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Takao Takano

A Lione uno chef giapponese studia e sviluppa l’estetica del gusto europeo

Lo spirito intellettuale di Takao Takano, chef dell’omonimo ristorante a Lione, si è formato e plasmato dal continuo confronto con il diverso, interpretato nell’accezione di nuovo. Quest’incontro, ha dato vita a una cucina che fa fede alla legge non scritta degli opposti che si attraggono, secondo la quale la verità sta nella differenza, che va cercata e sviluppata in ogni sua forma.

Lasciato il Giappone, senza avere alle spalle una formazione culinaria completa, Takano decide di intraprendere il suo percorso formativo con Nicolas Le Bec. La tecnica francese, applicata al rigore giapponese, dà spesso vita a una commistione vincente, alla quale Takano aggiunge una giusta dose di sensibilità che regala bocconi di cultura, esempio di integrazione e convivenza. Il menu degustazione è un manifesto che trae ispirazione da riflessioni, letture e dalla crescita umana relativa all’incontro con esperienze esterne. Senza tralasciare la propria identità, lo chef si approccia alla cucina con una psicologia di tipo associativo che affianca alla leggerezza e alla nettezza del DNA giapponese, la grassezza e l’assonanza tipicamente francese. Lo stile mostra la sua cifra attraverso gli impiattamenti, sempre circolari, che guidano la degustazione in profondità, con una salsa che abbraccia l’elemento principale legandolo con straordinaria armonia al resto del piatto. Le acidità calibrate sono il vocabolario grazie al quale gli ingredienti trovano il modo di dialogare, dettando il ritmo della loro entrata in scena e i limiti entro i quali possono spingere la propria esuberanza.

Studio continuo applicato alla cultura europea

Merluzzo, schie, percebes, salsa al cardamomo e fave regala l’immagine della mente di Takano completamente aperta e libera. La quiete e la tempesta in una fioritura primaverile, che vede la placidità delle schie incontrare la violenza delle maree oceaniche con i percebes e il merluzzo. Prodotti marini agli antipodi tra loro, studiati e fatti incontrare da un osservatore esterno, tanto sensibile da saperli rispettare, quanto puro da poterne osare l’incontro. Durelli, morchelle, fiori d’aglio e salsa al foie gras, trasporta tutti gli umori del cortile e della terra, facendo convivere l’alpeggio e l’allevamento con squisita naturalezza.

Il servizio di sala si mostra all’altezza della situazione, sottolineando intelligentemente come la professionalità non debba necessariamente essere schiava di un formalismo eccessivo. Un’equipe di questo livello meriterebbe forse un teatro più prestigioso dove esibirsi. Il locale infatti, per quanto curato e recentemente ristrutturato, non lascia particolare traccia di sé, con il rischio di ridimensionare il percorso creativo dello chef e la prestazione della brigata di sala.

La galleria fotografica:

Dal classico e familiare al contemporaneo in un menù unico, prendere o lasciare

Ad arricchire la già abbondante offerta gastronomica di Lione, una città in questo senso formidabile, si è aggiunto da un paio d’anni scarsi Les Apothicaires, ristorante informale ma a suo modo molto raffinato.
Tabata Bonardi (oggi Tabata Mey, cognome del suo secondo marito Ludovic, che l’affianca in questa avventura) ha un percorso talmente ricco che sembra difficile associarlo al suo aspetto molto giovanile.
Arrivata in Francia dal Brasile, ha tenuto le redini del ristorante di Nicolas Le Bac, successivamente si è lanciata in un suo locale che proponeva temaki per gourmet, per poi far innamorare i francesi nell’edizione 2012 di Top Chef. La partecipazione televisiva l’ha catapultata, quindi, alle redini di Marguerite, bel ristorante borghese del gruppo Bocuse.

Ludovic era il suo secondo e, divenuti compagni di vita, hanno deciso di far nascere questa versione moderna del ristorante di quartiere: tavoli abbastanza ravvicinati, clientela in buona parte di habitué, arredo molto femminile (come anche il giovane servizio) ma, soprattutto, una cucina libera di spaziare dal classico e familiare al contemporaneo in un menù unico, prendere o lasciare.

Un’interessantissima proposta gastronomica, tecnica e raffinata

Le portate che si succedono sono otto (al prezzo quasi incredibile di 55€) e possono spiazzare nell’alternare un’ammirevole rilettura del classicissimo farcement de Savoie al tartufo nero (è una sorta di terrina di patate con pancetta) a un sorprendente, buonissimo abbinamento di rapa e pot-au-feu con topinambur fermentato e levistico, solo un po’ troppo spinto sulla sapidità per non essere da fondo scala.

