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Four Seasons Canary Wharf

Se Scorsese avesse deciso di girare il suo Wolf of Wall Street in Europa, senz’altro le riprese sarebbero avvenute nella città di Londra, più precisamente nel quartiere di Canary Wharf. Ex area portuale per il commercio marittimo con le Canarie (da qui il nome), questa zona londinese da una ventina d’anni è protagonista di una radicale riqualificazione, e da area di stoccaggio merci è divenuta sede praticamente di tutte le società finanziarie e bancarie possibili immaginabili.

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Four Seasons non ha certo bisogno di grosse presentazioni. Nata in Canada, è quasi certamente la catena di soli hotel extra-luxury più organizzata e nota al mondo, con poco meno di cento sedi omogeneamente sparse per il globo, che si contraddistinguono appunto per il massimo lusso e per servizi tailor made oltre l’immaginabile. Estremamente rinomata è l’assistenza clienti online, dalla rapidità ed efficacia sbalorditive, nonché il suo servizio di concierge, in grado entrambe di soddisfare le esigenze più disparate: per le nostre richieste (prenotazioni di ristoranti e delucidazioni varie) non abbiamo atteso mai più di 12 ore per una risposta risolutiva.
L’accesso in stanza è possibile dalle ore 16, ma siamo arrivati al check-in poco dopo le 9, già con l’idea di lasciare i bagagli in deposito e partire per la città. Invece senza una piega -anzi, con un sorriso- e dopo un rapido controllo, in cinque minuti ci è stata messa a disposizione la nostra camera, senza sovrapprezzo né disagi. Chapeau.

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La città di Londra ospita due sedi Four Seasons, quella di Park Lane e la seconda, più recente, di Canary Wharf. Questa struttura, dalla chiara impronta business, nasce espressamente per servire tutta la clientela di passaggio qui per lavoro, ma che non vuole rinunciare a spazi e servizi di alto profilo. Non pensate a un hotel business tradizionale però, ma più semplicemente ad un Four Seasons epurato da statue, marmi e bassorilievi. La struttura è recentissima, costruita nel 1999, in una posizione di assoluta comodità, affacciata sul Tamigi, con una parte delle camere con vista sui grattacieli del quartiere, e le restanti con una splendida vista su tutta la città, con delle ampie vetrate con tanto di seduta.
Le camere come la nostra, nominate “Deluxe room”, sono identiche alle altre nella planimetria, ma sono poste ai piani più alti dell’edificio e rivolte verso il fiume e la città, per una vista a 180° davvero magnifica.

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Chiaramente, non solo business: grazie alla fermata della DLR a due passi, che collega Canary Wharf all’aeroporto di London City in soli dieci minuti, e la fermata della Jubilee Line a qualche minuto a piedi, che in meno di un quarto d’ora vi accompagna ai piedi del Big Ben, questo hotel è da tenere in seria considerazione anche come appoggio per vacanze di piacere. Le camere, vista anche la media cittadina, sono decisamente grandi, comodissime anche se si viaggia in più di due, con un’ampia e accogliente zona living ed un bagno davvero spazioso, con vasca e doccia separati.

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Ulteriore segno che questa struttura non si rivolge esclusivamente alla clientela business è l’attenzione dedicata ai più piccoli. Senza alcuna richiesta specifica, ma semplicemente grazie all’accredito, troverete in camera tutta una serie di attenzioni a loro dedicata, oltre al lettino ed al seggiolone.

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La piscina e la palestra non si trovano all’interno dell’hotel, ma è attiva una convenzione con il Virgin Active adiacente: per tutta la durata del soggiorno tutti gli ospiti hanno libero accesso a tutti i servizi della struttura, posta a 10 metri dall’hotel (la palestra e la piscina sono le strutture visibili sotto le finestre).

