Saracena è un paesino del cosentino, nell’entroterra settentrionale calabrese, con poco meno di quattromila anime. Un borgo che, francamente, non rientra nella cerchia dei più affascinanti della regione, ma riesce comunque a godere di una natura che diventa particolarmente suggestiva salendo verso il Piano di Novacco, alle pendici del Parco nazionale del Pollino.
Saracena non è un paese di passaggio, né giungervi è il massimo della comodità.
A far concorrenza a pizzerie e qualche agriturismo locali, sembra a dir poco eroica l’impresa della giovanissima coppia Gennaro e Rossana Di Pace (poco più di cinquant’anni in due) che dopo lunghi periodi di apprendistato in Romagna, in Svizzera e a Bologna, è rincasata in un territorio difficile, noto a pochi e soltanto grazie alla produzione del Moscato Passito, rarità enoica italiana, presidio Slow Food.
Gennaro è giovanissimo, ha sicuramente passione e soprattutto testa, perché crede giustamente nelle potenzialità di un territorio vastissimo ma ancora trascurato dal turismo culinario.
La sua cucina, con i piedi ben piantati al suolo, è sostanziosa e rispettosa delle stagioni, fatta con tecnica e con cuore, espressione genuina di un territorio patria di eccellenze rinomate a livello mondiale come ‘nduja, cipolla di Tropea, bergamotto e liquirizia.
Materie prime a chilometro zero quindi, menzione d’onore per il suino nero di Calabria e lo straordinario manzo locale di podolica, senza dimenticare il pescato del vicino Jonio o del Tirreno, e poi ancora il riso di Sibari e le patate della vicina Sila.
I piatti sono concepiti per piacere, pertanto lungi dall’essere cervellotici, nonostante abbiano una base concettuale che, a nostro avviso, potrebbe essere ancor più evocativa della tradizione.
Crediamo che ci sia ancora da limare qualcosa in termini di raffinatezza, controbilanciando con spinte meno monocordi alcuni piatti in cui rubano la scena note grasse e dolci, e potenziare la concentrazione di alcuni ingredienti per ora soltanto fini a se stessi (vedi polvere di prezzemolo sul risotto o le briciole al nero di seppia sui paccheri, quid pluris soltanto a livello cromatico). Un processo di maturazione che, vista l’ètà del cuoco, è assolutamente normale.
La sala, gestita con garbo da Rossana, è molto curata e caratterizzata da una sobria eleganza.
La familiarità tipica di un’osteria di paese convive con la modernità delle opere d’arte dell’artista locale Claudia Zicari, per una sinergia giovane che fa sempre bene allo sviluppo del territorio.
All’Osteria Porta del Vaglio c’è molta voglia di fare, c’è fermento in una regione ancora in letargo. La nostra speranza è che Saracena, come la Catanzaro di Abbruzzino, diventi nell’imminente futuro un’altra tappa gourmet per la quale valga la pena fare qualche chilometro.
Gli scenografici grissini al burro, oltre che belli, sono anche buoni. Su tutti ricordiamo quelli alla liquirizia e alla ‘nduja.
Burro all’olio emulsionato con limone e rosmarino e…
…pane e panini, tutti degni di nota.
Benvenuto: cannolo di patate e ‘nduja ricoperto di mais con cuore di aceto balsamico e spuma di erborinato profumato al tartufo estivo locale. Molto buono.
Tortino di semolino, miele e moscato di Saracena con salsa alla senape grezza e melanzane saltate. Una composizione che, per i troppi ingredienti dolciastri, non lascia presagire grandi cose ma, in verità, è sembrata ben bilanciata in un’alternanza di sapori del territorio.
Il polpo al pistacchio su crema di ceci e polvere di pancetta ha un gusto anch’esso rotondo ma è decisamente più banale rispetto alla preparazione che lo precedeva .
Piatto difficile e riuscito il riso di Sibari mantecato all’olio d’oliva con curcuma, lavanda, zucchine e, tutt’altro che ridondanti, gamberi rossi locali.