Portate centrali di grande tecnica e coerenza nella filosofia di classicismo décontracté della maison: un faux fillet da manuale che si sposa però col kimchi oltre che con le carote e il rombo con cavoletto di Bruxelles sferzato dal bergamotto (anche qui forse un lieve eccesso di sale rovina un quadro altrimenti da applausi).
Applausi che, invece, non possono mancare su uno dei dessert più buoni da tempo: kiwi e cocco su cremoso di avocado e aneto, una delizia per finezza nel gusto ed eleganza alla vista che ha anche il merito della straordinaria leggerezza.

Le piccole imperfezioni non condizionano il giudizio finale, piacevolmente influenzato anche da un conto davvero encomiabile che si abbina a una carta dei vini non ricca ma mai banale, da cui peschiamo un vivacissimo Chenin dello Chateau di Brèzé, e da un servizio di sala sorridente e accogliente, affiancato dalla brigata di cucina che presenta i piatti al tavolo con un certo orgoglio.

La galleria fotografica:

E’ senz’altro vero che a Lione si mangia benissimo. La città offre di tutto, dai bouchon di qualità all’alta ristorazione, tutta francese o ibridata in varie salse, compresa quella giapponese degli eccellenti Takao Takano e Au 14 Février.
Se proprio bisognava trovare un difetto a questa offerta era l’assenza di un battitore libero, di qualcuno capace di spiazzare anche il gastronomo più navigato con un’idea di cucina inedita.
In realtà, per qualche tempo pare che questo si fosse già visto al 126, la prima avventura in città di Matthieu Rostaing-Tayard; avventura durata circa 3 anni di grande successo, e finita perché l’inquieto chef aveva voglia di girare il mondo. E l’ha fatto davvero: dal Nepal al Giappone, al Perù, dal Canada all’Italia, in particolare a Modena nella cucina di Massimo Bottura.
Oggi, a 34 anni, in un locale bello, di scabra e magari non originalissima eleganza nordica, tutto questo bagaglio di esperienze, insieme a una personalità davvero fuori dal comune, si riassumono in una carta molto corta ma piena di stimoli.

E’ davvero raro trovare, sotto i titoli apparentemente neutri dei piatti (Rostaing-Tayard è tutt’altro che un esibizionista), tanta originalità di abbinamenti, tecniche, consistenze.
In un menu pieno di virgole -i piatti sono una mera elencazione di ingredienti- molte pietanze fanno mettere a voi il punto esclamativo, alla fine, preceduto sempre da qualche punto di domanda.
Citazione d’obbligo come piatto più spiazzante per la melanzana poché, con tartare d’agnello, lamponi, menta, rabarbaro e coriandolo, che è tutta uno spigolo; e come più entusiasmante per il siero di latte con prugnoli, mandorle fresche e liquirizia, che non sfigurerebbe da Redzepi ma che in realtà riassume questa specifica idea di cucina.
In cui non esistono separazioni nette fra dolce e salato, caldo e freddo, in cui l’acidità non è usata per contrastare o alleggerire ma proprio per sferzare, in cui la materia prima emerge in forma anche brutale.
Carta dei vini corta ma molto pensata e coerente con la cucina, con la possibilità di bere al bicchiere o anche di ordinare alcune cose interessanti sfuse a mezzo litro (per noi l’ottimo Anjou Mozaik di Pithon-Paille).
Servizio sorridente di chi è platealmente entusiasta di partecipare all’avventura ed affiancare uno chef la cui tensione è evidente nel piatto, come nello sguardo che rivolge spesso, curioso e preoccupato, alla sala.
Una tappa davvero da non perdere, in una città che non ci stancheremo mai di consigliare a tutti.

Stuzzichini, impeccabili benché serviti trenta secondi dopo il vostro arrivo.
stuzzichini, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Per amuse bouche, fagiolini bianchi con uovo e albicocca, Un tromp l’oeil (l’uovo è quello grattuggiato, l’albicocca è sul fondo) che lascia intuire molto.
amuse bouche, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Calamari, grigliati, pomodori, salicornia, ribes, parmigiano, olive nere, origano. Estivo, fresco, con ruolo centrale dato alle consistenze turgide di calamari e pomodori, eccellenti
calamari, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
La melanzana di cui sopra.
melanzana, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Il piatto più classico: manzo dell’Aubrac, patate novelle, gallinacci, nocciole fresche ed erbe selvatiche. Tecnica da manuale.
manzo all'aubrac, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Tonno bianco, mais, finocchio, cozze, burro al peperoncino, “radis serpent”, bottarga e limone. Il tonno è mera texture in un piatto che vede nella componente vegetale la protagonista. Sorprendente è dire poco.
tonno bianco, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Basilico, peperoni piquillo, more. Il solo piatto in cui il titolo fa pensare a una pietanza più spiazzante di quanto non sia. Comunque molto ben eseguito.
basilico, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon
Il petit-lait con prugnoli, mandorle e liquirizia.
petit-lait, Café Sillon, Chef Matthieu Rostaing-Tayard, Lyon