L’offerta ristorativa è molteplice, ma semplice e non particolarmente di grido. Punta di diamante è il Quadrato Restaurant, specializzato in cucina italiana, oltre al bar lounge, ben fornito per un cocktail, per un veloce pranzo o un afternoon tea. Date le smisurate alternative che la città offre per colazione, pranzo e cena ci siamo rivolti altrove, ricorrendo al room service soltanto in una sera, ove la stanchezza ha avuto la meglio. La nostra scelta è ricaduta sul classico per antonomasia, il Club Sandwich (18£), e su un Bacon Cheese Burger (18£). Buono il rapporto qualità/prezzo per il servizio, disponibile per tutto il giorno con la carta completa, e con una selezione della carta fruibile 24 ore su 24, in stanza in quindici minuti (in realtà ce ne vorranno una decina in più).

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Molto buono il Club Sandwich, eseguito in versione classica con l’uovo, servito con patate fritte. Meno convincente il Cheese burger, richiesto con cottura rare e servito poco oltre il medium, con verdure grossolane e leggermente fredde. Anch’esso con patate in accompagnamento. Il tutto è corredato da salse e “petit fours”.

Per quanto riguarda il minibar, nella norma (seppur non entusiasmanti) le bevande. Un poco più sfiziosa e variegata la proposta degli snack, dolci e salati.

frigobar, Four Seasons Canary Wharf, Londra, Hotel Four Seasons Canary Wharf, Londra, Hotel

I prezzi per una stanza non sono certo a buon mercato (si parte dalle 200£ a notte, a salire), anche se inferiori alla maggioranza dei Four Seasons europei. Tenete controllate le tariffe, altalenanti in funzione del periodo e riuscirete a concedervi, ad un prezzo assolutamente corretto (soprattutto se paragonato al livello di servizio), un long-weekend di assoluto piacere, che ricorderete senz’altro per parecchio tempo.

