall’apertura oltre dieci anni fa ha sfidato le convenzioni trasteverine come un’installazione postmoderna, ancor oggi attualissima nel design, come succede solo quando si progetta con buon gusto e intelligenza.
Si entra da Glass e si viene accolti da una location in cui vetro, legno e pietra si fondono per dare una sensazione calda e pulita insieme e predispongono, con il sorriso del personale, a provare le novità della cucina di questa chef di grande personalità.
Spiace dire che la nostra cena di quest’anno, però, ha registrato diversi momenti meno esaltanti, intervallati da passaggi più riusciti, quasi sempre, questi ultimi, nei piatti meno complessi, nei quali la tecnica si esprime con pienezza.
Infatti, intendiamoci, le preparazioni sono indiscutibili sul versante delle cotture, delle temperature, della tecnica, insomma, segno di una padronanza e maturità ormai conclamate, ma in più di un caso abbiamo registrato una costruzione fin troppo stratificata. Molti ingredienti, figli di cucine diverse e amate dalla chef, dal Medio all’Estremo Oriente, uniti ad altri più vicini alla nostra tradizione, ma che non sempre si armonizzano, con il rischio talvolta di non esaltare le componenti principali del piatto.
Se ci ha pienamente convinto il piccione con frutti di bosco, gastrique e polvere di burro di arachidi, meno convincente è stato lo scampo con cavolfiore in tre versioni e brodo di crostacei, nel complesso un po’ pasticciato e con lo scampo decisamente in secondo piano.
Così come ai secondi, piuttosto riusciti, soprattutto l’agnello al sumac, hanno fatto da contraltare due primi decisamente meno soddisfacenti: risotto, troppo liquido, unico passaggio rivedibile anche nell’esecuzione, e linguine cotte in acqua di peperone, in cui il coulis dello stesso domina perfino sulla bottarga.
Nel reparto dessert, interessante il frangipane con ciliegie e maionese di cioccolato bianco e wasabi, anche se il frangipane potrebbe essere di consistenza più leggera; decisamente meno felice il cioccolato bianco, thé matcha, caffè e kiwi, un assemblaggio di gusti e consistenze piuttosto mal riuscito, che non rende giustizia al livello complessivo della cucina.
Carta dei vini che si è allargata e arricchita negli anni e offre un bel panorama italico, giustamente prezzato. Nelle capatine oltralpe, una bella proposta di Borgogna, solo rossa, e Germania. Nostra culpa l’aver scelto dalla bella selezione un kabinett di Willy Schaeffer che, pur elegante come sempre nei vini di questo storico produttore, presenta un residuo zuccherino davvero troppo elevato per accompagnare il pasto.
La colorata apertura.
Avocado, miso e yuzu: interessante amuse bouche, in cui avremmo gradito una presenza ancora più incisiva dell’agrume.
Diverse tipologie di pane, non tutte imperdibili.
Piccione, frutti di bosco, gastrique e polvere di burro d’arachidi: il miglior piatto della serata.
Scampo un po’ sacrificato in compagnia del cavolfiore. Molto intenso ma elegante il brodo di crostacei in accompagnamento.
Un ottimo vino, poco adatto però ad accompagnare il menù. Nostra culpa.
Linguine cotte in acqua di peperone, alici del Cantabrico, bottarga all’Armagnac, coriandolo fresco e limone candito.
Risotto Acquerello porri fondenti, ostrica polvere di capperi e crème fraîche.
Agnello al sumac, carote stilton e polline di finocchietto.
Carbonaro, salsa al bonito e scorzonera.
Frangipane, ciliege, maionese di cioccolato bianco e wasabi.
Cioccolato bianco, the verde matcha, caffè e kiwi.
E’ sempre un grande piacere salire la scala, celata dietro la mitica porta rossa, che porta ai tavoli di questo bellissimo ristorante romano.
L’abilità che ha permesso ad Antonello Colonna di diventare un classico, grazie alla costanza che da sempre caratterizza il suo desco, unita al grande merito di aver sdoganato la cucina territoriale laziale rivisitandola e puntando su leggerezza ed eleganza formale, rendono questa splendida terrazza, interamente circondata dal vetro nel cuore del palazzo delle esposizioni, un appuntamento imperdibile per chiunque voglia regalarsi a Roma una serata all’insegna dell’estetica gastronomica.
