Lo scorso due giugno hanno riaperto i battenti, con coraggio e scongiurando la psicosi di massa, molti ristoranti in tutta Italia. Noi, spinti da un irrefrenabile entusiasmo post-quarantena, non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di prenotare un tavolo a Milano, dall’ultimo (cronologicamente parlando) tristellato d’Italia, per ritrovare quel pizzico di normalità che avevamo lasciato, qualche mese prima, fuori dalle porte di casa. E dopo le necessarie e giuste accortezze (misurazione della temperatura, domande sullo status del cliente, etc.) ci siamo accomodati nella bella sala, dalle luci soffuse (fin troppo) all’ultimo piano del Mudec. Una sala ancor più curata nei dettagli da come la ricordavamo e – sospiro di sollievo – piena!
Enrico Bartolini, con la sua fidata squadra, ha ripreso da dove aveva lasciato. Tra estetica, gusto ed una materia prima rigorosamente nazionale con l’intento di valorizzare sempre di più i meravigliosi prodotti italiani. Il tutto all’insegna della perfezione. A cominciare dalla proposta gastronomica, che vede l’introduzione di un nuovo menu, “Edizione Limitata 2020”, affiancato ai piatti che hanno fatto la fortuna dello chef.
Bartolini tende costantemente a perfezionare la sua cucina e fa delle sue creazioni originarie la cavia ideale per inseguire l’espressione più perfetta di un’idea. Ad esempio, uno dei piatti che lo hanno reso famoso già quando officiava in quel posto magico e sperduto che era Le Robinie, ossia il risotto alla barbabietola e gorgonzola, trova nuova linfa con l’innesto della salsa alle noci, altro elemento grasso ma tutt’altro che banale per via della componente amara conferita al piatto. Ancora, alici, ostriche e caviale è totalmente nuovo rispetto al piatto originale, con il pesce che scompare, a livello estetico, ma ritorna prepotentemente con un intenso sapore tra carpione e saor al momento dell’assaggio, nascosto tra l’ostrica e le riequilibranti erbette.
Si tratta di una cucina che sta virando sempre più verso il classico, e lo dimostrano le salse e le architetture dei piatti, quasi barocche, in cui l’elemento principale vuole convivere con elementi di contorno studiati nei dettagli (è il caso della straordinaria tarte tatin di pesche e porcini, servita con l’altrettanto meraviglioso manzo delle Dolomiti Lucane o dell’irresistibile gelato all’aceto balsamico che, con le eccezionali ciliegie, ruba la scena all’imperioso soufflè al limone). Ed è una cucina che, col tempo, sta acquisendo quella resa trasversale quasi matematica in cui, seppur a scapito di guizzi azzardati, nulla è lasciato al caso e ha quale unico obiettivo quello di piacere e arrivare al cuore e alla pancia del commensale. Insomma, è una cucina che ci convince sempre di più.
Sul capitolo sala e cantina c’è poco da obiettare: il servizio è governato in maniera ottimale ed è degno dei riconoscimenti acquisiti. La cantina è molto ampia e ben costruita pur presentando, tuttavia, ma a questi livelli è anche facile aspettarselo, ricarichi importantissimi.
In passato avevamo rimproverato allo chef di Pescia un eccessivo immobilismo, un controllo eccessivo nel presentare nuovi piatti, dettaglio che balzava ancor più all’occhio discutendo di un cuoco che, a trent’anni, poteva vantare una lista di signature dishes che altri, anche bravi, impiegano un’intera carriera a concepire.
L’impegno imprenditoriale, che vede Bartolini nelle vesti del talent scout ma anche di nume tutelare dei giovani talenti alla guida delle stellate insegne sparse per la Penisola, conta su un successo tale da consentire alla vetrina milanese di intraprendere il percorso che ci eravamo augurati sin dalla sua apertura, più da avamposto che sala del trono. E l’impressione scaturita dalle ultime visite al Mudec è di una cucina che, dopo aver a lungo parlato di sé in terza persona, abbia finalmente ripreso a utilizzare la prima persona, se non il pluralis maiestatis, e così tuffarsi nella corrente della contemporaneità come indica quel BE contemporary classic che è il motto dello chef in direzione, più che dell’acronimo, del significato letterale.
Così, all’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto, ormai, inattesa: reinterpretare il proprio piatto più celebre.