Four Seasons Canary Wharf, Londra, Hotel

Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London

Ci sono cucine che non sono mai state una moda. Fatta eccezione per la nostra, per quella francese e per qualche altro rarissimo caso, arriva però sempre il momento in cui il mondo gourmet, specie quello occidentalizzato, partendo da una precisa zona geografica del Globo, scopre una nuova corrente culinaria e la lancia come la “moda del momento”.
Un tormentone che resta sulla bocca di tutti per qualche anno o poco più. E’ successo con l’Asia e la cucina fusion qualche tempo fa, poi è stato il turno della cucina molecolare spagnola, infine, in tempi ben più recenti, con i paesi scandinavi e la “Nordisk Mad” di Redzepi & co.
Non sono passati nemmeno 5 anni dal trend nordico che nell’attuale “gastro-cosmo” imperversa già un’altra moda. Oggi assistiamo all’ascesa della cucina peruviana.
Probabilmente anche in Italia, ben presto, la parola “ceviche” sostituirà nomi più comuni come sushi, sashimi e tartare e i confini della patata si espanderanno; tutti saranno pronti ad accogliere nuove ed interessanti specie del tubero più amato al mondo.
Sarà una moda passeggera? Non pensiamo proprio, anzi, ci sentiamo più che certi del grande potenziale delle tradizioni alimentari del Perù, dei suoi ingredienti e della nuova cucina peruviana, fresca, aromatica, leggera e golosa. Forse perché ha molti punti di contatto con la cucina mediterranea a noi cara, forse perché offre la possibilità di scoprire materie prime singolari e sorprendenti.
E pensare che bastava leggere le prime righe di wikipedia per scoprire che questa cucina “è una delle più variegate del mondo ed il Perù è il paese con il maggior numero di piatti tipici: 491“.
Bene, se volete addentrarvi in questo nuovo e affascinante universo gastronomico, non serve volare in un altro continente, ma basta andare a Londra e prenotare un tavolo al Lima, la succursale europea del ristorante sudamericano di Virgilio Martinez, al contempo giovane ristoratore e talentuoso chef, proprietario del Central, appunto, a Lima, che attualmente occupa la cinquantesima posizione nella classifica del World’s 50 Best e addirittura la quarta nella classifica ad hoc organizzata sempre dalla San Pellegrino per l’America Latina.
Aperto nell’estate 2012 insieme all’imprenditore trentaduenne Gabriel Venezuelan, allo chef Robert Ortiz, fido collaboratore di Martinez, è bastato un anno per far guadagnare al ristorante la stella Michelin rendendo il Lima il primo ristorante di cucina peruviana in Europa a fregiarsi dell’ambito riconoscimento della rossa. E non finisce qui: ben presto il cuoco peruviano bisserà il successo aprendo, sempre a Londra, un altro ristorante insieme al celeberrimo Gaston Acurio, il mentore di Martinez.
La cucina è vibrante, variegata e divertente ed è trainata dall’energia dei colorati ingredienti, sconosciuti alle nostre tradizioni alimentari, principalmente prodotti della terra come tuberi, peperoncini (si coltivano solo in Perù specie come il famoso peperoncino giallo chiamato ají amarillo o il rocoto), diverse tipologie di mais, frutti rari e ben altro. Una cucina che non si esaurisce in una riproposizione semplicistica dei piatti tipici nazionali, esplorando la rivisitazione delle tradizioni del Perù e concependo una cucina di nuova identità, permeata anche da influssi giapponesi, vietnamiti, francesi, brasiliani e finanche da qualche richiamo alla cucina italiana. Una cucina sicuramente originale che ci ha colpito anche sotto il profilo tecnico con un etereo fritto o delle equilibrate e variegate marinature.
Il tutto in un ambiente spartano ma trendy, sviluppato su due livelli: scantinato con bancone bar dove si può pescare, per restare nel territorio, un ottimo cocktail dalla intrigante selezione dei supermodaioli “pisco sour”, e una piccola e colorata sala con cucina a vista al piano terra.
E’ un peccato che i tavoli siano davvero troppo ravvicinati. Ma pare che questo spirito conviviale piaccia molto ai londinesi: infatti il locale ha avuto sin da subito grandi consensi cittadini e lavora a ritmo serrato facendo turni da capogiro.
E’ aperto a pranzo e a cena (eccetto la domenica) e offre un menù a dir poco conveniente: oltre la carta c’è un lunch-menu e un pre-theatre menu, con la possibilità di scegliere tra 2 o 3 piatti al rispettivo prezzo di 20 o 23 sterline, cifra commovente in una delle città più care d’Europa, specie se si considera l’ottima qualità dell’offerta. A cena, invece, il prezzo sale leggermente con un tasting menu da 5 portate chiamato “Lima Hoy” a 48 sterline. C’è anche un servizio giovane, sveglio e simpatico, ovviamente efficientissimo.
L’unico rimpianto? Aver assaggiato pochi piatti. Ma rimedieremo, magari andando proprio a Lima.

Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Pane, originalissimo, con semi di chia accompagnato da golosa crema di yogurt di capra e maca (una radice peruviana).
pane, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Molto molto buono il tipico Pisco Sour Maracuyá, con frutto della passione.
pisco sour, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Ceviche di salmone marinato con il Rocoto ají e cipolla rossa: piatto con una perfetta marinatura, molto piccante ma saggiamente addolcita dagli altri elementi come la piacevole salsa “leche de tigra” sottostante.
ceviche di salmone, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Gran piatto il ceviche caldo di branzino avocado e quinoa nera fritta, completo nelle consistenze e mai monocorde.
ceviche caldo, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Anatra marinata al sale, noccioline amazzoni, maionese di barbabietola e Canchita corn. Piatto servito tiepido. In questo caso le tonalità dolci-grasse prevalgono sull’acre.
anatra marinata al sale, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
In chiusura il gelato al Dulce de leche, emulsione di barbabietola e crumble di biscotti e radice di chia.
dulche de leche, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
..intravediamo la saletta principale.
saletta principale, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
I ravvicinati e spartani tavolini.
spartanin tavolini, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
tavolini, Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London
Ingresso.
Lima, Chef Robert Ortiz, Virgilio Martinez, London