Chef Paul Bocuse

Lungo il percorso che, dalle sale dell’Auberge du Pont de Collonges, porta verso la salle de bains, s’incontra, sulla destra, una stanza che ospita i prodotti del merchandising targato Paul Bocuse. Accanto a bottiglie, canovacci e prodotti culinari, è difficile non far caso, sugli scaffali, a una non minuta serie di statuette, busti e icone, talvolta di gusto non esattamente cristallino come il dipinto qui sotto, esposto in compagnia di alcuni storici menu preparati per eventi di una certa rilevanza nazionale.

Chef Paul Bocuse

Il ghigno diabolico nei confronti del, chiamiamolo così, diverso understatement transalpino, a quel punto sarà già scattato, inevitabile, se non durante l’attraversamento del Pont Paul Bocuse, alla vista di uno dei numerosi cartelli (quelli stradali, che di solito segnalano le città) indicanti la distanza della celebrità locale da vari punti dei Quai della Saône.
Poi però si fa una piccola raccolta di informazioni. Si scopre, per esempio, che l’impero Bocuse dà lavoro a circa 700 persone. Non tutte in Francia, ovviamente, dato che una parte minore delle attività si svolge in Giappone e negli States.
Comincia però ad insinuarsi il dubbio che tutte le celebrazioni, talvolta dangerosamente confinanti col culto della personalità, in fondo non siano così lontane dall’avere una giustificazione plausibile.
E allora i busti, gli allori, la collezione di medaglie e onori degna di un Generale dell’Armata Rossa, persino quell’ Ultima Cena che grida vendetta, e non certo nei confronti di Giuda, prendono tutto un altro colore.
La Francia ha d’altronde ben chiaro, e non dall’altroieri, il ruolo tanto culturale quanto commerciale che la gastronomia può rivestire per il Paese, e non è certo ironizzando sulla dedica a Giscard d’Estaing di una zuppa di tartufi che si cancellerà il fatto che Oltralpe, nel 1975, mentre il resto del mondo restava in attesa di svegliare la propria kundalini gastronomica, un cuoco veniva insignito della Légion d’Honneur.

Chef Paul Bocuse

Sono ormai quattro volte venti e otto le primavere sulle spalle di Paul Bocuse, e lo chef ha recentemente dovuto allontanarsi dal ristorante che è casa sua dal lontano 1926 a causa di qualche acciacco di troppo, ma non per questo il veterano dei cucinieri francesi ha smesso di estendere i confini del proprio impero.
E’ di recente apertura infatti, accanto ad una delle brasserie targate PB che punteggiano Lyon, un fast food che porta in una dimensione a misura di tutte le tasche prodotti di grande qualità, come le carni che si ritrovano nei pregevoli Hamb..pardon, César. Non bisogna del resto dimenticare che la dimensione ludica e popolare non è mai stata assente dalla cucina di Bocuse; egli è stato, sì, fra i pionieri della nouvelle cuisine, adottando uno stile che ha fatto proprie la cuisine du marché e la tendenza all’alleggerimento delle pietanze del suo maestro e mentore Fernand Point (anche se ci pare che, in senso più stretto, degli allievi di Point, Bocuse sia quello rimasto più a contatto con la cucina classica), ma ha anche vissuto una parte consistente della propria formazione culinaria presso Eugénie Brazier, colei che aveva portato ai massimi livelli ancor più che la cucina lionese, la cucina dei lionesi.
E se è vero che i piatti che hanno proiettato il nome di Bocuse nel mito, prima ancora di lasciare questa valle di golosità, sono gli stessi da almeno tre decenni, è altrettanto innegabile che la loro dimensione non sia terrena, ma già quella eterna della leggenda. E mettere in discussione questo monumento vivente, cristallizzato nella Storia della cucina così come i tre inossidabili macaron appuntati a Collonges dal lontano 1965, suonerebbe assai più grottesco che rivoluzionario, come recensire la partitura della Sacre du Primtemps oggigiorno invece che dedicarsi alle creazioni dei compositori contemporanei.

Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse

I tavoli sono tutti occupati. I camerieri, dai nerovestiti maître e chef de rang, quasi costantemente impegnati fra porzionature e carrelli di formaggi e dolci, ai commis in livrea bianca, sciàmano fra le sale crepitanti di stupore e piccole gioie non quotidiane. C’è un fruscio sottile che accompagna la sensazione di assistere, nello stesso istante, alla routine di una sala attiva quattordici servizi la settimana e al manifestarsi di un’inesauribile varietà di sfumature umane: dalla ragazza che festeggia il compleanno con i genitori e piange al momento in cui, accompagnato dalle note di un Organo di Barberia e dall’applauso generale, giunge un petit gateau di compleanno, alla coppia di vecchi clienti per l’ennesimo anniversario nel solito locale, al gruppo di turisti d’oltreoceano con un assortimento di camicie decisamente poco trois étoiles.
Ad una sala in cui perfino un’insalata diventa un pretesto per dare un giro di ruote al guéridon qualche inezia talvolta scappa, ma non è possibile non provare sincera ammirazione per una brigata totalmente dedita ad una missione: far vivere ai molti convitati un’esperienza memorabile, anche nella sua fallibilità. Perché quello di Paul Bocuse non è solo un ristorante: è un parco giochi gastronomico dove la gioia viene assai prima dell’immota perfezione, una giostra in cui la girandola finale di dolci diventa inno alla vita, oltre che una sfida alla propria capacità produttiva di insulina.

Nel quadro d’insieme qualche dettaglio, certo, farà storcere il naso, dall’ineludibile iconografia del mitologico chef disseminata lungo le pareti alla presenza di un unico impiegato di colore, quello addetto al parcheggio e agli ingressi del sopracitato organetto, circostanza somatica che non noteremmo se non fosse per la bizzarra livrea che il poveretto deve indossare e per la sensazione di déjà-vu avuta in un tristellato italiano che, per molti aspetti, ricorda da vicino il lunapark gastronomico di Collonges.

Ci sono poi i piatti, e qui la storia prende la maiuscola e, talvolta, anche il volo: ad esempio con una salsa, che accompagna dei succulenti filetti di triglia in cui le scaglie sono state ricostruite con fettine di patata, che da sola vale il viaggio per intensità e misura di acidità e grassezza. Con un fegato grasso di qualità superba accompagnato da una più che pertinente salsa al frutto della passione, con dolci classicissimi mai sotto la soglia del molto buono. E’ certamente vero che il più recente di questi piatti, pur fatti oggetto di un minimo restyling che ha fatto entrare qualche schiuma all’Auberge du Pont, ha visto più primavere di una buona parte degli chef che attualmente li cucina, ma è per questo che ogni prospettiva critica qui decàde. Perché piatti che oggi ci sembrano persino troppo opulenti ed indulgenti verso le materie grasse sono gli stessi che meno di mezzo secolo fa hanno contribuito, pur in maniera assai inferiore a quelli di altri allievi di Point come Michel Guérard, all’alleggerimento delle preparazioni, ad una diversa sensibilità per le cotture, per le stagioni, per l’utilizzo della tecnologia in cucina e per un atteggiamento rispettoso per il passato ma non affondato dal peso della tradizione. E un pranzo o una cena a Collonges è un corso accelerato di storia della ristorazione che vale cinquanta libri letti, un’esperienza che non dovrebbe mancare ad alcun appassionato gourmet.

Piccola entrata stagionale: vellutata vegetale al tartufo nero.
entrata, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Casseruola di astice all’Armoricana. Ad una temperatura da pomodorino fantozziano.
Casseruola d'astice, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Fegato grasso in salsa al frutto della passione. Porzione alla carta: tre scaloppe. Follia!!!
fegato grasso in salsa, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Il filetto alla Rossini in salsa Périgueux. Un piatto che va abbondantemente oltre la nostra abitudine a sezionare i sapori.
filetto alla rossini, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Splendidi i filetti di triglia in scaglie di patate. Come già detto, salsa da applausi a scena aperta.
filetti di triglia, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Gli accompagnamenti alla portata principale ordinata alla carta. A tal proposito: avendo provato entrambe le esperienze consigliamo caldamente di scegliere questo tipo di comanda rispetto ad uno dei tre menu disponibili; conterrete i danni al portafogli e nel contempo apprezzerete meglio piatti che non sono fatti per l’assaggio di più preparazioni ma danno il meglio di sé in porzione generosa.
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Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Ferve l’attività in sala: anche per un’insalata (e nel frattempo, purtroppo, non siamo riusciti a fotografare il carrello dei formaggi griffati Mère Richard)
Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Predessert: ganache al cioccolato (splendida) con amarena.
predessert, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
La scelta dal carrello dei dolci: tarte au citron, sorbetto ai lamponi…
scelta del carrello dei dolci, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
…una crème brulée da antologia…
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…babà generosamente innaffiato…
babà, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
…e un Paris-Brest “solo” buono.
Paris Brest, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
Piccola pasticceria. Davvero un di più a questo livello glicemico.
piccola pasticceria, Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
La brandizzazione dilaga.
Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia
L’orgue de Barbarie.
Auberge du Pont de Collonges, Chef Paul Bocuse, Francia