Il comfort potrà essere suggellato in modo rilevante dalla istrionica presenza del vulcanico patron che al tavolo saprà, di volta in volta, consigliarvi per il meglio o affabularvi piacevolmente con progetti e didattici aneddoti, oltre che da un servizio solerte ed impeccabile coordinato con efficacia e understatement da Andrea Colonna, figlio dello chef.
Ormai ci troviamo davanti a un classico, capace di traghettare per primo nell’alta cucina ricette e ingredienti già pietre miliari di un territorio e di una storia fortemente sentiti.
Esempio di cui molti epigoni, con maggiore o minore successo, si sono avvalsi a partire dalle intuizioni che lui ha avuto venti e più anni fa.
Da lungo tempo lo chef divide la sua attività tra vari impegni, riuscendo comunque a mantenere un livello qualitativo elevato che non dissimula però, col trascorrere del tempo, un certo impasse nell’offerta, quasi un rallentamento che mal si addice alla sua ingegnosa vitalità.
Consolidare il proprio stile, frutto di anni di laborioso impegno, è pregio degno di grande considerazione; arricchirlo adeguatamente di nuovi stimoli sarebbe merito ancor maggiore e oggetto, eventualmente, di doverosa ammirazione.
La sensazione è che ci sia fermati a metà del guado, e che tutto ciò che potenzialmente era in divenire sia ora cristallizzato in una pausa, che ne rappresenta la condizione attuale.
Squisita la carbonara 2.0, ma francamente eccessiva è apparsa la salsa a specchio di pecorino che completa la corrispondente matriciana 2.0, riguardo alla quale, pur non essendo dei puristi, è impossibile non notare che il cacio ne dovrebbe rappresentare il corredo, e non l’elemento principale.
Allo stesso modo, alle squisite animelle con accattivante nuance al vermouth, che ne stempera l’importante grassezza, fa da contraltare il monocorde risotto, peraltro ben cotto, in cui la bottarga non crea l’auspicato contrasto o, ancora, alla tatin eseguita a regola d’arte fa seguito il fiordilatte al mascarpone, buono ma un po’ stucchevole, causa laccatura al limone che non incide come avrebbe dovuto e potuto.
Sono annotazioni queste che, comunque, non sminuiscono il valore generale di un indirizzo che a Roma rappresenta una vera e propria istituzione, affermatasi nel corso degli anni e depositaria di una meritatissima fama.
Amuse-bouche.
Vellutata di lenticchie e guancia di rana pescatrice.
Pane.
Hamburger di gamberi, bisque di crostacei e uovo marinato.
Animelle rosolate, salsa al vermouth e nocciole.
Negativo 2.0 di carbonara.
Risotto con brandade di baccalà, salsa pil pil e bottarga di tonno.
Negativo 2.0 di matriciana.
Tournedos di agnello.
Filetto di maiale, fegatelli e zucca in agrodolce.
Maialino croccante, patata affumicata e mostarda.
Predessert: cioccolato bianco, pasta sablèe e basilico.
Immancabile diplomatico crema e cioccolato con caramello al sale.
Soufflèe con gelato alla vaniglia e cioccolato.
Fiordilatte al mascarpone laccato al limone con coulis al lampone.
Tatin di mele con gelato alla cannella.
Lampone e cioccolato….
Petit fours.
Un gran Champagne.
La sottostante terrazza per i brunch.
La -davvero mitica- porta rossa.
“La tradizione” di Roma è uno di quei luoghi che sarebbe riduttivo definire facendo ricorso alle categorie di salsamenteria o salumeria.
Non perché non lo sia, piuttosto perché ormai il locale, di ultratrentennale notorietà, fondato da due appassionati come il duo Fantini&Belli, rappresenta uno dei poli di riferimento gastronomico tout court cittadini.
Le ricercate delizie rivendute in questo piccolo antro di succulenze godono infatti di una meritata fama che oltrepassa di gran lunga il quartiere Prati, dove esso risiede.
La nuova e lungimirante dirigenza del locale ha deciso, saggiamente, di diversificare l’offerta, ispirandosi ad un fortunato format, felicemente già adoperato in città dall’altrettanto rinomata famiglia Roscioli: associare alla vendita al dettaglio un luogo dove gustare le stesse prelibatezze, inserite in un adeguato menù.
A qualche decina di metri dalla rivendita ecco, dallo scorso novembre, l’apertura di “Secondo Tradizione” un informale bistrot dislocato su due piani che assolve efficacemente al compito assegnato.