Camminando tra la folla impazzita di Oxford Street in un lunedì di Bank Holiday (le festività nazionali inglesi istituite da Sir John Lubbock per consentire originariamente ai bancari di assistere alle partite di cricket) è davvero difficile immaginare che, allontanandosi di pochi metri, ci si possa trovare in un’oasi per gourmet come il Pollen Street Social.
Un locale curatissimo e molto alla moda, con tavoli ben distanziati che smentiscono l’attesa di trovarsi in un “contemporary bistrot” come avevamo letto sul sito.
Locale che è il capostipite di una piccola galassia fatta di altri due ristoranti londinesi e di tre “fratellini” asiatici creata da Jason Atherton, navigato chef già al fianco di Pierre Koffmann, Nico Ladenis, Marco Pierre White e, a lungo, di Gordon Ramsay per il quale ha terminato la sua carriera al comando del Maze.
Tutto trasuda esperienza e professionalità, in cucina come in sala, in cui operano altri vecchi (per modo di dire) marpioni come il General Manager Michael West, anch’egli di provenienza “ramsayana”.
Belli gli arredi (anche comode le sedie di Hans Wegner), servizio persino pletorico per numero di addetti e cura del cliente (col piccolo neo della lunga attesa del conto finale e la chicca del “servizio del tappo” su contenitore dedicato), menù e carta dei vini pensati e prezzati per attrarre qualsiasi tipo di clientela. Non a caso è un successo, nonostante la forte concorrenza.
Pescando tra le proposte del giorno (3 portate a 29,5 sterline, un affare) o scegliendo il menù degustazione (da 8 portate a 79 pound), non potrete rimanere delusi: si tratta di cucina solidissima, molto elegante nelle presentazioni, attualissima nelle combinazioni di ingredienti.
A rappresentarla in maniera perfetta uno dei main courses scelti: la pancia di maiale del Wiltshire, con la sua guancia speziata, patate fondenti, mela arrostita e black pudding. Non un difetto nelle cotture, ottima materia prima, bellissima presentazione. Un ottimo piatto che non può non piacere.
Se dobbiamo trovare un limite a questo tipo di proposta è la mancanza di originalità, di qualche guizzo fuori dal seminato che faccia pensare che Atherton ogni tanto decida di “rischiare” qualche piatto per andare oltre. Da uno chef che, come dice nel suo sito, è stato il primo britannico a fare uno stage al Bulli, ricavandone ispirazione per la sua ricerca, è lecito che un gourmet si attenda qualche sorpresa in più, ma il suo successo d’imprenditore spiega che forse ha ragione lui.
Ad accompagnare il pranzo, dalla carta dei vini ricca di ottime proposte anche alla mescita, abbiamo scelto con convinzione, per onestissime 40 sterline circa, il Saumur 2011 di Guibertau, che le vale tutte.
Una tappa da consigliare soprattutto a chi si avvicina all’alta cucina e voglia continuare nel percorso senza esagerare nell’investimento.

Gli amuse-bouche.

Pane, in una delle tre possibili declinazioni, tutte ben riuscite.

Terrina di testina di maiale e foie gras con uva spina e puré allo chardonnay.

Vellutata fredda di piselli con sorbetto ai piselli, panna acidulata e gamberi. Non originalissimo, ma davvero un piatto di alta scuola, con il giusto ruolo di primo attore lasciato al gambero di ottima qualità.

Uovo cotto a bassa temperatura, funghi su toast e pelle di pollo croccante. Bellissimo, ma una sensazione di già visto e provato è inevitabile.

Merluzzo arrostito con piselli, cipolle caramellate, zuppa di vongole e prezzemolo. La cottura del pesce si vede già in foto e l’accompagnamento è davvero incisivo.

Guanciola di manzo brasata, midollo croccante, baby vegetali. Golosissimo.

Il maiale.

Sorbetto al limone e verbena, meringa al bergamotto e gelatina all’olio d’oliva. Interessante e molto leggero.

