Il miglior hamburger gourmet al mondo?
Non siamo particolarmente amanti degli estremismi e, non avendoli -per ovvi motivi- provati tutti, non ci è possibile dare una risposta certa, ma con buone probabilità, se non il migliore in assoluto, quello di Blend va molto, molto, molto vicino ad esserlo. E tra l’altro, con sommo sdegno dei puristi, non parliamo di un filologico panino a stelle e strisce, ma di un prodotto dei “cugini” francesi, nato a qualche centinaio di metri dal Louvre, e che potete trovare ogni giorno nel centro di Parigi.
Victor Garnier, proprietario e mente del locale, racconta di esser rimasto folgorato da un hamburger a Santa Monica, ove si trovava per studio, e da questa illuminazione ha deciso di trarre la sua ragione di vita, di voler a sua volta lavorare per proporre l’hamburger “totale”.
Ma qual è il percorso che ha portato questo locale, grande non più di un box doppio, a diventare noto in tutto il mondo?
Innanzitutto, come è lecito aspettarsi, tutte le componenti del panino sono all’insegna della massima qualità possibile e prodotti in totale autonomia. Pane preparato giornalmente, così come le salse e tutti i topping. Ma quello che fa la differenza è una sensazionale patty, studiata ed eseguita con un mix (pardon, un blend…) di carni di Yves-Marie Le Bourdonnec, il “Boucher-Boheme” star in tutta la Francia per i suoi prodotti e le relative frollature, nonché per essere uno dei fornitori di monsieur Ducasse.
Il risultato è davvero notevole e si stacca parecchio dalla media: capita spesso di trovare del buon pane con farciture modeste, o dell’ottima carne all’interno di un discreto pane, o ancora delle salse degne di nota su prodotti solo sufficienti. Molto più raro trovare, come in questo caso, tutti i tasselli di livello altissimo: il pane, dolce e morbido ma dalla consistenza comunque tenace, base correttamente “neutra” ma dalla resistenza al morso più affine al pane che non al pan-brioche. La carne, in assoluto la protagonista, valorizzata da ingredienti di contorno di qualità, inseriti nel panino con un senso logico e non “tanto per far spessore”. Infine salse concentrate ed eseguite con rispetto, vere e proprie componenti nell’insieme, non i soliti “veicoli grassi” e poco più.
Ma c’è altro, oltre la notevole qualità: indiscutibile il grande lavoro di marketing dietro questo progetto, che ha permesso di far divenire un best-sellers gastronomico (anche in Italia) il libro “Hamburger Gourmet”, pubblicazione interessantissima per gli amanti del genere, e che ha permesso nel giro di pochi anni di diffondere il brand in città al punto da rendere necessaria l’apertura di ulteriori tre sedi in tre strategici angoli di Parigi, tutti costantemente assediati da una discreta coda, dalle dimensioni ragguardevoli soprattutto negli orari di punta.
Un risultato davvero degno di nota, per un progetto che unisce la qualità del prodotto a quella della comunicazione, e riesce ad ottenerne un… blend davvero convincente.
L’invitante pane. Tutti i burger vengono serviti tagliati a metà, per facilitarne il consumo (e la condivisione).
Cheesy: manzo, Cheddar, bacon, Ketchup, cipolla fritta, sottaceti e iceberg.
Signature: Manzo, composta di cipolle caramellate all’aceto balsamico, Bacon, Bleu d’Auvergne DOP,Emmental de Savoie e spinaci.
Cheesy Fries!: French fries ricoperte da Cheddar. Buonissime, occhio solamente a non farle raffreddare.
Dettagli del minuscolo locale.
La coda, per fortuna formatasi dopo la nostra uscita, verso le 20.00. Grazie all’apertura continuata è possibile evitare gli orari “classici”, quindi la ressa. Non si accettano prenotazioni, quindi preparatevi…
Il perfezionismo del minimalismo.
Questa è, a nostro parere, la sintesi della filosofia kaiseki e di questo grande ristorante. Abbiamo già trattato l’argomento nella recensione di Kitcho, ma qui vorremmo dare un ulteriore punto di vista, che vada oltre la maniacale attenzione per la materia prima, per la stagionalità e per il rito.
