Uno dei più grandi geni dell’informatica affermava che ciò che distingue un leader da un seguace è l’innovazione.
Massimo Bottura è, al contempo, un leader e un genio del nostro tempo. La grande cucina d’autore italiana, supportata dallo sterminato patrimonio gastronomico del nostro Paese, non era mai stata così al centro dell’attenzione mondiale com’è oggi, grazie al carismatico innovatore modenese.
E farne soltanto una questione di cibo sarebbe riduttivo.
Cucina, arte, beneficenza, cinema, musica, spettacolo. Sono tutti campi socio-economici, citati in ordine rigorosamente casuale, in cui l’icona Bottura ha dato un importante contributo, mentale e fattuale, inesauribile fonte di ispirazione per cuochi (giovani o meno che siano), nonché esemplare traguardo da raggiungere in carriera.
Il concetto cardine della Francescana è guardare al passato con occhio critico -e non nostalgico- per estrapolarne il meglio e consegnarlo al futuro, senza compromettere la tradizione. Quest’ultima, che certamente infonde senso di sicurezza e stabilità, è una connotazione carissima allo chef, specie quando viene accostata ad altri imprescindibili concetti chiave, come “evoluzione” e “contaminazione”, con i quali, alla fine, rappresenta due facce della stessa medaglia ed ha quale fine ultimo quello di consegnare al commensale, da qualsiasi luogo esso venga, un ricordo di vita vissuta o una traccia di esso.
L’Osteria Francescana è la tradizione del nostro Paese racchiusa in un piatto.
Le “cinque stagionature del Parmigiano”, oltre ad essere la sublimazione di una delle perle alimentari italiane, rappresenta la trasposizione metafisica dello scorrere lento del tempo in Emilia. La parte croccante della lasagna ripesca nei meandri dell’uomo adulto il ricordo del sogno da bambino di accaparrarsi l’angolino croccante e bruciacchiato di lasagna dalla teglia sfrigolante.
L’Osteria Francescana è la tradizione del nostro Paese arricchita da omaggi al mondo intero, come la grande tela di Schifano o come i tre piccioni veneziani di Cattelan che scrutano i “turisti” in quello che è anche un piccolo museo di arte contemporanea. E proseguendo in questa direzione, si rende omaggio a ciò che è degno d’esser omaggiato. Come l’ossequiosa interpretazione dei sapori della Normandia racchiusi in una conchiglia di ostrica senza il mollusco, perché si crea una simbiosi tra il sapore degli agnelli che brucano nei prés salés e le onde del mare, con le alghe posate sul bagnasciuga dopo la marea, o la reinterpretazione della lepre à la royale dei grandi cucinieri transalpini, in cui la sontuosa salsa civet si arricchisce di cioccolato e diventa anche una “mole” messicana per ricoprire insieme un “finto” bollito emiliano -i confini si ampliano passando dal Vecchio al Nuovo Continente con disarmante disinvoltura- avvolto dalle pregiate carni del germano e della pernice, cacciagione da piuma che rappresenta il momento stagionale in cui l’autunno lascia il posto all’inverno.
L’Italia che omaggia la Francia e il mondo intero, rappresentato dalle nuove frontiere della cultura gastronomica, custodendo la stagionalità modenese sotto un’aria che racchiude il sapore del ceviche peruviano.
Tutti possono riconoscere qualcosa in questi piatti.
L’Osteria Francescana è anche l’ideale di un cuoco aristocratico che elogia la materia povera, a simboleggiare il potere del cibo quale mezzo capace di dare dignità anche a chi crede di averla persa -ecco la potenza del “Refettorio”- così la povertà indossa le preziose vesti dell’opulenza nelle modeste lenticchie che si nobilitano in un brodo di anguilla e vengono adagiate su una crème fraîche e riposte nel contenitore del più nobile caviale.
L’Osteria Francescana è divertimento, come quando riserva, in verità spesso, un straordinario omaggio all’America, seconda patria di Bottura, con l’ennesima geniale trovata di servire una spuma dolce-salata di pop corn, a chiusura di uno spettacolo gastronomico, perché la cucina è anche un gioco (molto serio).
L’Osteria Francescana è la perfezione. Stilistica, tecnica, gustativa, che si può trovare anche in un pentolino di tortellini alla panna, esaltazione della tradizione, o nell’imperfezione di una crostatina al limone (ri)composta nel piatto come se si dovesse recuperare dopo la caduta.