Parfait di cagliata di capra, albicocca, mandorle candite, timo e basilico. Un abbinamento classico (mandorla e albicocca) ravvivato dalla gentile acidità del parfait e dai contrappunti aromatici delle erbe. Molto buono.

Come presentare un tappo facendo bella figura.

the corner room, Londra

Bethnal Green non è la zona più bella di Londra, decisamente. Ma se già con il suo Viajante Nuno Mendes era riuscito a portare molti foodies londinesi e non (noi compresi) da queste parti, col The Corner Room lo scherzo gli riesce di nuovo.
Va detto che nessuno se ne pente, perché con quest’avventura parallela (The Corner Room è il fratellino minore del Viajante ed è ospitato nello stesso, bellissimo hotel, il Town Hall) lo chef e ristoratore portoghese offre un rapporto qualità/prezzo davvero eccezionale per Londra.
Il menù non vastissimo permette di comporre la propria combinazione entrée-plat-dessert scegliendo fra tre o quattro portate e la fortuna di avere dei commensali è anche quella di poter spaziare in lungo e in largo, per cui l’abbiamo provato quasi per intero.
Senza cadute, con cotture perfette (esemplare quella della trota dalla consistenza sensuale al palato) e una grande leggerezza che tocca il suo vertice nel maiale iberico con ciliegie in agrodolce e cous cous, una combinazione davvero riuscitissima per la freschezza del cous cous che ne diviene quasi il primo attore.
Una cucina piena di stimoli: mediterraneo, Inghilterra, tocchi d’Oriente, che possiamo classificare tra le cipolle soprattutto per la volontà di essere molto “casual”, sempre ghiotta, piacevolmente alla portata di tutti. Un fratello meno ambizioso del Viajante ma altrettanto stimolante e più abbordabile, per attrarre davvero la clientela più ampia possibile purché disponibile a uscire dalle zone del turismo più battute.
Carta dei vini piuttosto ristretta ma tutta fatta da scelte pensate che spaziano dal belpaese, alla Francia, all’Austria, al nuovo mondo. Noi abbiamo pescato con soddisfazione un fresco e non banale Gruner Veltliner, lo Stadt Krems ‘Weinzierlberg’ 2011 di Kremstal, dall’intrigante naso agrumato e dalla piacevolissima mineralità.
La musica in sottofondo è tutt’altro che scontata (una selezione molto eclettica tra USA e UK, classici pop e rock e ultime uscite di gruppi indie) e contribuisce a una delle più divertenti esperienze culinarie recentemente provate.

Pane e burro a volontà (non esagerate…).
pane, the corner room, Londra
Ajo blanco con pesca bianca: bella versione, il mediterraneo nell’East London.
ajo blanco, the corner room, Londra
Sgombro con ponzu e pomodoro affumicato: digressione giapponese perfettamente governata.
sgombro, the corner room, Londra
Cervo brasato con uva affumicata: unico piccolo passo falso la salatura eccessiva, in questo piatto più ispirato all’Inghilterra.
Cervo, the corner room, Londra
Chawamushi con fiori e asaparagi: il budino salato giapponese in una versione di bella intensità, anche grazie all’asparago grigliato.
Chawamushi, the corner room, Londra
L’ottimo maiale iberico.
maiale iberico, the corner room, Londra
Trota salmonata con finocchio, cereali e formaggio di capra (childwickbury): la grassezza della trota, esaltata dalla cottura millimetrica, è ben bilanciata soprattutto dalla freschezza del formaggio.
trota, the corner room, Londra
Rabarbaro affumicato con gelato al latte affumicato: il piatto più modaiolo del pranzo è comunque un’ottima riuscita, nei ping pong dolce amaro che lo rendono tutt’altro che stucchevole.
Rabarbaro, the corner room, Londra
Mela e nocciola con gelato di pannacotta: più tradizionale, molto goloso.
dessert, the corner room, Londra