Perché al ristorante Koju ci troviamo di fronte ad un’interpretazione, se volete estrema, del modernismo stilistico kaiseki targato Giappone. Un rito che rimane tale e che al contempo viene spogliato di numerosi orpelli, reso metropolitano e contemporaneo, per certi versi anche antiteticamente veloce, ma che preserva tutti i contenuti veri e profondi di quest’arte.
Punto di partenza è la cura nelle preparazioni, apparentemente semplici, ma frutto di elaborazioni lunghe e molto puntigliose. In cucina, anche se non si vedono, ci sono 2 addetti alla cottura del riso, 3 addetti alla preparazione dei brodi, altri 4 alla cesellatura di verdure e pesce. Un esercito concentrato su partite a prima vista elementari, in realtà coordinate e capitanate da veri e propri maestri dotati di esperienza pluriennale.
Il “Maestro” rifinisce e cesella il sashimi, assaggia e ritocca il già quasi perfetto brodo per lo shabu-shabu, osserva e dirige con una attenzione da vero e proprio direttore d’orchestra. Comprendiamo ora sino in fondo l’assonanza con un altro Maestro come Marchesi con questa filosofia, ed anche il suo costante accostamento alla simbologia e alla stilistica, nonché al rigore della grande opera musicale d’orchestra. Mai come in questo caso metafora fu azzeccata.
Il giorno della nostra visita lo chef Toro Okuda si trovava a Parigi per l’apertura del suo primo locale fuori dal Giappone (Okuda Paris, già segnato col pennarello rosso tra le prossime visite da fare nella Ville Lumière).
Il suo sostituto, giovane ma con una sicurezza da chef navigato, non ha fatto rimpiangere il Maestro.
Koju è l’esperienza, con la E maiuscola, di una contemporaneità Kaiseki portata all’apice.
Dove ogni ingrediente primario, un pesce o una verdura, viene preservato nella sua essenza più profonda. Non troverete sale aggiunto da nessuna parte. Tutto puro, se è dolce sarà dolce, se è sapido sarà sapido. Così come, se l’ingrediente lo è, lievemente piccante. Presentato nella sua purezza maestosa e intonsa.
Il ruolo di protagonista di ogni preparazione è demandato spesso ai brodi, di concentrazione, finezza e persistenza, nonché sapidità, notevoli e dagli apparenti comprimari. Una volta un frutto secco, l’altra volta un’erba piuttosto che una laccatura in cottura.
Una affascinante esperienza che dovrete, se vorrete avere un quadro completo ed esaustivo, affiancare ad un grande esempio di tradizione kaiseki in quel di Kyoto. Ed il vostro cerchio gustativo in Sol Levante sarà completo.
La table du chef.
Mise en place.
Il giovane chef all’opera.
Granchio reale, gelatina di aceto di riso e soia, agrumi: un concentrato di rara eleganza.
Abalone, purea di melanzana e fagioli di soia: consistenza fantastica dell’abalone e della melanzana profumata al gelsomino.
La preparazione del nostro sashimi.
Il primo brodo.
Aragosta, fagiolini di soia, funghi, polpetta ai crostacei e radice di loto.
Sashimi di tonno, seppia, orata, daikon, insalata di alghe, rapanelli. Di consistenza e purezza fantastici.
La preparazione dello shabu-shabu.
Barracuda al vapore con funghi, anguilla arrosto e laccata con bianchetti. Immersi in un giardino d’autunno. Patate dolci, noci gingo, polpette di daikon, radici di zenzero, peperoni, lime, pepe e shiso. La foglia di pepe sull’anguilla un tocco da vero maestro.
La preparazione della radice di Wasabi.
Shabu-Shabu di pesce (simil merluzzo) e funghi pregiatissimi Matsutake. Il brodo intenso e pervasivo, con il fungo che emana sentori di fiori d’autunno e sottobosco. Fantastico.
Riso, brodo di miso e funghi, cipollotto e sottaceti.
La rilettura del tradizionale mochi. Gelato al caramello e castagna, liquore di castagna, castagna bollita e palline di riso dolce. Strepitoso.