L’Osteria Francescana è anche una squadra che si è consolidata con gli anni, una squadra che ormai tutti conoscono, fatta di fenomeni veri, capitanata dai Beppe Palmieri, dai Davide Di Fabio, dai Kondo Takaiko; anch’essi, ormai, sono il cuore pulsante di questo straordinario ristorante.
La pagnotta, fatta con lievito madre.
E l’olio aretino prodotto a Loro Ciuffenna.
Poi le ciabattine e i sottilissimi grissini all’olio d’oliva.
Prima di tutto c’è l’Aulla in carpione, versione emiliana del fish & chips inglese. Disco di tempura con triotti (scientificamente rutilus aula) e gelato di carpione.
In via stella i sapori sono emanati in altissima definizione, a cominciare dagli appetizers: macaron farcito di coniglio alla cacciatora e baccalà e pomodoro, di rara intensità.
Chiude le quattro mini sequenze il borlengo con lardo e parmigiano.
Omaggio alla Normandia: la tartare di agnello pré-salé frollato crudo, alghe, acqua di ostrica, granita di sidro e gocce di menta (che evoca il giardino di erbe aromatiche dell’Abbazia del Mont-Saint-Michel).
Una lenticchia meglio del caviale. Le lenticchie sono cotte in un brodo di anguilla e colorate con nero di seppia. Alla base, una crema di rapa rossa e una creme fraîche con cetrioli.
Sogliola mediterranea. Esplosione di mediterraneità ma anche omaggio alla Francia. Capperi, pomodoro, bergamotto, olive e salsa agli agrumi alla base e una sogliola cotta a bassa temperatura con una salsa alla mugnaia. Il tutto è ricoperto da un finto cartoccio fatto di acqua e sale.
Ravioli ripieni di rana pescatrice in salsa del proprio fegato e filtrato di coniglio alla cacciatora.
Una ceviche in autunno, a Modena. Uno straordinario omaggio al piatto simbolo del Perù, il cui sapore viene compresso in un’aria (i maestri omaggiano i maestri, in questo caso Adrià) intensa, sotto la quale si nascondono i sapori stagionali della città, ossia tutte le verdure autunnali che il territorio può offrire, dalla zucca alle castagne.
Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature. È un piatto che ci sembra ogni anno migliore del precedente.
La parte croccante di una lasagna non ha bisogno di presentazioni. Pochi assaggi da divorare. Una cialda croccante -e tricolore- di chips di pasta bruciacchiata con la fiamma ossidrica a ricordare la crosta bruciata, sormonta una besciamella di consistenza eterea che ricopre una straordinaria carne al ragù, cotta a bassa temperatura e mantecata con il midollo, probabilmente il vero ingrediente segreto ed imprescindibile della ricetta.
Arrivano gli utensili adeguati per uno dei capolavori del giorno.
Il già mitico “A volte germano, a volte pernice, ma anche bollito”. Omaggio alla storica ricetta di Antoine Carême presentata alla maniera di Ducasse, con qualche piccola, personalissima, licenza d’autore. Tanta Francia (nell’esecuzione), molta Italia (nelle salse di accompagnamento, peperone giallo, peperone rosso, salsa verde e mostarda di mela campanina).
Piatto da mangiare in alternanza con un crostino di pane, burro e tartufo nero…
…e con il “chawanmushi”, un budino giapponese di verdure fatto con un brodo “di tutto”.
Al confine tra il dolce e il salato ci sono gli straordinari tortellini del dito mignolo (piccolissimi!) con panna di affioramento e Parmigiano, da togliere il fiato.
Croccantino di foie gras. Un omaggio ad un altro grande maestro di Bottura, Georges Cogny. Una terrina di foie gras con cuore di aceto balsamico tradizionale di Modena, riserva speciale dello chef.
Tiramizucca. Divertissement stagionale di uno dei dolci più amati dagli italiani. Eccezionale nella consistenza, un tiramisù in cui il sapore della zucca spicca più di qualsiasi altra cosa.
Oops! Mi è caduta la crostatina al limone… che non ha bisogno di presentazioni.
Un nuovo, buonissimo e divertentissimo dessert, omaggio all’America:
Pop corn.
Una piccola, grande, pasticceria favolosa.
Macaron foie gras e tartufo.
La versione in miniatura di Camouflage (lepre e cioccolato).
e un omaggio a Vignola (ciliegia liquida).
