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Il Desco

Alle volte i pregiudizi sono un freno alle piacevoli scoperte. Perché di Elia Rizzo e del Desco si sente ormai parlare ben poco. Fuori dai riflettori, fuori dalle scene e dai palcoscenici mediatici. Forse semplicemente là dove dovrebbe stare, cioé in cucina e in sala, ad allietare i propri clienti, che sono molti a giudicare da quello che abbiamo trovato nella nostra visita di una sera di fine estate e che affollano la sua incantevole sala nello stupendo palazzo quattrocentesco situato nel centro di Verona.
C’è l’Arena che aspetta questi facoltosi clienti, in prevalenza russi, e noi, con sorpresa, rimaniamo quasi gli unici clienti dalle 21 in poi.
Ci siamo approcciati senza aspettative a una cucina che ci ha piacevolmente sorpreso: tecnica quanto basta, molto lineare, golosa e raffinata. Un ristorante classico con la R maiuscola in cui ogni preparazione non ha fallito, tutte erano millimetricamente perfette nelle cotture, nella finezza delle salse, nella definizione dei sapori. Forse solo un po’ smorzati e arrotondati sul dolce, ma con mano elegante ed equilibrata. Come probabilmente desidera la clientela di oggi, che sicuramente si alza soddisfatta dopo una cena a questi tavoli. Forse l’unico pensiero che vi assalirà è al momento del conto, elevato ma comunque adeguato al contesto e al blasone del locale.
Una cucina quella di Elia Rizzo che trova l’apice in quegli gnocchi, di una sofficità imbarazzante, cotti al vapore e con pochissima farina, conditi con una lieve salsa alle trippette di baccalà e olive. Semplicità sì, ma senso delle proporzioni, delle consistenze e del gusto hanno trasformato un piatto apparentemente banale e quasi difficile nella rincorsa all’equilibrio in una preparazione d’alta scuola, golosa, delicata e raffinata. L’equilibrio, sì, stupisce. A dispetto di chi del Desco e di Elia Rizzo non parla, o ne parla come di un luogo in decadenza.
Il nostro pasto è forse stato lievemente sotto la valutazione che gli assegniamo, ma riteniamo che la capacità espressa faccia comprendere chiaramente come questo locale e il suo chef non possano essere collocati in una categoria differente da questa. Anche in una sera di fine estate, che forse non è neppure il periodo migliore per questo ristorante e per l’espressione della sua cucina.
Il servizio infine, attento e premuroso, è gestito direttamente dallo chef e dai suoi più stretti collaboratori in maniera armoniosa, delicata e precisa.
Una cantina interessante, in cui se saprete scrutare con attenzione potrete scorgere qualche chicca d’epoca a prezzi decisamente buoni, completerà la vostra lieta serata in questo luogo piacevole, raffinato, elegante, concreto.