Mikael Jonsson ha avuto, nel 2011, un’idea folle: lasciare la carriera di avvocato per inseguire il suo sogno gourmet, fino ad allora alimentato attraverso i viaggi e il suo famoso (tra noi “addicted”) blog Gastroville. Ha scelto, quindi, Chiswick, sobborgo benestante del West London per creare il suo Hedone, probabilmente senza immaginare il dopo. Nessuna esperienza in una cucina professionale, mai gestito un ristorante, in una città fra le più competititive del mondo era davvero una bella scommessa.
Immediatamente la critica locale, e poco dopo la Michelin, l’hanno reso famoso fuori della cerchia ristretta che si aspettava di avere, facendone un piccolo “caso” e mettendolo nella difficoltà di gestire un successo inaspettato.
Difficoltà legata soprattutto alla maniacale attenzione alla materia prima che lo contraddistingue, non solo perché gourmet esigentissimo, ma perché affetto sin da piccolo da allergie alimentari. Per dire: dato che il suo pane di riferimento è quello di Alex Croquet e dato che non ha trovato nulla a Londra che gli si avvicinasse, ha pensato bene, sin dall’inizio, di farselo da solo (con risultati davvero eccellenti per la verità).
Al di là del fascino della storia, va detto subito con chiarezza che l’Hedone è un ottimo ristorante: tutt’altro che un neo bistrot (la cucina a vista è decisamente popolata di gente che si sa muovere e la sala è gestita con professionalità notevole), piuttosto un ristorante “neoclassico”, con una cucina millimetrica il cui unico limite, a voler essere pignoli, è nella mancanza di un’originalità assoluta.
Tutto però funziona a meraviglia: piatti molto belli, che esaltano una materia prima pescata senza paraocchi, dove c’è il meglio (la meravigliosa insalata di pomodori con gelato di yogurt e mostarda utilizza, naturalmente, prodotti siciliani e, alla faccia dei maniaci del chilometro zero, è un piatto che avremmo davvero amato trovare in un ristorante italiano).
Una bella sequenza, quella del menù degustazione, pesce o carne che sia, persino le paste fresche senza errori: un fuoco di fila molto pensato, da cui si capisce passione, conoscenza di quello che succede in giro e cultura gastronomica.
Un piatto emblematico è il piccione con variazione di barbabietola: cottura davvero per gourmet, a meno che non gli si chieda di cucinarlo di più rovinandolo (nel suo blog lo chef si lamenta di quanto spesso gli chiedano la sua splendida sirloin steak “well done”), salsa tirata alla perfezione, verdura d’accompagnamento declinata in praticamente tutti i modi possibili.
Ricca di chicche e prezzata in maniera molto corretta a queste latitudini la carta dei vini, piena di proposte anche al bicchiere (per noi un Pinot Blanc di Josmeyer che seguiva con successo soprattutto la prima parte del pranzo).
Altra nota di merito: i prezzi a pranzo sono davvero convenienti. Un menù degustazione di 7 porzioni più coccole a 55 pound è un ottimo affare.

Il pane nella sua declinazione “bianca”. Buonissimo, come anche in quella “nera”.

Ostriche di Cornovaglia con mela Granny Smith e scalogno: materia prima da urlo e combinazione a prova d’errore.

Cappasanta con i suoi succhi e alghe: di intensità rara il succo di cottura, “rinforzato” con alga nori.

Pomodori medterranei, sorbetto di yogurt, aneto e mostarda d’Orléans, di freschezza davvero mediterranea.

Ravioli con ripieno liquido di parmigiano con consommeé di cipolla, pancetta e spuma di rafano: pasta impeccabile, ripieno “ficcante”, leggerissimo il tocco del rafano.

Coscia e petto di piccione con variazione di rapa rossa.

Blanc manger di mandorla e albicocca: scolastico ma ben fatto.

Cioccolato caldo, polvere di ribes, gelatina di passion fruit e gelato alla vaniglia: un dolce forse non da pasticciere, ma davvero riuscito.

Chiusura dolce perfettibile (il macaron un po’ duro).