L’intento dei paccheri con crema di peperone fine, pancetta saltata, alici e pane profumato alle erbe e al nero di seppia è quello di reinterpretare la classica pasta “aglio, olio e peperoncino”. E’ un piatto dai sapori decisi, smorzati dalla sottostante crema al prezzemolo. Della pancetta, però, si può fare anche a meno nell’insieme.
Orata farcita di melanzane con acqua di pomodoro. Piatto stagionale, semplice, forse estemporaneo.
Di pregevole esecuzione il filetto di maiale nero di Calabria profumato al pino in crosta di mandorle.
C’è una buona mano anche sui dessert, molto tradizionali, le cui basi di preparazione restano principalmente quelle di pasticceria classica.
Aspic al moscato di Saracena e pesche su panna cotta alla canapa.
Tortino di grano saraceno con frutti di bosco e yogurt bianco. La foto non rende giustizia. Dolce davvero piacevole.
Da una carta dei vini volutamente regionale (registriamo un paio di champagne e singole etichette rappresentative di Sicilia, Puglia, Toscana e Veneto) optiamo per il Grayasusi (100% gaglioppo) di Ceraudo.
E, ovviamente, non ci facciamo sfuggire l’occasione di gustare il notevolissimo moscato passito Viola.
Tavolo.
Una delle opere d’arte.
Ingresso.
Verso la fine dell’800 la bisnonna dell’attuale proprietario iniziava l’avventura ristorativa con una stazione di posta sulla strada che attraversa Alseno. Oggi Giuseppe Arbusti ha rinnovato totalmente l’osteria, ristrutturando con uno stile nuovo e moderno le antiche sale, donando un’atmosfera al locale che forse si scontra con il ricordo di una tradizione e una storia così antica. Avremmo sinceramente preferito vederlo conservato quello spirito secolare nella sua forma originale in luogo di un decoro moderno, in cui a dominare è il bianco, i materiali scuri e una sorta di asettica freddezza d’insieme.
Ma se questa è l’impressione che può dare l’ambiente, la cucina e un servizio gestito con amore, impegno e tanta passione, vi faranno sentire a vostro agio non facendovi pentire di aver varcato la soglia di questo delizioso ristorante.
Una proposta culinaria attenta alla scelta degli ingredienti innanzitutto, che sono riportati con precisione e dovizia di particolari nel menù. E poi tanto rispetto nelle cotture, nelle preparazioni e nell’impiatto che solo una chiara frequentazione alla scuola di Alma può aver forgiato in maniera così precisa e puntuale.
La carta si divide equamente tra proposte di terra e di mare. Tutte elaborate con una buona dose di creatività, ma senza esagerare. E mentre la componente terragna svetta notevolmente per qualità, concentrazione di gusto e centratura, non possiamo dire lo stesso per le preparazioni ittiche, in cui la qualità del pesce soccombe lievemente sotto una costruzione e una sovrastruttura tecnica a tratti banale e anche troppo invadente.
Un paio di esempi: il rognone di vitello marinato al ginepro, taccole, patate, datterini confit e salsa verde di acciughe è un piatto perfetto, apparentemente asciutto, invece completo, cremoso e goloso. E poi una rivisitazione convincente della lasagna emiliana, in forma di raviolo.
Da rivedere, invece, l’insalata di pesci e crostacei, anonima e confusa.
Ma alla fine siamo nella Bassa e, se vi spingerete sino ad Alseno, il consiglio è di procedere con le sole preparazioni terragne: avrete una soddisfazione estrema di gusto e raffinatezza che il punteggio, dovendo tener conto dell’altra metà dell’offerta, non rispecchia affatto.
Entrata e benvenuto con crema di melanzane affumicate, pomodoro confit e mozzarella avvolta in pasta kataifi.
Il meraviglioso pane di farine antiche e lievito madre.
Grissini e focaccia.
Insalata di mare, di campo e dell’orto. Confusa.
Gli ottimi crudi di mare.
L’imperiosa rivisitazione della lasagna, qui riproposta a raviolo ripieno. Concentrato di gusto, estetica e tecnica. Perfetta.
I buoni tortelli di pasta di peperone ripieni di baccalà mantecato con ricotta e menta su vellutata di fagioli bianchi. Sapida e mascolina.