Colpiscono, scorrendo la carta, le molteplici combinazioni che permettono di assaggiare la rinomata varietà di salumi e i formaggi della casa madre, tutti selezionatissimi, di grande qualità e divisi per origine e tipologia.
Accanto a questa interessante opportunità è presente un elenco di pietanze di matrice tradizionale, che si pongono con semplicità al servizio della materia prima.
L’accuratezza delle preparazioni e la loro riuscita sono già di livello e in alcuni casi, come l’amatriciana e la supreme di pollo, davvero buone, mentre in altri, come gli spaghettoni, con baccalà eccessivamente mantecato, decisamente perfettibili.
Il servizio volenteroso e in fase di rodaggio evidenzia le proprie difficoltà soprattutto nelle tempistiche nella saletta superiore, già oltremodo rumorosa e dalla temperatura eccessiva per l’inappropriata concentrazione di tavoli.
Roma non è stata costruita in un giorno, figuriamoci, i margini per ottimizzare questa recente e interessante risorsa ci sono davvero tutti.
Zuppa di cipolle e Comtè.
Pane umbro.
Spaghetto all’amatriciana.
Spaghettoni con baccalà mantecato e peperoni cruschi.
Petto d’anatra con salsa d’arancia e purè allo zafferano.
Supreme di pollo con sedano rapa.
Onesta coppa di crema mascarpone con cantucci alla birra scura.
La scelta del vino.
Mise en place.
L’attesa è stata lunga perché, per prenotare da queste parti, bisogna davvero mettercisi d’impegno.
Colpevoli qualche riga trovata in rete qui e là, e qualche foto ammiccante di takoyaki (a Roma? ma davvero?), ogni volta che avevamo telefonato cercando un tavolo eravamo stati cortesemente rimbalzati.
Poi, un fortunato giovedì, abbiamo avuto più fortuna e siamo arrivati in questa strada stranamente poco modaiola del Pigneto, davanti alla porta di una palestra dall’aspetto tutt’altro che glamorous. Suonato il campanello, varcata la soglia, con quella semplicità con cui accade in Giappone ci siamo ritrovati in un piccolo angolo di pace.
Niente di sfarzoso, in fondo a un’anonima palestra di periferia, eppure con una sensazione di vero, di visto solo negli izakaya o nei ramen bar nipponici, che faceva sperare bene.
Nella cucina a vista una sola persona, italiana, e in sala un solo cameriere, italiano anche lui, anche se con dei modi timidi e cortesi non così frequenti qui da noi.
Il cuoco, Maurizio, esperto di cultura giapponese (dottore di ricerca in lingua, traduttore di manga, istruttore di karate), ha imparato sul campo, dallo zio di sua moglie Miwako -cuoca a sua volta- e ha deciso di creare a Roma un posto dove mettersi a proprio agio, e sperimentare quello che si mangia mediamente nella versione nipponica di una nostrana osteria.
Niente sushi, sashimi e altri piatti ormai “nobili” e spazio a ramen e udon, okonomiyaki e, appunto (ma solo a pranzo e il sabato sera) takoyaki, da accompagnare a una piccola ma curata selezione di sake o di tè.
L’anomalia, rispetto all’offerta tipica dalle nostre parti, è che qui si bada molto al sodo; apparecchiatura semplice, musica rock occidentale (come normalissimo nei locali giapponesi dello stesso tipo), poca scelta in carta, ma tutto saporito, cucinato con precisione e rispetto, senza scorciatoie e strizzatine d’occhio al palato occidentale.
Carta breve, abbiamo detto, in cui abbiamo potuto spaziare per bene: dai gyoza, al classico ramen, ai curry udon, tutto impeccabile, con i noodle gustosi e freschi, i brodi saporiti e mai pesanti.
Menzione d’onore per l’okonomiyaki, golosissimo ma non greve, che dà la misura della mano sapiente nella semplicità.
Alla parte dolce, riletture dei classici occidentali come frequente nei ramen bar autentici: particolarmente ben riuscita quella del tiramisù con azuki e tè verde. Tutt’altro che stucchevole, con un bel contrasto di consistenze, si sposa benissimo con un onesto umeshu, il liquore di prugne che chiude con delicata dolcezza una cena davvero gradevole.
Inutile dire che una serata così va chiusa alla maniera giapponese: prenotando la prossima visita subito dopo aver pagato il conto.