Si è ormai detto moltissimo su Massimo Bottura, come praticamente tutto è stato scritto dell’Osteria Francescana.
Voti e parole sembrano essere agli sgoccioli: una sfida continua per chi scrive di ristoranti, costretto di volta in volta a guardare oltre e, talvolta, spostare artificiosamente il proprio orizzonte critico dalla grandezza di un luogo che, in modo paragonabile forse solo al Bulli ma secondo modalità assai differenti, non ha precedenti nella storia della ristorazione.
Perché il sospetto è che in via Stella non sia il fondo scala ad essere toccato, bensì che sia questo luogo baciato dal talento e dal successo a spostare, di anno in anno, di menù in menù, di piatto in piatto, l’idea stessa di eccellenza gastronomica. Un’eccellenza che è, ovviamente, innanzitutto gustativa. Da questo punto di vista, però, l’incredibile è ormai la norma alla Francescana e diventa inevitabile attendersi, in un percorso sempre eccellente eppure in continuo, costante crescendo, che le emozioni di un piatto vengano superate dal successivo.
Il superamento continuo dei limiti è del resto il vero tratto distintivo, almeno in questa fase storica, dell’Osteria Francescana.
Equilibrio? Contrasti? Contrasti in ricomposizione? Equilibri in esplosione? C’è tutto questo nella cucina di Massimo Bottura ma non è solo il “buono” (o il “piacevole”) a non essere più in discussione: la concettualizzazione dell’oggetto edibile finisce per superare anche la fase di valutazione degli equilibri fra gli ingredienti, tale è la corrispondenza fra sensazione e, di volta in volta, memoria, idea o visione. E così ciò su cui il gourmet ha discusso per metà del proprio tempo a tavola finisce per restare sospeso, nell’aria sollevata da un punto di domanda. L’elencazione stessa degli ingredienti, la costruzione dei dettagli diventano superflue di fronte all’importanza del processo.
Esemplare un fugace passaggio dello chef al tavolo: “Asparagi come un cremino, non vi sto a dire come”. Il cliente, con tutto il proprio bagaglio e il proprio vissuto, posto davanti a un concetto ma libero di viverlo senza un dedalo d’appigli a vincolarne la percezione.
A perdere di significato è inoltre la diatriba sulla cucina come arte o come alto artigianato, discussione già sterile in partenza ma qui privata in toto di senso storico.
In via Stella l’arte, nelle opere esposte, nei racconti e dietro al piatto, è tutta intorno con il proprio carico di messaggi sociali, culturali ed estetici.
La cucina di Bottura rappresenta invece, a tutti gli effetti, un’autorevole voce della critica d’arte contemporanea: si fa racconto artistico del milieu di cui si nutre e di cui è possibile, tramite il racconto stesso, nutrirsi. Un “cucinare di pittura” che mette in dubbio le certezze di chiunque un tempo riteneva “danzare d’architettura” assurdo e che perciò fosse impossibile, ad esempio, “parlare di musica”.
Ma, d’altronde, le certezze di oggi non sono che limiti di fronte al progresso di domani.
Assaggi di benvenuto: baccalà con pomodoro, macaron di coniglio alla cacciatora, borlengo, tempura con carpione, corn on the cob (farcito di ceviche).
I pani proposti.
Miseria e nobiltà, ossia ostrica alle erbe e brodo di prosciutto.
Una lenticchia meglio del caviale.
Riso Levante, con agrumi e la vaniglia spruzzati in finitura.
Gnocchi come un’insalata tzatziki. Il viaggio riportato a casa.
Sogliola o rombo? Al cartoccio, al sale o alla mugnaia? In pochi centimetri quadrati un pezzo di storia culinaria, la stravaganza di un cartoccio edibile realizzato con acqua di mare, una materia prima sensazionale e una padronanza delle cotture e degli equilibri irreale.
Autumn in New York, omaggio a Billie Holiday, prima e dopo la finitura con brodo di funghi, piselli, e quel che c’è.
“Osteria Francescana”
This little piggy went to market: 5 preparazioni che portano il maiale in giro per quattro continenti, prima di tornare a Modena con il cotechino finale. Sensazionale.
Il piatto perfetto arriva subito dopo: A volte germano, a volte pernice ma anche bollito unisce la caccia alla storia del locale, con la farcitura di bollito (ovviamente non bollito) e le salse in accompagnamento. Salsa civet un po’ meglio che da manuale.