Maccheroni, crema di burrata, pesto al basilico, capperi di pantelleria e scorza di limone sorrentino. Buoni ma troppi…
I secondi, non pervenuti in foto, su cui staglia un coniglio farcito con taccole e peperoni affumicati e in cui deludono il tonno e il filetto di dentice.
Ottimo pre-dessert: la cheese cake nel barattolo.
Crostata di frutta integrale alla crema.
L’immancabile zuppa inglese, molto alcolica, come è giusto che sia.
Era il 2008 quando il bravo Flavio De Maio decise di lasciare la storica insegna di Felice a Testaccio per fondare poco distante, di fianco allo splendido Monte dei Cocci la sua osteria: Flavio al Velavevodetto.
E mai scelta fu più felice, visto il successo che da subito la sua nuova creatura registrò, fino a diventare oggi un indirizzo da tutti ritenuto imperdibile per gustare una grande cucina romana dura e pura, senza troppi orpelli.
Poi, nel 2012, Flavio raddoppia e nel borghesissimo quartiere Prati nasce il Velavevodetto ai Quiriti che, manco a farlo apposta, è in breve tempo diventato anch’esso un locale di grande successo.
Abbiamo deciso, per una volta, di visitare le due realtà gemelle, per verificare se entrambe sanno offrire la stessa qualità. Il risultato non è affatto scontato, perché se il locale di Testaccio si merita le 2 cipolle, quello del quartiere Prati ne raggiunge a malapena una.
Entrando nei particolari delle due esperienze iniziamo da qualche considerazione di carattere “ambientale”.
La sede di Testaccio ha l’atmosfera tipica dell’osteria romanesca e, quindi, accoglienza a tratti sbrigativa, servizio veloce, mise en place essenziale. Tipicamente romano anche lo spazio esterno che qui è oltremodo gradevole. Ovviamente di carta dei vini manco a parlarne, ci si alza e si fa un giro all’interno dove si sceglie la bottiglia da una mensola adibita a cantina, ma per fortuna quanto meno ogni bottiglia ha indicato bene in evidenza il prezzo.
Un po’ più (ma mai troppo) di tono l’ambientazione da Velavevodetto ai Quiriti, dove vi accoglierà con una calorosa stretta di mano niente di meno che Michele Nusdeo, quello del Glen Grant, sì proprio lui, “l’intenditore” del noto spot pubblicitario di qualche anno fa. Ovviamente qui la carta dei vini c’è, ma lo spazio esterno, sul marciapiede, è assai meno bello.
La cucina? Anzi, le cucine? Iniziamo dai due piatti da non perdere, uno per sede.
A Testaccio grandissima la Matriciana, limitandoci alle osterie la migliore mangiata a Roma, equilibratissima, piena di gusto.
Ai Quiriti da non perdere il Tonnarello Cacio e Pepe che, per noi, vince la palma del migliore della città (sempre per quanto riguarda le osterie ovviamente) a pari merito con quello di Felice a Testaccio anche se molto diverso. Più pastorale quello di Felice, più morbido questo del Velavevodetto, perfettamente mantecato, non si corre il classico rischio di una forchettata che sa di pepe e la successiva in cui si sente solo il pecorino. Eccellente.
Nel complesso, comunque, abbiamo preferito abbastanza nettamente la cucina della sede di Testaccio.
Da Velavevodetto ai Quiriti, a parte la Cacio e Pepe da oscar e delle fantastiche polpette di bollito (da premio anch’esse) non tutto ci ha convinto appieno. In particolare, tra l’altro, abbiamo trovato la Carbonara poco equilibrata dominata dal gusto di bruciaticcio del guanciale e una matriciana alquanto scarica di sapore.
Diverso il discorso a Testaccio dove nessun piatto ha deluso e dal Supplì di coda al Tonnarello Cacio e Pepe, dalle Polpette al sugo ai Fiori di zucca ripieni e fritti tutto è davvero ottimo.
Insomma, oggi, Flavio al Velavevodetto a Testaccio insieme ad Armando al Pantheon e a Cesare al Casaletto è proprio l’osteria romana che piace a noi.