Il classico finale con il the Matcha.
Aspettativa canaglia.
Quella che inizia a circuirti settimane prima della partenza, e che per tutto il tempo che separa la prenotazione dal “fatidico giorno” ti perseguita e ti fa pregustare e sognare luoghi, sapori, odori, emozioni. Quella lieve ansia da attesa, legata con un doppio filo all’anima stessa del viaggiare, che è il motore della nostra passione. E che quando viene soddisfatta permette di vivere, se inizialmente non è particolarmente alta, esperienze stupefacenti, inaspettate e sorprendenti; ma quando l’aspettativa è parecchio alta, ed essa viene totalmente appagata ecco, quello è il momento in cui si raggiunge la piena sublimazione, l’orgasmo sensoriale, la pura essenza di una passione.
Chiaramente, come ogni cosa bella, sfortunatamente c’è un rovescio della medaglia, e ognuno di noi appassionati purtroppo lo sa bene: cocenti sono quelle delusioni che, a fronte di un’aspettativa molto alta, non vengono ripagate da un’adeguata risposta. Settimane di attesa e di sogni ad occhi aperti, svanite nella nebbia.
Akrame le carte in tavola per un’esperienza memorabile le ha tutte: 20 coperti, uno dei ristoranti parigini più chiacchierati dell’ultimo anno, lodi più o meno unanimi sul web, riconoscimenti a destra e a manca, una vera e propria ascesa verticale che ha condotto lo chef franco-algerino Akrame Benallal dall’apertura ai pari macarons pneumatici in soli tre anni.
A un mese e mezzo dalla data desiderata, un mercoledì, per pura fortuna riusciamo a trovare un tavolo libero a cena ma per il lunedì, l’unico tavolo disponibile in tutta la settimana.
E invece?
Aspettativa canaglia.
Il locale, sito in una viuzza parallela alla direttrice tra l’Arc de Triomphe e Trocadero, è incastrato tra due anonime vetrine ove ci si aspetterebbe di trovare un fruttivendolo o un macellaio, più che un ristorante di questo tono. Una ristrutturazione imponente, arredi molto moderni, smalti, metalli e toni minimalisti, con quella punta di trendy che smorza i toni, rinvigorisce l’ambiente ma non infastidisce. Un’accoglienza capace, distesa e professionale, accomodante, con il sorriso e in grado di metterti a tuo agio in una manciata di secondi.
E poi c’è la cucina. Corretta, piacevole, adeguata. Tre aggettivi che no, difficilmente contestualizzeresti in una premessa come quella poco sopra. Una cucina che è lecito aspettarsi frizzante, cristallina, in grado di stupire, di coinvolgere, di colpire… e non capace solo di lasciarti sopito, a pensare “…ok, bene, tutto qui?”
Piatti senz’altro corretti, ben fatti e solo blandamente stimolanti, certo scevri da grossolani errori ma purtroppo privi di particolari spunti o chiavi di lettura, fatti di ingredienti ed accostamenti potenzialmente interessanti, ma vanificati da assenza di concentrazione e da elementi prevaricanti sul resto, con una carenza generale di armonia e di equilibrio.
Uno stile forse più adatto alla cucina di un rapido, economico ed informale bistrot, non certo ad uno tra quelli giudicati centravanti della ristorazione parigina di oggi. Quindi viene da chiedersi: al netto dell’aspettativa, dei rumors e delle liste d’attesa di settimane, sarebbe stata questa una cena in egual misura inappagante? Chissà, quel che è certo è che una cucina un po’ banale, anche se corretta, lo è a prescindere, soprattutto quando proposta a certi prezzi non propriamente “a buon mercato”.
La minimale, spartana (e buia) mise en place.
Uno dei quadri alle pareti, tutti curiosamente rappresentanti donne tatuate.
Scorcio della piccola sala
La prima e la più sfiziosa delle entratine: Oreo al Parmigiano…
…e le altre.
Il servizio del burro.
Con il pane, di un solo tipo, ben fatto.
Il primo piatto, dal menù di quattro portate “Coup de Coeur”, tutte a discrezione della cucina (come nel caso del menù da 6 portate, “Gourmand”).