I compagni di viaggio del germano.
La zucca fra Mantova e Ragusa, con mandorla, mandarino e ravioli aperti di zucca (perché i maestri si omaggiano anche quando non sono più in grado di imparare dai più giovani).
Asparagi come un cremino.
Yellow is Bello, la Torta Mimosa nel 2016.
Piccola pasticceria.
Fra un’ottima bolla, un eccellente abbinamento al calice proposto (Barolo chinato di Cappellano sul germano) e una bottiglia scelta da noi (la clamorosa Ribolla 2000 di Gravner), un intrigante cocktail preparato da un Giuseppe Palmieri sempre sul pezzo.
Articolo co-firmato da Andrea Grignaffini
Uscita contemporanea su lucianopignataro.it
Con questa recensione inauguriamo un nuovo simbolo, lo SFONDO PLATINO, che assegneremo a quei cuochi che si sono particolarmente distinti per aver creato uno stile molto personale e quindi unico, che certamente avranno un posto di prim’ordine nella storia della cultura culinaria mondiale.
Un riconoscimento a quanto fatto e in molti casi a quanto continuano a partorire per l’alta gastronomia.
Un’opera di trasposizione. Così potremmo definire, in poche parole, la cucina di Massimo Bottura: un testo dove si intersecano tecniche, ingredienti, culture, sensibilità e conoscenze in grado di generare, nel piatto, un unicum culturale totalmente personale. E il suo è un unicum autentico, giacché non sussiste alcun punto di riferimento, né storico né attuale, che possa avvicinare lo chef modenese a chiunque altro.
Ovviamente non stiamo parlando solo di cucina, ma di un’attività intellettuale di grande profondità e spessore, da indagare mediante lo spettro multidisciplinare di solito riservato all’opera artistica. E difatti, proprio come un grande artista, Bottura continua a reinventare, anzi a trasporre, portando su piani avanguardistici la tradizione tutta, non solo, ma anche e soprattutto italiana.
Sa inebriare aggiungendo stimoli, spunti di riflessione e verità sempre rispettando la tradizione senza mai violentarla. E poi inventa. Come i percorsi in cui, ad esempio, raggiunge il risultato inebriante del profumo della pizza usando ingredienti completamente altri e fornendo, tra le altre cose, anche spunti di riflessione sulla cucina come possibilità di trasposizione dell’opera d’arte. Prendiamo per esempio la sua pernice “à la royale”: essa rispetta la ricetta, ma lo fa attraverso un percorso attorno al globo che mai nessuno, all’infuori di lui, poteva concepire e realizzare.
Tecnicamente, si tratta di una royale alla francese perfetta, con una salsa dalla consistenza morbida e sugosa, complice il goloso ripieno di foie gras; ecco, questo dice il palato. Eppure, non tutto è quello che sembra. Il foie gras è sostituito dalla testina del maiale, mentre la salsa è realizzata con caffè e fave di cacao che le permettono di raggiungere l’eleganza di una salsa civet attraverso un mole messicano. Il risultato? Fenomenale, spiazzante, inebriante, ma sopratutto buono, buonissimo. Così come dovrebbe essere la cucina stessa, che è sì l’opera di un prestigiatore, un illusionista e un artista, ma anche l’opera di un genio che inanella piatti ed espressioni tendenti alla perfezione, ma con un approccio apparentemente istintivo e ricco, al contempo, di controllo e padronanza. Del resto, è come se operasse nell’arte pittorica: Massimo Bottura padroneggia le tecniche e la cultura figurativa del mondo intero rievocando in ogni piatto tutta la conoscenza del mondo per poi disperderla, annientarla e ricostruirla su altri paradigmi, con altri ingredienti, attraverso altre forme. Se ne deduce un livello di complessità poderoso: e difatti ogni piatto, per qualsiasi altro chef costituirebbe, più o meno, un intero menù degustazione mentre qui è opera nonché l’espediente per una riflessione, veicolo di una sensazione gustativa e di un trasporto papillare unico, contenitore di frammenti esistenziali che, uniti tra loro, sublimano in una cucina che è un’opera unica.