Il risotto con rape rosse e salsa gorgonzola nella versione reloaded viene impreziosito da una – concentratissima – salsa alle noci e dalla nota acida della marasca. Il risultato, a maggior ragione per chi abbia avuto una lunga consuetudine con l’originale, è sensazionale: lo spettro gustativo, più che ampliarsi, si arricchisce di nuove dimensioni grazie alla grassezza aggraziata della salsa, alle sue note tanniche e rancide. La revisione ci restituisce un piatto non solo più complesso e cerebrale ma anche, in ultima analisi, più buono. Non solo, però: l’assaggio ci ha fatto rivivere l’emozione e la freschezza delle prime cene in quel di Montescano e ha illuminato tutto il percorso – anche le portate precedenti! – di una luce nuova.
Il Kaiser Soze della serata è però l’apparentemente innocuo riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato. Di grande forza acida ma tutt’altro che monodimensionali sono i primi due antipasti mentre il terzo, da noi richiesto fuori menu, ossia i bignè di scampo reale, paga la maggior morbidezza nel contesto di un menu decisamente più impattante. Da applausi l’agnello lucano, mirabile per punto di frollatura e tale da far risultare il rognone servito nello spiedino d’accompagnamento una caramellina.
Le parole non sono, del resto, indispensabili per constatare come il tratto gustativo di Bartolini sia fra i più riconoscibili dell’intero panorama gastronomico dello Stivale. In tutti i suoi menu ricordiamo almeno un paio di passaggi dalla traccia affumicato-salmastra inconfondibile, che in questo passaggio abbiamo rintracciato, ad esempio, nel dashi al pompelmo affumicato che mette il punto esclamativo a una composizione di assaggi di benvenuto di rare perfezione ed efficacia. Nella sala, che la sera si presenta di enorme fascino – in crescente contrasto con un contesto che non potrà mai essere indimenticabile – i piatti hanno guadagnato un’estetica anch’essa del tutto peculiare e in piena sintonia con il luogo. Un ristorante che non raggiunge ancora la piena valutazione, ma che ci sentiamo di non porre al gradino inferiore per il periodo felice che sta vivendo la sua avventura, sperando che continui cosi, anche meglio, forse nell’unica direzione ancora inesplorata di questa cucina : la leggerezza post-prandiale.
Infine approfittiamo per elogiare le figure di Remo Capitaneo in cucina e di Sebastien Ferrara, guida di una sala che funziona a meraviglia.
Le mani sulla città.
Una dichiarazione d’intenti che Enrico Bartolini si è fatto fedelmente trasporre in immagine dall’artista calabrese Max Marra sulla copertina del menù del suo nuovo ristorante di Milano.
Il talentuoso ed ancora giovanissimo cuoco e ristoratore toscano, dopo una lunga sosta in quel di Cavenago Brianza, si è rimesso in pista a caccia dell’ascesa definitiva nell’empireo dei grandi cucinieri italici. Lo ha fatto pensando alla città italiana che meno teme confronti con le capitali europee per la concentrazione di trattorie, osterie, ristoranti etnici e grandi tavole.
Considerato il calibro dello chef è stato impossibile pazientare. Accollandoci dunque il rischio di un possibile rodaggio, ci siamo fiondati al terzo piano del MUDEC, Museo delle Culture, ubicato nell’ormai celeberrima Via Tortona, a soli pochi giorni dall’apertura ufficiale e, per nostra fortuna -e meriti altrui- l’audacia è stata ripagata.
Il motivo? Semplicemente perché la cucina del Devero sembra essersi letteralmente teletrasportata in questi nuovi ambienti dominati da arte e minimalismo. Lineari come lo stile della proposta gastronomica che coniuga concretezza e divertimento, estetica e gusto al servizio di un prodotto selezionato con perizia, trasformato ma esaltato nel sapore, nella naturalezza ed autenticità della proprietà organolettica.
L’illusione della finta oliva all’ascolana, della melanzana ricostruita o delle false mandorle che celano, in verità, una tartare di gamberi rossi, sfocia ben presto in una concentrazione gustativa con pochi eguali che svetta su una proposta che, come già in passato, si attesta già a livello altissimo.