Ad Majora.
Supplì di coda della sede al Testaccio
Cacio e pepe della sede al Testaccio.
Cacio e pepe fantastici della sede ai Quiriti.
La Carbonara da rivedere della sede ai Quiriti.
Ravioli alla Velavevodetto, sede al Testaccio.
Fantastica la matriciana della sede al Testaccio…
…e la sua versione “deludente” della sede ai Quiriti.
Polpette al sugo (Testaccio).
Gualtiero Panciroli con la sua dolce compagna Cinzia Rossi. Legame professionale ma anche personale. Gualtiero oste, nel profondo della sua anima. Cinzia cuoca e precorritrice della fama di Rovello 18. Gualtiero, lo vedi e lo percepisci Oste, con la O maiuscola, ogni volta che ti racconta un vino, sua grande passione oltre che professione, o, quando ti ammalia spiegandoti la sua ultima scoperta: un ingrediente, un contorno, un abbinamento, un personaggio. Cinzia, la vedi e comprendi che organizza, supervisiona, controlla, con fare disinvolto ed a tratti amorevole, la cucina in particolar modo. Sempre entrambi con sincero sorriso. Non hanno scelto la strada facile. Una carta ed una proposta culinaria ampia, fatta di piatti freddi con ingredienti selezionati ma anche tante preparazioni calde, elaborate e composte ad arte dallo chef Michele De Liguoro, classe 1986, figlio di Cinzia.
La proposta enologica altrettanto ampia ma ad un tempo originale, fatta di ricerca e di scelte tutt’altro che banali. Proposta, a cui non è semplice senza la guida di Gualtiero, dare un senso ed un corretto abbinamento. Ma lui riesce ad indirizzare, ad incuriosire il cliente, quello più attento, aperto e scaltro ma anche quello meno curioso e più conservatore, offrendo contemporaneamente grandi stimoli sia dalla cucina che dalla cantina. Il risultato immaginato e sperato è presto detto: far uscire tutti felici da quell’angolo di Corso Garibaldi che sovente riserva poche soddisfazioni agli avventori dei millantati locali della zona. Oggi in via Tivoli, ieri in via Rovello 18 da quando (iniziò nel 2002) allietava i palati della city milanese di giorno per poi solleticare quelli della Milano bene all’imbrunire.
E, non dimentichiamolo, con un plus non da poco: aperto la domenica sera. Una “quasi” esclusiva sulla piazza milanese della buona cucina. Una trattoria con la T maiuscola, in cui ogni preparazione è pensata e curata con allegra e gaudente precisione. L’offerta terragna è certamente più accattivante, ma negli ultimi tempi, e durante le nostre ultime visite, abbiamo scorto anche una interessante evoluzione di qualità in quel fantastico salmone marinato e in quell’ottima insalata di baccalà. E poi la pasta, cotta e mantecata alla perfezione. I dolci, leggermente sottotono rispetto al resto delle proposte, li avremmo preferiti con uno spunto di maggiore originalità e cura.
Ma qui da Rovello 18, è sempre un gran piacere trascorrere qualche ora a spiluccare qualche fetta di prosciutto, accompagnata da un calice di strepitoso Champagne di piccoli vigneron: ti viene voglia di non alzarti mai da quella tavola, accudito e allietato da una sinfonia di profumi e sapori in una cornice di luminosa e schietta convivialità che solo qui troverete.
L’imponente cave du jour in mostra
Gli interni…
Elegante salmone marinato maison all’alga nori, alla barbabietola e vodka, al gin tonic e al whisky torbato. Sensazionali.
Prosciutto tagliato al coltello.
Insalata russa didascalica.
La polpetta di salsiccia di Bra con crostini.
Peperoni in salsa tonnata, fantastici.
Bacalao in insalata di ortaggi.
Cacio e pepe da antologia, con spaghetti di pasta fresca fatta in casa.
La mortadella Favola, del salumifico Palmieri.
Prosciutto d’Osvaldo, melone e fichi.