Del resto, se la scorsa decade del nostro millennio è stata cadenzata incessantemente dalla destrutturazione Adrianesca, questa decade è certamente il periodo della Trasposizione Botturiana; un momento cui tutto sembra fedele a se stesso, alla tradizione, senza non solo i confini italiani ma di tutto il mondo, ma che in realtà è frutto di uno stravolgimento e una concentrazione culturale assolutamente straordinaria. E unica. E possibile, peraltro, solo tra le mani di un genio superiore e in un unico luogo del mondo, la sua Osteria Francescana, appunto, che fa riflettere, fa pensare e fornisce stimoli culturali continui. Ma sa anche far gioire le nostre papille che trovano qui la possibilità di esperire una persistenza e una lunghezza gustativa senza pari, e senza ancoraggi, per giunta. È facile comprendere come qui si viene, in effetti, in pellegrinaggio, e a giudicare dal fully booked costante non siamo gli unici a pensarla così. Certo, molti proveranno invidia, tenteranno lo sgambetto oppure, per troppa audacia, si sentiranno autorizzati a provare di tutto pur di demolirlo. Ebbene, sarà un’impresa davvero ardua. Perché qui siamo di fronte all’unico luogo dell’ecumene dove l’arte diventa commestibile, e chi ha la fortuna di vivere in questo tempo non deve farsi scappare questa possibilità.
Quindi correte, mettetevi in coda al telefono o sul web al primo di ogni mese, giorno in cui vengono aperte le prenotazioni per l’intero mese fino a tre mesi di distanza. A Marzo, il primo di marzo, per esempio, quando apriranno le prenotazioni per il mese di Giugno.
Una chiusura importante del cerchio, con gli occhi del mondo puntati addosso, è da riferirsi allo straordinario gruppo che segue, come un punto di riferimento unico, il proprio condottiero. Qui la sala, capitanata da Beppe Palmieri, e la cucina è composta da una squadra di uomini e donne che, vuoi per selezione naturale vuoi per ambizione personale, giacché è difficile stare dietro alla velocità del capo, ha incredibili doti e capacità non comuni.
Quindi Chapeau, Hoed, Quabea, Barret, Sombreiro, Maozì, Hat, Chapo… insomma, in tutte le lingue del mondo!
Aula in carpione, Borlengo e coniglio, Baccalà mantecato… i benvenuti della cucina.
Ceviche in pannocchia tostata.
Il primo abbinamento… un fantastico Sake allo Yuzu.
Miseria e Nobiltà: Ostrica in panure di erbe con brodo di prosciutto (e non solo, anche croste di parmigiano e tanto altro). Un inizio fenomenale.
Il secondo abbinamento: Vermouth bianco e tonica…
Lenticchie quasi meglio del caviale: Salsa di rapa rossa, lenticchie cotte nel brodo di anguilla e colorate al nero… una creme fraiche alla base di sapidità, acetica e concentrazione ittica fenomenale!
Abruzzo: gelatina acida allo zafferano (anche qui il ricordo di un carpione, acetico) che copre della testina di Maiale, dello sgombro ed una crema di aneto, ruta e altre erbe.
Accompagnato da un sidro micidiale…
Chitarra con ricciola bruciata e passata di pomodori verdi affumicati: gel di pomodoro verde grigliato, spaghetti cotti in un brodo di pomodoro rosso filtrato e chiarificato.
E il curioso cocktail in abbinamento…
Si parte con l’accompagnamento enoico.
Uno spaghetto a Okkaido: vongole e ricci di mare, una panure d’erbe e un riscontro di affumicato che pare bacon, ma è ottenuto dal brodo di riduzione delle vongole. I ricci arrivati direttamente da Okkaido hanno completato l’opera.
Zuppa di pesce: con a fianco il concentrato di brodo… un piatto da ola carpiata.
Polenta e riso come una pizza: farina di polenta abbrustolita, crema di pomodoro nascosta e riso mantecato al latte di bufala. Al naso e in bocca un pizza, fragrante, appena sfornata.
La birra abbinata… what else?
Autunno a New York: zucca, frutti rossi, zucchina…
…completato da un brodo di funghi, tartufo e altre mille diavolerie: da picchiare la testa contro il muro.
Un grande Whisky ad accompagnare.
“These little piggies went to the market”: il giro del mondo con il maiale. America del sud, Africa, Asia, Nord America ed Europa. Differenti tagli del maiale abbinati a spezie di ogni singolo continente… un profumo inebriante ed un divertente, ma centratissimo, giro culturale.
E un idromiele, che con il maiale è perfetto!
L’amaro di questo fantastico Barolo chinato…
…per il piatto dei piatti: a volte pernice, a volte germano… anche bollito, in salsa civet o mole.