Sono ancora poche le nuove creazioni, ma è difficile trovare piatti che non siano tecnicamente e concettualmente ineccepibili, dai quali traspare uno studio al dettaglio di componenti e fattori.
Dei nuovi assaggi qualcuno ci ha letteralmente rapito.
E’ il caso del risotto Arlecchino, tanto semplice quanto geniale. Una sorta di sfida/ammiccamento al sommo Marchesi secondo il quale, oggigiorno, anche nelle grandi tavole, i risotti hanno principalmente il sapore di formaggio e un’eccessiva acidità. Ed è proprio partendo da questo concetto che Bartolini trova l’espediente: alla base del piatto c’è un arcobaleno di sapori sul quale viene, solo in un secondo momento, adagiato un “semplicissimo” risotto alla parmigiana, perfettamente bilanciato dal trittico parmigiano-burro-limone. L’esito, dopo un paio di cucchiaiate, è un equilibrio di sapori e richiami all’India, all’Asia, alla Provenza, ma anche all’Italia.
Una piatto notevole che fa il pari con quei piccoli grandi cult di cucina d’autore contemporanea come i bottoni d’olio al lime e salsa di caciucco, o la variazione del gambero rosso di Sicilia che, in due servizi, viene presentato nelle succitate sembianze ludiche di finta mandorla e in una versione tanto minimale quanto imperiosa al tamarindo, in duplice cottura, tra un richiamo ad Adrià ed uno a Roellinger.
È in gran forma Enrico, in piena maturità e non ha ancora varcato la soglia degli anta. Se solo avesse una vena creativa più prolifica sarebbe il massimo. Ma è arrivato il tempo di sfatare questo tabù. Ne siamo convinti. E siamo consci delle estreme capacità di uno chef che sarà in grado probabilmente oltre che di ripetersi anche di migliorarsi rispetto alle sue precedenti esperienze.
Il quadro è completato da un servizio consono al tenore della proposta che deve mettere a punto ancora qualche dettaglio (nei grandi ristoranti ci aspettiamo che i bicchieri vengano cambiati dopo aver mangiato l’uovo) ma, nonostante ciò, riesce ad interagire in simbiosi con la classe della cucina. Molti piatti vengono infatti completati al tavolo, consacrando il valore e l’importanza del servizio di ristorante.
La sala, di per sé, ha fascino. Apparentemente spoglia, in verità è un piccolo museo a cielo aperto in cui ci si concentra sul piatto contemplando, al contempo, le affascinanti opere ivi allocate.
I prezzi sono alti. Se si beve bene ancor di più. Ma è una di quelle cucine per cui ogni singolo centesimo è ben speso.
Gli stuzzichini iniziali. Sfoglia al mais.
Amuse bouche: fagiolini.
Fagottino di cipolla e foie gras.
La melanzana alla brace.
L’eccellente pane bianco fatto con lievito madre.
Il meraviglioso burro irlandese, servito con salsa al lampone.
Immancabile entrée: patata soffice, uovo e uova: ovvero crema di patate sifonata, uova di salmone, capperi disidratati, erba cipollina, zabaione.
Illusione di mandorla. In verità una tartare di gambero rosso siciliano in una pellicola di mandorla.
Con un aromatico fumetto di crostacei.
Piatto completato.
Gambero mezzo fritto aromatizzato al tamarindo.
Tutti i gourmet, una volta nella vita, dovrebbero provare i bottoni di olio e lime con polpo cotto alla brace..
..con sugo di caciucco. I critici gastronomici americani lo definirebbero “mind-blowing”.
Altro pane, focaccia bianca e pane by Eugenio Pol.
La cromatica base del…
..Risotto Arlecchino. Notevole.
Un grande “piccolo” Brunello.
Intorno all’agnello laziale cotto sui carboni. In questa foto la costoletta con crema di mandorla e aglio e millefoglie di patate.
Finta oliva all’ascolana, con il fegato dell’agnello.
Il secondo servizio: la spalla e un cannolo con le interiora.
Chiusura con l’animella glassata, carciofo alla liquerizia e crema alla menta.
Predessert ai lamponi.
Mango, coriandolo e lime
Piccola pasticceria fatta da piccoli capolavori: macaron di mandorle e zafferano, e sfoglie al frutto della passione.
Chupa chups cocco e cioccolato
Alchechengi, ancora un’illusione.
La dispensa.