Costata di vacca vecchia Galiziana da urlo: la frollatura impeccabile dona una gustosità ed una morbidezza davvero insuperabili.
Patatine di casa.
Meringa alle fragole.
Ipercalorici e iperburrosi biscottini del Prost con zabaione: goduriosi.
Tarte au chocolat.
I fantastici abbinamenti della serata. Uno champagne delizioso e veramente molto interessante.
Lui, il grande Gravner, qui in una annata e una espressione da ricordare.
IL pinot noir…
I nostri golosi commensali non hanno saputo resistere…
Era lecito aspettarsi qualcosa di più da una delle osterie più note ed apprezzate di Torino e provincia, ormai da diversi anni premiata con la chiocciolina, il massimo riconoscimento della guida alle Osterie d’Italia edita da Slow Food.
Intendiamoci, non è che alla taverna di Fra Fiusch nel complesso si mangi male (altrimenti non ne parleremmo affatto) però davvero si potrebbe fare meglio, dedicando maggiore cura alla realizzazione dei piatti ed anche, come si dirà, alla predisposizione della carta.
La location, suggestiva, in posizione amena sulla collina di Moncalieri, con tanto di panorama su Torino, predispone al meglio, così come le rustiche salette che si dividono su due piani. L’accoglienza, molto cortese e la carta dei vini ben studiata e con una bella profondità soprattutto di piemontesi, ci fanno subito pensare che qui si faccia davvero sul serio.
Una prima occhiata alla carta inizia però ad incrinare le nostre certezze. Se, infatti, è interessante e assai elastica la proposta dei menu degustazione (con, ad esempio, la possibilità di scegliere liberamente 4 piatti anche tutti della stessa tipologia), la carta nel complesso ci sembra troppo ampia: 12 antipasti, 10 primi e 11 secondi. Un po’ troppi per un locale di dimensioni ridotte che voglia fare alta qualità.
Inspiegabilmente – a nostro parere – infatti, si è deciso di aggiungere ai grandi classici della cucina del territorio come finanziera, agnolotti, tajarin alcuni piatti “marziani” (e non solo da un punto di vista territoriale…), come – per citarne solo uno – le tagliatelle con ragù di cinghiale che, ovviamente, decidiamo di assaggiare.
In generale abbiamo, poi, rilevato un problema di temperature dovuto anche al fatto che i piatti (intesi come piatti di portata) erano inspiegabilmente assai freddi determinando, quindi il repentino raffreddamento delle preparazioni in essi contenute.
Fin qui quello che non va.
Ma aggiungiamo che abbiamo mangiato degli gnocchi di patate viola con carciofi molto interessanti, un superbo stinco di maiale al forno con semi di finocchio e un dessert (a tutto territorio) tutt’altro che banale: Piemonte in bocca che racchiude in vari strati e consistenza bunet, crema allo zabaione, panna cotta, baci di dama e bicerin.
In breve, un posto in cui tutto sommato si sta bene, con un buon rapporto prezzo qualità, ma che potrebbe dare maggiori soddisfazioni se si concedesse qualche divagazione di meno in carta e curasse maggiormente alcuni aspetti (vedi temperatura dei piatti) che possono sembrare di contorno ma che tanto di contorno non sono.
Ad Majora
Entrèe: Bignè di insalata russa. Non è obbligatorio offrire qualcosa che non si è ordinato. E’ una bella consuetudine ma deve avere un senso. Difficile trovare un senso a questo (poco fragrante) bignè.
Buoni i Plin (ai 4 arrosti) conditi con burro d’alpeggio..
Insalatina di carciofi crudi con cialda di parmigiano: fresca e agrumata.
Gnocchi di patate viola con carciofi.
Qui casca l’asino. Tagliatelle con ragù di cinghiale. Piatto che affolla 12 mesi all’anno i menu turistici dell’intero centro Italia. Riproposto incomprensibilmente ad aprile sulle colline torinesi, con, tra l’altro, decisamente troppo chiodo di garofano.
Quaglie al marsala.
Il piatto migliore: Stinco di maiale al forno con semi di finocchio.
Piemonte in bocca, una summa dei più noti dolci della tradizione piemontese.