Accompagnato da crostino di pane, burro e tartufo.
E il terzo servizio: brodo di funghi e tartufi, una royale (o chawanmushi, che dir si voglia) al vapore sul fondo, dischi di verdure a completare.
Un tortello di zucca che vuole diventare un cannolo alla siciliana.
In abbinamento al piatto un ottimo Vermouth rosso.
Yellow is bellow: la reinterpretazione della torta mimosa.
Nuove sfide.
Le uniche in grado di spazzar via la monotonia e scrollare di dosso la polvere della stabilità, della sicurezza, della routine.
Lo straordinario che diviene il nuovo, non in quanto favoloso bensì inteso come non-ordinario, in senso letterale.
Rimettersi in gioco: aria nuova, nuovi confronti, scommesse azzardate.
Arrampicarsi faticosamente in cima e, una volta raggiunta la vetta, spazzare via tutto per ricominciare, per tentare di tornare ancora più in alto.
Che sia una forma di lucida follia? Può darsi, certamente ci vuole un briciolo di irrazionalità e, comunque, tanto coraggio. Un vero e proprio sport estremo, nascosto nelle pieghe dell’ordinario.
Yoji Tokuyoshi in cima ci è arrivato, passo dopo passo, a piccoli passi. Nove anni trascorsi tra routine, perfezionismo, ripetitività e testardaggine. Un lavoro come tanti il suo, non fatto come tanti ma meglio di tutti, fianco a fianco dello chef del momento. Per questo, una delle posizioni probabilmente più invidiate nel settore: secondo di Massimo Bottura in Osteria Francescana. Colui che, in assenza del leader Maximo, dirige le cucine di uno tra i migliori ristoranti sull’ecumene terrestre, il ristorante che ha riscritto le pagine della gastronomia italiana degli ultimi anni. Anni di fatiche, certo, di sforzi, di sudore, vissuti non da stagista capitato nel periodo fortunato ma da asse portante, da ruota sterzante del carro.
Fatiche ripagate da un vero e proprio trionfo unanime di critica, pubblico e parere di colleghi.
Poi un bel giorno ti svegli e, come un fulmine a ciel sereno, decidi che non è più tempo.
Basta così.
Nonostante l’altissimo livello, forse la vita da “secondo” inizia a stare stretta. Cancellato tutto, si ricomincia da zero. Un nuovo ristorante, dove metterci la faccia, il nome, e assumersi la totalità degli oneri, dei fardelli che una scelta del genere porta con sé, con benefici, certo, ma soprattutto con rischi, talvolta, anche altissimi.
Ma del resto, “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”
Un adagio popolare, che mal si addice alla straordinarietà tuttavia, in questo come in molti altri casi, serba un pizzico di verità.
Nove anni in un team d’elite, ai comandi di una macchina vincente, forgiano una mentalità indiscutibilmente vincente e un approccio, forse, di beata sicumera. Ma, dura lex valida per tutti i campioni, è necessario che la totalità dei tasselli siano al posto giusto per continuare a primeggiare, ed è per questo che questo nuovo attore della cucina contemporanea italiana, a tratti, sembra vacillare.
In via San Calocero, a Milano, risiede oggi indubbiamente un campione, che non riesce però ad esprimersi come tale in quanto le condizioni per farlo, ancora, non ci sono.
È per questo che la cucina di Tokuyoshi è, tuttora, un continuo e inesorabile richiamo alla Francescana, una continua e indefinita citazione sul filo che separa la forma mentis dal plagio; e infatti, se molte delle piccole idee, come germogli, a Modena trovavano terreno fertile per divenire grandissimi piatti, a Milano rimangono in stato embrionale, soffocati dalla carenza di terra e acqua.
Un continuo toboga in bilico tra sottocoppia e fuorigiri, con piatti che giungono in tavola portando in dote temperature incorrette, carenze di contrasti, deficit di concentrazioni o ridondanze evidenti intervallati ad altri nettamente più risolti e compiuti, che mostrano chiaro e limpido l’ingombrante background di colui che li ha pensati ed eseguiti.
Come un germoglio in stato di sofferenza, Yoji sembra risentire della mancanza di un team affiatato, in grado di affermarsi come tale durante tutta la sintassi del pasto, in tutti quei passaggi che dividono l’idea dal piatto perfetto: è per questo che, al momento, questa tavola fatica a trovare -e a mantenere- tanto la rotta quanto la velocità di crociera.