Inizio con un elegante crema di finferli e polipetti.
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Battuta di gamberi crudi con latte di cocco ed erbette aromatiche.
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Millefoglie di baccalà mantecato e astice in salsa d’astice.
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Cannoli croccanti ripieni di burrata con sorbetto di pomodoro e cetriolo.
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Un ottimo compagno…
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Coda di rospo con animelle agrodolci e crema di topinambur.
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Petto d’anatra con salsa aromatizzata alla grappa, uva e purè di melanzane.
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Piccola pasticceria.
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Diverse temperature e consistenze di nocciola, mandorla, cacao, sesamo, pistacchio e olive nere (purtroppo già iniziato…).
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Granita di anguria con mousse di cioccolato bianco e rhum.
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Torta ganache al cioccolato e polvere di barbabietola.
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L’altro compagno 30enne…
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Citare Il Palma di Alassio o Massimo Viglietti significa semplicemente affermare la stessa cosa: mai un’identificazione tra un ristorante e il proprio chef è stata in pratica così perfetta. Sospettiamo anzi che sulla carta d’identità del Viglietti sia riportato il nome del ristorante e non il suo appellativo anagrafico.
Questo a testimonianza della sua grande personalità.
Non tragga in inganno l’aspetto austero, vecchio stile, del Palma, classe 1922, ospitato in una delle stradine nel pieno centro di Alassio: lo stile di cucina che si trova all’interno non ha nulla di tradizionale o classico.
Nella prima sala è possibile ambientarsi consultando i due menù degustazione presenti, quello lungo e quello più breve, sorseggiando magari con calma un aperitivo, abitudine che il ristorante ha mutuato, precursore dei tempi, dai ristoranti d’oltralpe; mentre nella seconda sala, in studiata penombra anche in pieno giorno, ci si accomoda contemplando un arredamento dove nulla, e diciamo nulla, è lasciato al caso, e dove tanti piccoli particolari sono segnali del tipo di esperienza che si andrà a vivere.
La storia del ristorante è lunga, certamente gloriosa, ma vive oggi una fase di riflusso: la realtà italiana in generale, e quella di Alassio in particolare, non sembrano essere il terreno di coltura ideale per la ricezione e la diffusione dello stile gastronomico di uno chef simile.
Un vero peccato, perché ci troviamo di fronte a una tavola tutt’altro che anonima, con una cucina mai accomodante, che fa della ricercatezza, della capacità di stimolare, di essere in continua tensione e dell’anticonformismo, le sue chiavi di lettura più interessanti.
Il carattere dello chef, in questo caso, non può essere considerato un semplice elemento accessorio, bensì il vero e proprio protagonista di un’esperienza gastronomica che è filtrata attraverso idee, cultura e sensibilità.
Il territorio, occitano e ponentino com’è definito dallo stesso Viglietti, è solo il punto di partenza che sa anche arricchirsi d’inflessioni piemontesi e provenzali. Tramite allusioni, commistioni e un pizzico di trasgressività, lo chef crea pietanze che trovano nell’assoluta originalità il proprio minimo comun denominatore.
Certo, gli intenti non sempre sono coronati da successo, alcune volte qualche elemento sembra essere in eccesso, altre volte un fallito gioco di consistenze può lasciare perplessi, ma siamo sempre di fronte ad una cucina pulita ed essenziale, misurata nel numero d’ingredienti, capace di spunti di valore assoluto.
Molti gli esempi: le lenticchie, il sugarello, il midollo oppure la riuscitissima mousse di limone, bottarga e gelatina di Campari.
Una cucina a volte spiazzante, perché obbliga a soffermarsi un attimo, a sospendere le proprie certezze, a cercare di capire prima, durante e dopo l’assaggio. Ma proprio per questo avvincente, sia per il gourmet, sia per chiunque voglia approcciare un’esperienza non banale e desideri la ludica complicità di uno chef che profonde nel proprio lavoro infinita passione.
E Dio solo sa quanto siamo sensibili alla passione.