“Verdure: Zucca/Riccio di mare/Formaggio Mimolette”. Piatto potenzialmente interessante, all’atto pratico si rivelerà una vellutata di zucca, che incredibilmente riesce a coprire quasi totalmente sia la Mimolette che i ricci di mare.
“Molluschi: Vino/Molluschi”. Semplicemente, nulla più che la descrizione: vino e molluschi, che non riescono a trovare un punto d’incontro armonico, tra l’acidità del vino, scissa tra l’aria e il brodo, e la gommosità dei molluschi.
“Marinaio: Triglia/Lardo di Colonnata/Indivia/Riso Rosa” Una buona triglia, con un sottile strato di lardo a donare un po’ di grassezza all’insieme, con una concentrata e sapida salsa. In accompagnamento (?) una scodellina di riso e indivia dalle note dai ricordi nordafricani, agrodolce e molto speziata. Buona la triglia, buono il riso… ma insieme?
“Rinfrescante: Sorbetto di mora/Aceto di mele”, servito in maniera… rinfrescante in un bicchierino in ghiaccio. Acido, fresco e dolce. Un bello stop tra una portata e l’altra.
“Carne: Piccione/Mais/Curry”. Idem come i piatti precedenti. Un piccione di buon livello, adagiato su del mais e coperto da una polvere di popcorn, con una salsa… nettamente al curry. Simpatica la declinazione mais/popcorn, solo troppo dolci per esaltare il piccione. Ma una volta giunti al curry, tutto il resto un po’ soccombe.
In stile Gagnairano (dove Akrame ha lavorato), tre i piccoli dolci, serviti tutti insieme.
“Avocado/Banana/Cioccolato bianco”: Avocado e banana pungenti ed astringenti (forse un po’ troppo), con il cioccolato bianco che smorza i toni.
“Dolcezza: Cioccolato, Carbone di Bambù” Ottimo equilibrio tra dolce e croccante. Dessert molto buono e goloso.
“Raviolo pera & noci/Sorbetto alla birra”.
Caramellina alla liquirizia finale, rinfrescante.
Dolcetto finale, con tavoletta di cioccolato… “à emporter”
No, non è una mera questione di campanilismo. Per quanto ci riguarda, di Simone Tondo ne avremmo scritto con gli stessi toni fosse stato anche francese, spagnolo, cinese o proveniente da qualsiasi altro angolo del mondo. E’ semplicemente bravissimo, a prescindere da quanto riportato sulla Carta d’Identità.
Che poi sia italiano, e che sia riuscito ad emergere su una piazza di altissimo livello come quella parigina, non può che farci piacere ed inorgoglirci, ma il suo valore resta il medesimo anche posto in scala assoluta.
Solamente ad un paio d’anni dalla creazione di Roseval, in società con l’inglese Michael Greenwold, è riuscito a riscuotere enorme successo, un massivo riscontro positivo da parte di critica e clientela, lodi praticamente all’unisono e tavoli costantemente pieni.
Poi il colpo di scena: dalla riapertura a settembre di quest’anno, Michael ha scelto di intraprendere altre strade, e Simone è rimasto da solo al comando del ristorante.
Delicati equilibri quindi, che rischiano di diventare instabili, a causa della rimozione di una delle due colonne portanti?
Assolutamente no, anzi. Con piacere abbiamo scoperto che in rue d’Eupatoria, attualmente, si sta ancora meglio che in passato. Si respira un’aria serena e si percepisce distintamente un sacco di voglia di fare bene, probabilmente anche grazie all’individualità di tutte le scelte e le idee.
Nonostante gli stravolgimenti ai vertici, quella che è sempre stata la caratteristica primaria, l’essenzialità, resta la chiave di Roseval. Tutto è ridotto all’indispensabile: godimento al netto degli orpelli.
L’ambiente è ristretto, spartano e con spazi ridotti all’osso. Tavoli e sedie sono piccoli, decisamente ravvicinati e apparecchiati in maniera spoglia ed essenziale. Il menù è uno solo ed uguale non per tutto il tavolo, bensì per tutto il ristorante: 50€ 6 portate, 75€ abbinandovi i vini.