Può un grande Secondo diventare un grande Chef? Certamente, a patto però che si ripristinino tutte le condizioni di partenza, perché il solo background rischia di restare una fondamenta priva di sostanza.
Come un pregiato tondino d’acciaio, che rimane tale senza la presenza degli indispensabili acqua e sabbia necessari per divenire cemento armato.
Gli Appetizer, che seguono la scelta del menù.
Nel nostro caso quello più ampio (chiamato “Sensazioni”, con un evidente richiamo al suo maestro), che negli otto mesi dall’apertura ad oggi è già stato ritoccato verso l’alto nel prezzo, da 80 a 100 Euro.
“Bruschetta di canocchie”.
Piatto essenziale, che risente della non rilevante qualità della canocchia. Decisamente migliore il brodo di crostacei in accompagnamento, concentrato e carico di umami, da bere in chiusura.
La prima bottiglia, per iniziare.
“Cannolicchi nel porro”.
Piatto goloso, che però trova a fatica un punto d’incontro tra la natura filamentosa del porro e quella gommosa del cannolicchio. Nemmeno la concentrata salsa di caciucco, versata a finire il piatto, riesce a creare una doverosa amalgama.
“Sarde bruciate non bruciate”
Pregevole la presentazione (nonostante “l’ispirazione” evidente, tanto nello stile quanto nel nome), che utilizza la tecnica Gyotaku per la stampa della testa del pesce sul piatto. Peccato che il riscontro al palato sia alquanto basilare, ovvero poco altro che un filetto di pesce, nulla più nulla meno.
“Scampi a merenda”.
Uno scampo, tagliato longitudinalmente e unto con dell’olio siciliano, farcito con del mascarpone all’interno del carapace. Vista l’esiguità e la difficoltà di estrazione del formaggio, all’atto pratico uno scampo all’olio. Evidente inoltre l’eccesso di grassezze e la carenza di contrasti.
Il secondo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina.
“Lumache & Anguille nella vigna”
Ci risiamo: ispirazione evidente oltre ogni spiegazione, tanto nel nome quanto nell’impiatto, purtroppo non nel risultato finale. Fungo, anguilla, lumaca, salsa, foglie, lardo di Colonnata: oltre alla ridondanza, ogni ingrediente prende una strada differente dagli altri, senza mai raggiungere una fusione auspicabile.
“Risotto alla milanese sempre croccante”
Altro giro, altra… ispirazione: piatto molto, molto simile ad uno del 2011 già provato a Modena. In ogni caso, qua il passo cambia, la portata si rivela piacevole, golosa e divertente.
Riso all’olio con pelle di pomodoro.
Altro piatto ben riuscito, rivolto prettamente verso le note dolci ma equilibrato e piacevole. Cottura magistrale del riso e ottima mantecatura.
Il terzo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina (no, non è un maldestro copia-incolla non corretto dal vino precedente).
“Piccione”.
Il piatto della serata: davvero eccellente, con il piacevolissimo contrasto tra lo jus e la nota pungente-piccante del rafano.
Praticamente inutile invece il dolce bicchierino di succo di pomodoro, servito a parte, in quanto non complementare al piatto.
Il predessert: meringa, erba fungo, zafferano.
Il dessert, “Cemento e Terra”.
Dolce molto, molto buono, dallo stile moderno ma gradevole e sostanzioso. Meringa al carbone vegetale, gelato al topinambur, mascarpone, crumble salato al cacao.
Il bancone ereditato da Wicky’s, il predecessore. Chiedete espressamente di volervici sedere all’atto della prenotazione, se gradite.
Curiosi dettagli all’ingresso.
No more excuses, “basta con le scuse”.
Questa è la scritta che campeggia sulla facciata del Refettorio Ambrosiano di Milano voluto da Caritas Ambrosiana, Massimo Bottura e Davide Rampello.
Come raccontatoci, questo progetto non è soltanto beneficenza, bensì un movimento culturale che sta riunendo i protagonisti dell’alta gastronomia mondiale, i quali non solo vengono e cucinano (splendidamente), ma diventano essi stessi ambasciatori di questa idea nel mondo.
Un luogo costruito in tempo record, grazie al contribuito di grandi designer, artisti e aziende italiane che hanno creduto nel progetto con un grande senso di generosità civile, come l’ha definita Rampello. Perché questo non è un luogo dove si mangia, ma dove ci si alimenta di qualcosa che va oltre il cibo. E qui si può ritrovare la dignità di se stessi, quell’amor proprio senza il quale nessuno di noi è degno di essere uomo.
Il cibo buono, servito in un ambiente bello come questo, è una tappa fondamentale per il cambiamento di queste persone meno fortunate, seguite da Caritas, che qui riescono a respirare un’altra aria e a sentirsi finalmente “degne” di credere ancora in se stesse.
L’ambiente ricreato sulle ceneri di un vecchio teatro in disuso, nella zona periferica di Greco, è stato completamente trasformato e rinnovato grazie al progetto realizzato dal Politecnico di Milano e poi attuato con lo sforzo prezioso di tante aziende italiane che, unite, hanno saputo dar vita ad un luogo di aggregazione unico al mondo. Pareti completamente rivestite di boiserie in legno, illuminazione studiata nei minimi dettagli, cucina di ultima generazione con una cappa di rame unica al mondo alta 10 metri (costruita nella ex torre scenica del teatro), e un affresco a parete lungo 11 metri realizzato dal pittore Enzo Cucchi.
Non siamo certi che ad Expo tutti i padiglioni abbiano colto in pieno il vero senso di “nutrire il pianeta”, ma siamo invece sicuri che il Refettorio Ambrosiano lo sta facendo egregiamente, e per di più non terminerà -per fortuna- fra tre mesi.
Il refettorio non è ovviamente aperto al pubblico, ma straordinariamente domenica 9 agosto è stata organizzata una splendida cena di raccolta fondi, con protagonisti gli chef sudamericani Enrique Olvera, Rodolfo Guzmàn, Carlos Garcia e Matìas Perdomo, che hanno realizzato un menù ad hoc con gli avanzi (in termini ovviamente di surplus, commestibile e sicuro, inutilizzato) provenienti da Expo.
La cena di beneficenza è stata ovviamente all’altezza della situazione e, considerando che i quattro chef hanno appunto dovuto “accontentarsi” di quanto arrivava da Expo e hanno dovuto preparare una cena per circa 80 persone (tutte con lo stesso menù), i risultati sono stati sorprendenti, superiori alle aspettative (se di aspettativa si può parlare, in un’occasione del genere). E il servizio in sala gestito dai volontari non è stato certo da meno.
Visto il successo probabilmente a Settembre probabilmente si replicherà: quindi questa volta ancor di più NO MORE EXCUSES!
E fate come abbiamo fatto noi, senza esitazioni, iscrivetevi e diventate sostenitori di questo straordinario progetto. Passione Gourmet c’era e ci sarà ancora.
Chiunque desideri informazioni o gradisca sostenere il progetto Refettorio Ambrosiano, clicchi qui.
Bottura e alcuni degli addetti al servizio in sala (volontari) danno il benvenuto agli ospiti.
“L’essenzialità del pane” accoglie gli ospiti all’ingresso del Refettorio.
Bottura con i quattro chef sudamericani che hanno preparato la cena.
L’ottimo pane, realizzato con lievito madre nel forno del Refettorio.
Cocco, parmigiano e lamponi. Un piatto semplice e ben equilibrato per iniziare.
Pomodoro con il cuore, sorbetto di anguria, passion fruit, crescenza, capperi e origano.
Mole dell’orto con zucchine cotte e crude, aglio, cipolla e prezzemolo. Uno dei migliori piatti della serata, per consistenza e concentrazione di sapori.
Consommé di manzo e rafano con uovo, ceci, salame e polenta: molto intenso.
Orata con salsa bernese, aglio , purea di melanzane leggermente affumicate e agrumi.
Pulmai freddo: un tipico piatto sudamericano, di solito caldo, qui in versione rivisitata realizzato con un brodo affumicato, cetriolo, mela verde e citronella. Forse la nota affumicata qui è un po’ troppo accentuata ma l’acidità pronunciata aiuta a pulire il palato e ci prepara per il dessert.
Platano balsamico con crescenza, limone e noce moscata, molto gradevole e goloso.
Riso, latte, funghi e rafano realizzato con riso carnaroli affumicato, riso rosso e farro con gelato di funghi; Un curioso finale-dessert che richiama pane-latte e zucchero, il mood dell’iniziativa che campeggia anche sull’affresco del refettorio.
Un runner d’eccezione.
La cena è finita, la tensione è passata ed è il momento di fare baldoria!
Il Refettorio Ambrosiano e gli ospiti della cena.