Interno
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Singolare, o forse solo coerente, mise en place.
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Focaccia bianca, alle olive taggiasche, alle cipolle ed erbette.
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Influenze leggere di piemonte e provenza: insalata di nervetti, stracchino, squisita cipolla brasata alla lavanda, saba (aceto balsamico, fichi secchi, olio di oliva). Molto buona, anche se alla fine la freschezza risente dell’eccessiva presenza del formaggio.
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Dentice marinato, asparagi crudi, passata di fragole all’acetosella (al naturale, niente limone olio, sale) ovvero: morbidezza e freschezza in un piatto che volutamente non mette il pesce al centro dell’attenzione.
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Posate di tendenza (Daniele Ardissone). Per una volta estetica e funzionalità si sposano.
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Non è di Paolo Parisi: uovo strapazzato, gambero, infusione di crescione. Passaggio più semplice ed elegantemente goloso.
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Crema di mozzarella di bufala, cozze aperte al naturale, terrina di trippa, riduzione di caffè. Piatto vivace con ingredienti che si rincorrono senza trovare mai una stasi. Alla fine, tirando le somme, prevalgono un po’ le note dolci.
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Nasello cotto al vapore nel bamboo con parmentier al Laphroaig (molto presente), corn flakes croccanti (sulla falsariga del texture del fish and chips). Tecnica, conoscenza ed esecuzione in un piatto evocativo più in teoria che in pratica. Comunque molto buono.
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Lenticchie di Puy croccanti, cotte in acqua, sugarello battuto al coltello (niente succhi o altro) e midollo. Gusto amplificato al massimo. Gran piatto.
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Acciughe fritte con robiola, salsa di pan di spezie (fiori d’arancio, miele, anice stellato, cannella, pinoli e uvetta). Molto riuscito. In questo caso il formaggio è calibrato alla perfezione.
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Pastina con passata di pomodoro e arancio, pan grattato alle erbe, tagliatella di seppia. Qui l’intento è quello di dare un contrappunto cremoso alla masticabilità della seppia. L’azzardata strada scelta è quella di una pasta, anzi pastina, volutamente scotta, che non ha convinto appieno.
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Mousse di limone, bottarga e riduzione di campari. Acido, grasso, umami, amaro, mirabilmente fusi. Gran dessert.
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In giardino. Inno alla maggiorana. Crema pasticcera alla maggiorana, biscotto al cioccolato misto a crumble. Qui, forse, paradossalmente, un pizzico di maggiorana in più non avrebbe nuociuto, ma, come dice lo chef, il piatto gourmand trova l’appagamento in sé, quello gourmet tende sempre verso qualcosa.
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Un considerevole de Battè selezionato dallo chef.
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Altra scelta dello chef, meno significativa della prima, ma ugualmente soddisfacente.
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Altro curioso particolare.
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Salottino sociale.
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Alassio tra una cabina e l’altra…
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C’è confusione sui navigli. Una zona urbana in cui, tra bar e pub che sfoderano happy hour a cinque euro, paninari ed etnici “all you can eat”, l’eccellenza gastronomica non è proprio di casa.
A fare giustizia nella movida notturna, regalando a Milano e alla fazione cittadina dei gourmet una valida alternativa al nulla, c’ha pensato la vena imprenditoriale e vincente della signora Maida Mercuri, proprietaria e oste dell’ormai celebre Pont de Ferr, al tempo talent scout di quel bravo e simpatico chef uruguagio che è Matias Perdomo, l’anima creativa di questo nuovo progetto.
Il loro Rebelot (che in dialetto lombardo è sinonimo di “confusione”) è un locale che punta a reinventare, in chiave evolutiva, l’ormai approssimativo aperitivo milanese (che spesso si protrae fino alla cena), missione questa che, a poco più di un mese dall’apertura, sembra già vinta col pienone che si registra ogni sera.
Gli ingredienti vincenti sono ormai quelli più ricorrenti nella nuova ondata di locali cittadini: grandi numeri, location strategiche e costi contenuti. Il tutto all’insegna della qualità, elemento che, per sbaragliare la concorrenza, in quest’epoca di crisi è la base imprescindibile per il successo.
Ma in questo caso c’è di più. Sono infatti pochissimi i potenziali competitors di questa nuova insegna che fonde la cultura gastronomica spagnola con l’informalità tipica del bistrot.
Il Rebelot è, infatti, un autentico tapas-bar, probabilmente l’unico degno di nota e non soltanto nel panorama cittadino. Un locale decisamente vivace, economico e, appunto, chiassoso ma, allo stesso tempo curato nei dettagli, a cominciare dalla prolifica proposta gastronomica di sorprendente qualità.
A districarsi dietro i fornelli c’è Mauricio Zillo, trentaduenne brasiliano che, fino a poco tempo fa, era tra le prime linee della cucina dell’adiacente Pont de Ferr. Zillo, che porta con sé un notevole curriculum internazionale nel quale si registrano esperienze in Sudamerica al DOM di Alex Atala e in quel di Sant Celoni dal compianto Santi Santamaria, ha una mano notevole e le sue tapas mostrano un’ampia conoscenza di diverse culture gastronomiche pur avendo, a tratti, una personalità incerta a causa dei diversi rimandi a stili già visti (è probabilmente anche l’unico difetto di Perdomo).
Piccoli assaggi dal gusto tradizionalmente iberico rivisti in chiave moderna con intelligenti innesti di ingredienti e sapori tipicamente italiani e qualche influenza della cucina classica francese. Una cucina dall’identità internazionale che, ove fosse confezionata in maniera più opulenta e curata, sarebbe a tutti gli effetti molto simile a quella proposta da Perdomo.
Ad arricchire la già allettante offerta c’è anche il bellissimo cocktail bar, con una proposta che snobba i soliti miscelati e propone cocktails ripensati da un esperto barman (Oscar Quagliarini), per un’alternativa differente e nuova che sta prendendo sempre più piede anche in ambito gourmet.
Un paio di avvertimenti ci paiono doverosi: occhio a non esagerare con le ordinazioni anche se è un tapas bar. Si rischia, infatti, di vedersi arrivare un conto abbastanza impegnativo. La scelta migliore per evitare spiacevoli sorprese e per farsi un’idea complessiva di come si mangia è quella di puntare sui menù da quattro a sei portate, appositamente studiate per contenere il costo dell’esperienza, una serie di tapas selezionate dallo chef (cambiano frequentemente) e con le quali si può restare in una fascia prezzo che non supera i 30 euro. Inoltre attenzione ai momenti di pienone del locale, in cui (e l’abbiamo riscontrato in una ulteriore visita) la qualità non potrebbe essere la medesima, il servizio potrebbe andare in affanno e le cotture e i piatti potrebbero subire imprecisioni ulteriori.


A regola d’arte il gazpacho.

Leggermente troppo sapido il merluzzo con pata negra.

Eccellente invece il Calamaro con la sua tinta, crema di mandorle e cedro, piatto semplice, capace di toccare le corde gustativo-emotive di tutti.

Buono il Tonnetto dell’Adriatico con zucchine trombetta, olive taggiasche e ricotta di pecora.

Ancora un assaggio di mare: Polpo grigliato con manioca fritta,

Per poi approdare in Spagna con un grandissimo piatto (sebbene soltanto d’assemblaggio): Tartare di vitello con anguilla affumicata, con l’insieme gustativo che rievoca il gusto tipico dello chorizo spagnolo. Abbinamento terra-mare riuscitissimo.

Poi c’è un intermezzo un po’ avulso dal contesto, ma anch’esso di riuscitissima fattura: la Scaloppina di foie gras, ciliegie, polvere di alga nori e cioccolato amaro in cui il classico abbinamento francese foie/frutta estiva viene sdoganato con l’utilizzo dell’alga.

Gustativamente parlando, si colloca tra Italia e Spagna la guancia di Maiale con peperone e salsa al pomodoro e peperone, il piatto più rustico e dal gusto più tradizionale della serata.

Si rimane in Spagna con la costoletta di agnello dei Pirenei con una salsa bbq fatta in casa e sentore di cannella. Altro piccolo pezzo di bravura.

Interessante, infine il Controfiletto di vitello arrosto con taccole e salsa allo chorizo.

Dolci freschi e prevalentemente a base di frutta di stagione: Albicocche glassate, mandorla e rosmarino.

Panna cotta alla liquirizia e ciliegie.

Pesca caramellata, panna e basilico.

e, a chiudere, Albicocca, rucola e yogurt.

La nostra bottiglia di accompagnamento (siamo tradizionalisti, non riusciamo proprio a pasteggiare con i cocktail).

Tavolo al bancone.

Quando nel 1506 Raffaello Sanzio ritrasse Maddalena Strozzi in un celebre dipinto a olio (oggi conservato alla Galleria Palatina di Firenze) diede alla nobildonna tratti rubicondi e severi, incarnando un’aristocrazia corporea vagamente ispirata alla Gioconda di Leonardo. Un’opulenza visiva, netta e intensa, la stessa che abbiamo provato entrando a Villa di Travalle, il complesso di stile tardo barocco voluto proprio dalla famiglia Strozzi nel XVII secolo e che oggi accoglie il ristorante Tre Lune. Il nome non è stato scelto a caso, è l’omaggio al simbolo gentilizio della potente famiglia fiorentina, che qui a Calenzano aveva deciso di edificare la propria residenza di campagna.

Se il luogo trasuda di nobiltà agreste, non è da meno la cucina dei tre giovani protagonisti di questo elegante ristorante alle porte di Firenze: Matteo Lorenzini, Chef con esperienze importanti da Arnolfo e soprattutto al Louis XV di Monte Carlo; Tommaso Verni allievo di Pino Cuttaia e Filippo Saporito; Ilaria Di Marzio pasticciera alla corte di Ducasse, Robuchon e Luca Mannori.
Gli altisonanti nomi dei loro maestri mettono subito in luce l’ideale filosofia che permea ogni loro creazione: molto rigore, tecnica culinaria inappuntabile, ma anche stralci di sanguigna e materica tradizione. La loro cucina ha avuto un percorso d’ispirazione che palesa due anime non semplici da coniugare: la prima, la più evidente, quella filofrancese, con diversi rimandi agli anni trascorsi nelle cucine di Ducasse; l’altra, quella più territoriale, attinge a piene mani alle materie prime dei mercati e dei produttori locali, preziose gemme da intagliare con disciplina e perizia, così lontane dall’abile rusticità della golosa classicità toscana.
Un proposito non certo facile da porre in essere, in un percorso che punta più all’armonia che al contrasto, a confortanti morbidezze in luogo di maggiori spigolosità, che renderebbero affascinanti piatti tecnicamente ineccepibili. I fondi sono concentrati alla perfezione, i sapori netti e ben riconoscibili, l’esperienza regala costantemente sensazioni positive, senza altisonanti cadute o vette vertiginose. Poi all’improvviso un piccolo capolavoro: granchio, zenzero e cannellini, con una voluttuosa vellutata che trova vigore nello zenzero, accompagnata a polpa di granchio e composta di pomodoro. Una fusione di emozioni dalla grande complessità gustativa, che forse ci ha indicato distintamente il futuro a cui andranno incontro questi giovani e valenti chef.
Il presente è chiaramente dipinto dalla naturale assenza di una maturità che certamente negli anni i nostri protagonisti sapranno colmare. Ma il legame stilistico con le esperienze avute in passato non può essere valutato come una mancanza di personalità. E’ una tappa, meritevole e apprezzabile, del loro cammino professionale. Le piccole imperfezioni sono la dimostrazione tangibile del loro impegno, i piccoli errori veniali i segnali di un’evoluzione dinamica e non dottrinale. D’altronde l’immagine dello stemma araldico della famiglia Strozzi è uno scudo su fondo oro con tre piccole mezzelune, disposte in forma crescente.

Il tempo è dalla loro parte. E la vermiglia Maddalena forse, un giorno, sorriderà come la Gioconda.

Il benvenuto della cucina: terrina di foie gras con salsa alle ciliegie.
Terrina, Le Tre Lune, Firenze
Pane e grissini.
pane, Le Tre Lune, Firenze
La composizione di verdure dell’orto omaggio a Ducasse.
verdure, Le Tre Lune, Firenze
Granchio, cannellini e zenzero.
granchio, Le Tre Lune, Firenze
Granchio, Le Tre Lune, Firenze
Alette di pollo, finferli e porcini: qui le verdure di accompagnamento sono croccanti al punto giusto, ottimi i funghi e gustose le alette, ma il vero protagonista è il fondo veramente da manuale.
alette, Le Tre Lune, Firenze
Gnocchi, asparagi, porcini e ragù alle tre carni.
gnocchi, Le Tre Lune, Firenze
Coniglio alla Royale con pesche ripiene di funghi porcini: ottima e golosa questa riprosizione di un monumento della grande cucina classica francese pensata, però, con ingredienti di territorio.
coniglio, Le Tre Lune, Firenze
Croustillant au chocolat: ancora un omaggio a Ducasse ed al Louis XV, buono, ma a Montecarlo è un’altra cosa.
dessert, Le Tre Lune, Firenze
Tarte Tatin rivisitata.
Tarte Tatin, Le Tre Lune, Firenze

In una contrada situata in aperta campagna, ma facente parte del comune di Macerata, il relais, anzi country house, Le Case tra le sue peculiarità offre ai suoi clienti, oltre alla bucolica tranquillità tipica di una località immersa nel verde, lontano dalla pazza folla, adatta a chiunque voglia ritemprarsi dallo stress quotidiano, anche un signor ristorante e una cantina di livello notevolissimo.
Non ce ne voglia il buon Michele Biagiola se stavolta sottolineiamo, prima ancora della cucina, l’opportunità di godere, qui, di una delle più interessanti cantine d’Italia.
Per profondità delle annate, varietà della scelta, chiara competenza nella selezione dei vini, delle Marche in primis, ma anche d’Italia e, ancor di più, Francia, e soprattutto per l’onestà dei ricarichi, l’invitante accessibilità a grandi bottiglie è un’occasione imperdibile per ogni appassionato degno di questo nome.
Non di minor interesse è la cucina dello chef il cui ombelico è visceralmente legato ai prodotti della terra, verdure in primis, declinate nei modi più disparati e tale da elevare il concetto di territorio ai suoi massimi termini.
L’attenzione dedicata alla raccolta e all’assortimento degli ingredienti, infatti, soprattutto per il cotè vegetale è a dir poco meticolosa, da grande tavola, come pure l’utilizzo degli stessi nelle varie pietanze. Impeccabile la parte tecnica: latitano sbavature, errori di cottura, fiacche concentrazioni di sapori o ingiustificati arzigogoli gustativi. Anche l’originalità di alcuni accostamenti rende onore, ovemai ve ne fosse bisogno, ed esalta ogni singolo componente.
Questa matericità, manifestata con siffatta perseveranza, non trova sbocco però in una cifra di eleganza altrettanto considerevole e resta pertanto irresoluta, come incompiuta, troppo adagiata sull’espressività delle materie prime, peraltro benissimo trattate, piuttosto che sulle sfumature di gusto delle stesse o su sviluppi di sensazioni.
L’utilizzo di giochi di consistenze e temperature diverse, pur non essendo sempre improntato alla medesima sensibilità, attenua questa impressione ma non al punto da neutralizzarla completamente. Beninteso il gusto e la piacevolezza nella loro versione golosa sono valorizzati al massimo in una sosta che permette un arricchimento del proprio abbecedario di primigenie consapevolezze.
Non può mancare, visto che è una novità del ristorante base del Relais, e considerata l’importanza nella nostrana cultura gastronomica, un encomio sia alla squisita e leggera pizza, dalla eccellente lievitazione, sia alla qualità e varietà delle eteree fritturine di erbe di campo in accompagnamento a essa.
L’esperienza è rimarchevole a tutto tondo e permette, bevendo divinamente, l’approfondimento di una cucina genuinamente territoriale e vocata all’esaltazione dei sapori.

Mise en place.

Pizza rossa, con fave e pecorino, con porro e cipolla.

Eterei fritti di erba zucchero, basilico, salvia, finocchietto, fiori di sambuco e fave.

Un adeguato accompagnamento. Così, tanto per gradire…

Orto nel piatto: ultrastagionale crema di piselli con verdure, crostini di pane al pomodoro..

Interessante gioco di temperature temperature tra la sfera di ricotta, prima ghiacciata, poi cremosa, con fave in greccia e ricotta fritta.

Meno convincente invece quello tra la polenta con gelato allo zafferano e conserva di pomodoro dove la freschezza del gelato non riesce ad alleggerire più di tanto l’impegnativa costituzione della polenta.


Trittico di pura golosità: Zuppa di cipollotto arrostito con basilico e uova di faraona al tegamino.

Spaghetti con verdure cotte e crude, frutta e fiori eduli.

Tortelli di faraona in potacchio.

Patata lessa.

Pistacoppu!! Già più volte menzionato con magnifico coscio ripieno di ciauscolo, erbe e uova.

Variazione degli spaghetti, questa volta con verdure arrosto.

Torta di riso con fragole, gelato di fragole e pistacchi, alquanto anonima.

Parterre de roi: “Mineral” Agrapart, Clos Rougeard “Le Bourg” 2000, “Les Nourissons” 2002 di Bernardeau, “Les Pucelles” 2004 Domaine Leflaive, “Les Amourouses” 2002 Domaine Roumier.

Particolare del giardino.