Menù nuovo ogni settimana, nuovi dessert ogni quindici giorni.
Se il dizionario definisce un contrario di “grandeur” ecco, quello è il termine che meglio riesce a raccontare Roseval.
Lo stesso aspetto spartano è riportato sui piatti, apparentemente semplici, che in realtà si rivelano dei veri e propri piccoli capolavori. Essenziali nell’idea, ma complessi nell’esecuzione; spogli nella forma ma assolutamente completi, centrati ed intelligibili; scarni nella descrizione in carta, ma articolati e sfaccettati da richiedere un’attenzione oltre la media. Dalla costante e ricorrente nota vegetale, ma mai troppo in mostra, mai ridondante.
Totalmente mediterranei nel cuore, ma valorizzati da ingredienti, idee e tecniche “worldwide”, grazie all’influenza e le esperienze dell’eterogenea brigata, composta da tre persone in cucina e tre in sala, di sei nazionalità differenti, che lavorano in piena armonia.
Globalizzazione nell’aspetto più positivo del termine ed il tutto, coerentemente, nel cuore del Menilmontant, il quartiere più meticcio della città.
Funzionerebbe ugualmente Roseval, in qualsiasi altro angolo di mondo? Chi può dirlo, commistioni forti come questa sono rare e delicate. Di certo riuscire a distinguersi per essenzialità e per un inarrivabile rapporto qualità/prezzo qui, a Parigi, non è propriamente cosa da tutti i giorni, e sicuramente ha maggior valore che altrove.
Lo scotto da pagare però, sempre dovuto alla Ville Lumière, è il rischio di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro, che il vero valore di Simone e di Roseval passi in secondo piano senza che ne venga colta l’essenza, principalmente a causa della concentrazione e del livello dei grandissimi che li circondano.
Una sorta di contemporanea trasposizione del brutto anatroccolo dove, al pari della fiaba, se riuscirete a guardare oltre le apparenze ed andare dritti alla sostanza, ecco che potrete scorgere uno splendido cigno che no, nulla ha da invidiare al resto dello stagno…
L’ingresso del locale.
L’essenziale mise en place.
Il pane.
“Saint Jacques”: capasanta, lamponi, burro nocciola, aceto. Eccellente partenza, con un piatto che lavora molto bene sui contrasti, tra le morbidezze dell’eccellente capasanta e del burro, contrapposte alle acidità del lampone e dell’aceto, che spicca sul resto.
“Langoustine”: zuppa di patate, scampi, polvere di scampi, combava. Al contrario del piatto precedente, dove prevalgono le acidità, qui si viaggia sul velluto con la zuppa di patate molto lenta, la decisa impronta degli scampi, e la nota citrica della combava che vivacizza il tutto.
“Maquereau”: sgombro tataki, ricotta di pecora affumicata al fieno, moromi. Terzo gran piatto, un gemellaggio tra la Sardegna ed il Giappone: protagonista del piatto la ricotta, dal carattere deciso anche grazie alle note legnose dell’affumicatura, con lo sgombro lavorato tataki, ridotto a texture e a lieve apporto acido, così come il moromi, la soia fermentata, che grazie alla sua profondità fa da trait d’union tra i due ingredienti principali.
Il primo vino in accompagnamento. Sia in carta che per quanto riguarda gli abbinamenti al calice, si percorre la via del naturale e del bio, rivolgendosi comunque sempre al piccolo vigneron.
“Cabillaud”: baccalà, midollo, purée di ortica, dashi. Perfetta la cottura del baccalà, anch’esso reso poco più che texture, in favore della sapida concentrazione del dashi e della profonda nota vegetale del purée di ortica.
Secondo vino abbinato.
“Rouget”: triglia, fiori di carote viola, cavolfiore, kale, colatura di alici. Piatto che percorre le medesime note del precedente, marcandole ulteriormente. Un uno-due marino/vegetale.
Terzo vino abbinato.
“Agneau”: sella d’agnello, sedano rapa, mela, bietole bianche. Si vira verso il dolce nel piatto di carne: spiccano la cottura esemplare e l’intelligente utilizzo di una parte vegetale più “bianca” e terrosa, che a meraviglia si accorda all’agnello.
Il quarto vino in accompagnamento.
“Chaource”: formaggio Chaource, mostarda, acetosella.
…con il quinto vino abbinato.
Predessert: Crema di latte e arancio.
“Poire”: cioccolato, pera confit al pepe, olio, crumble. Eccellente dessert, goloso sebbene non eccessivamente dolce, con la pera resa croccante e masticabile, ed il pepe a donare una bella aromaticità. Degna chiusura di una cena sorprendente.
Con il sesto ed ultimo vino abbinato.
Mascarpone, pompelmo e vaniglia.
Se serve un riferimento, proprio di fronte a Roseval…
Là, tout n’est qu’ordre et beauté, Luxe, calme et volupté.
Pare quasi scritto apposta per il Bristol, il famoso passaggio di Baudelaire.
Un luogo straniante questo, nel suo essere totalmente scollato dalla realtà. A non più di 100 metri della residenza presidenziale in rue de Faubourg Saint Honoré, una delle vie più fastose al mondo, con una concentrazione di boutique di alta moda che forse solo Montenapoleone può provare a tenerle testa.
Un posto fatto di lusso vero, esclusivo ma non sfacciato, e non per questo meno incisivo di altri caratterizzati da uno stile sfarzoso, anzi, moderato nello stesso modo di chi parla con tono calmo, conscio d’aver l’autorità e il piglio di farsi ascoltare, senza mai dover andare oltre le righe.
E infatti no, non si esce mai dalle righe da Epicure, proprio perché le stesse sono tracciate in maniera indelebile, sicura e decisa e quindi, semplicemente, nessuno sente la necessità di farlo.
Alcuni numeri, giusto per definire meglio gli ordini di grandezza: 500mq la cucina, unica per il ristorante, un bistrot, un café e il servizio in camera per le 188 stanze, di cui 92 suites.
115 persone lavorano ai comandi dello chef, di cui nove solamente nel reparto pasticceria.
A giudicare dai colletti tricolore e dai riconoscimenti sparsi sulle pareti della cucina, ci sono più MOF a lavorar qui dentro contemporaneamente, che dipendenti in molti ristoranti.
La sensazione, durante un giro tra i fornelli, non è quella di esser di fronte a una grande brigata, ma piuttosto ad una vera e propria azienda.
Nonostante lo chef Eric Frechon sia un eccezionale professionista (d’altronde, non molti sono gli chef insigniti della Légion d’Honneur), non ha più alcun senso parlare di “chef e brigata”, ma di una mastodontica macchina, che si mette in moto per una sola ragione: produrre eccellenza.
A partire dal servizio, tremendamente efficiente, puntuale e sempre giustamente formale, se non altro per mantenersi a tono con l’ambiente, ma in grado di mantenersi chirurgicamente distaccato o ben più coinvolgente a seconda delle volontà del tavolo, di interfacciarsi più o meno a seconda del grado di malleabilità del cliente. E per un ristorante dove ogni mail in risposta alla prenotazione termina con “…e ricordiamo l’obbligo dell’abito per l’uomo, anche a pranzo” questa ricerca di un punto d’incontro è un plus non indifferente.
Ma, paradossalmente, quello che più colpisce è la cucina. Date le premesse, sarebbe lecito aspettarsi opulenza, ricchezza, ingredienti lussuosi fini a se stessi e questo, in un luogo così, potrebbe anche essere giustificato. Ed invece, nonostante l’impostazione certo classicheggiante, i piatti sono mirabilmente alleggeriti e attualizzati, senza inutili orpelli; anzi, con un gran lavoro di ricerca fatta in direzione dell’equilibrio e dell’armonia e un’attenzione ai dettagli a tratti imbarazzante.
Ecco che anche un piatto come l’anatra, di deriva nettamente dolce, si mantiene saldamente sui binari grazie ad un sapido, concentrato e davvero accademico fondo di cottura e alla lieve balsamicità apportata dalla legna in cottura, creando un contrasto equilibrato senza l’apporto di ulteriori ingredienti.
Una menzione la meritano senza dubbio i dessert del fenomenale pasticciere Laurent Jeannin che, pur nella forma apparentemente semplice, si riveleranno delle piccole opere d’arte, esteticamente ma soprattutto nel profilo gustativo, oltre a essere realizzati con una cura sorprendentemente maniacale.
Certo il giro sulla giostra è tutto fuorché economico, questo è fuori discussione… ma è altrettanto innegabile che un’esperienza di questo tipo sia totalizzante, riuscendo ad inebriare contemporaneamente tutti i cinque sensi: davvero difficile uscire da questo luogo senza sentirsi dieci centimetri sopra la terra.
Mise en place e dettagli in sala.
Per la consultazione della carta viene servito una sorta di “casatiello“, oltremodo goloso.
Stuzzichini iniziali.
Du pain (!!!)…
…et du beurre.
Amuse bouche.
Noci di capesante tagliate al coltello, succo di ostriche, chantilly al limone e curry.
Capesante di qualità indescrivibile, supportate dalle lievi acidità della crema e dal succo di ostrica. Partenza di mirabile equilibrio.
Cavolfiore di Bretagna al curry di Madras, parmigiano grattugiato, beignets di cipolla fritti.
Portata più golosa ma di fattura altrettanto pregevole: decisa e marcata la nota speziata del curry, contrastata con la dolcezza delle piccole cipolle fritte e dal parmigiano, non particolarmente stagionato quindi abbastanza dolce e pastoso.
Sogliola di sabbia farcita con duxelle di finferli, salsa al fumetto di sogliola e Vin Jaune. Nuovamente, l’equilibrio dei contrasti: piatto assolutamente classico, ma con una leggera, concentrata, sapida e acida salsa in accompagnamento.
…da farne incetta, della salsa e dei finferli saltati, serviti a parte. A fine portata la salsa restante viene versata nel piatto, con un invito verbale alla scarpetta.
Anatra selvatica cotta su legna di ginepro, polenta morbida alla frutta secca, mele cotogne all’ibisco.
Servita con a parte l’insalatina con finferli, mais e la coscia dell’anatra…
…e il fondo dell’anatra, strepitoso. Idem con scarpetta.
Nel frattempo il tavolo affianco al nostro ci permette di osservare il servizio della poularde en vessie, con il maître impegnato allo (splendido) guéridon.
Il carrello dei formaggi, dal quale estrapoliamo…
…una selezione di formaggi molli…
…ed una a pasta più dura.
Predessert.
“Chocolat Manjari”: cioccolato ghiacciato e cremoso, infuso al tè, nettare di mora del Monte Velay. Al netto delle architetture un dessert semplice nell’aspetto, ma dal gusto ben più complesso, con acidità e dolcezza del cioccolato e delle more che trovano l’amalgama delle note più calde del tè. Difficile definire dove iniziano e terminano il dolce, l’amaro, l’acido. Gran dessert.
“Noisettes du Piemont”: Nocciole del Piemonte pralinate e tostate da noi, sorbetto al lampone e scorza di limone.
Dessert più dolce e tradizionale ma non per questo meno buono, anzi.
Gelatine liquide al frutto della passione, acidissime e dolci.
Il carrello della pasticceria finale, strepitoso, ove scegliere tra 8 varietà di macarons, tra marshmallows, caramels varie, praline e biscotti, tutto maison.
Svettano i macarons, di fattura sublime. Straordinari quello alla violetta e quello alla nocciola.
I clienti interessati vengono poi invitati a visitare le impressionanti cucine. In foto l’area relativa alle finiture/pass, una frazione dell’area totale.
Dopo due chiacchiere e i doverosi complimenti, monsieur Jeannin in persona ci delizia con la preparazione di uno dei suoi signature dessert.
“Citron de Menton”: spuma di limoni di Mentone ghiacciata, glassato al limoncello, ricordi di pera e limone confit.
All’interno di uno stampo in argento, fatto costruire appositamente, una spuma composta in gran parte da limoni viene cotta in negativo in azoto, acquisendo esternamente la consistenza di una meringa ma mantenendo il centro morbido. Viene infine glassata al limone: sublime…