Gyoza impeccabili.
Ottimo saké, da una piccola ma curata selezione.
Melanzane.
Pancia di maiale.
Takoyaki, buonissimi. Per provarli, passare a pranzo o il sabato a cena.
Classico ramen.
Okonomiyaki.
Curry Udon.
Tiramisu al té matcha.
Cheese cake al té matcha.
Delicato liquore alle prugne.
L’ingresso, che cela abilmente questo piccolo tesoro.
Non si parlerà mai abbastanza dei Fratelli Roscioli.
Del loro successo imprenditoriale, delle loro scelte illuminate, anticipando ogni tendenza nel campo della ristorazione, della qualità che riescono a raggiungere e mantenere giorno dopo giorno.
Un panificio che è semplicemente uno dei migliori d’Italia.
E poi la salumeria Roscioli, locale modernissimo, davvero cosmopolita, eppure italiano fino al midollo.
Una formula che non ha lasciato spazio a superficialità, che ha curato ogni dettaglio per mettere d’accordo tutti, tanto il gourmet quanto il cliente comune, per fare grandi numeri e grandi incassi pur mantenendo un livello qualitativo altissimo.
Parliamo di sala, ad esempio. Quanti ristoranti in Italia si possono permettere di tenere due professionisti del livello di Valerio Capriotti e Maurizio Paparello? Rispondiamo noi: pochissimi.
In quanti altri locali si possono fare più di 100 coperti a sera con questi standard?
Dove avere il non plus ultra in tema di formaggi e salumi e poi ritrovare in carta una pasta burro e parmigiano da commozione? Che coraggio, che convinzione nei propri mezzi ci vuole per mettere in menù una pasta in bianco così?
Questo per sottolineare che Roscioli non è solo selezione di ingredienti, il “manico” in cucina non manca e si dimostra soprattutto nei primi piatti (non è un mistero che la carbonara Roscioli sia considerata una delle migliori). Merito di Nabil Hadj Hassen, il cuoco della corazzata di via dei Giubbonari.
Amore per la semplicità, sempre e comunque.
Si potrebbe obiettare che tutto questo ha un costo, molto (a volte troppo) elevato: ma è il mercato che fa il prezzo, e qui, lo abbiamo già sottolineato, non si bada a spese per rifinire i dettagli.
Ecco, se proprio dovessimo dare un segnale, ci piacerebbe che la stupenda carta dei vini mostrasse dei ricarichi più bassi, anche nella logica del tipo di locale in cui ci si trova: che meraviglia sarebbe poter cenare accompagnando queste stupende portate con una delle grandi bottiglie presenti nella sterminata cantina? Ci piacerebbe una carta vini che invogliasse a stappare anche cose importanti, una di quelle in cui l’appassionato si getterebbe a capofitto.
Dettagli che renderebbero il quadro perfetto.
Intanto qui si procede a passo velocissimo: Roscioli continua ad essere il locale da non mancare mai, per nessun motivo, in caso di vacanza romana.
Divertimento assicurato.
Prosciutto di manzo asturiano “Cecina de Leon”condito con olio extra vergine, limone e pepe di Sarawak.
Joselito Gran Riserva.
Culatello Spigaroli, Pancetta di Grigio del Casentino, salame di cinta senese, lonza di Noire de Bigorre, lombetto di Sauris.
Di più non sapremmo…
Mortadella, riccioli di Parmigiano vacche rosse 36 mesi e cialda di pane croccante.
La burrata pugliese con le alici del mar Cantabrico R. Peña.
La mozzarella di bufala con pomodorini semisecchi di Pachino.
Salmone: norvegese affumicato con frassino, leggermente marinato con aneto.
Burro e Parmigiano: rigatone con burro echirè “demi-sel”, Parmigiano di vacche rosse 36 mesi e Parmigiano di bruna alpina 30 mesi.
La carbonara: spaghettone con guanciale artigianale, pepe nero malesiano, uova di Paolo Parisi e Pecorino romano dop.
Le polpette della tradizione romana: polpette di carne con pomodoro, riccioli di ricotta fresca affumicata e polentina di castagne (50% farina di semola e 50% farina di castagne)
Formaggio Testun. Paradiso.
Tarte Tatin e gelato alla vaniglia
Il fantastico panettone cioccolato e pere del forno Roscioli.
Chiusura.
I vini proposti da Valerio Capriotti: