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La Cucina nell’ALMA – Dessert

Il giorno dell’esame

I ragazzi della 43° Edizione del Corso Superiore di Cucina Italiana sono in piedi dalle 6.00 del mattino. Oggi, per loro, finisce e incomincia tutto. 

Dopo 10 mesi di percorso formativo a Colorno, dopo lo stage, la discussione della tesi e la preparazione del proprio menù personale, oggi, sono alle prese con l’ultima prova d’esame: il Menù del Maestro. Due le preparazioni loro richieste: una imposta, uguale per tutti, l’altra sorteggiata: entrambe provenienti dal repertorio di Gualtiero Marchesi, Rettore di ALMA sin dai suoi inizi. 

L’adrenalina

A guidare la classe, esaminarne l’operato in presa diretta, orchestrarne il lavoro e supervisionarlo, ma senza intervenire o esporsi direttamente, c’è Bruno Cossio che, complici i suoi 8 anni di docenza al Corso Superiore di Cucina Italiana, ci spiega con un mezzo sorriso quanto l’adrenalina segua, in giornate come queste, un tracciato ondivago: “È quasi tangibile nella fascia oraria che va dalle 8.00 alle 9.30, poi c’è un calo, che è un calo fisiologico, per rimontare attorno alle 11.00 del mattino quando, alle 11.30, i piatti saranno portati in esame ai tavoli delle commissioni.

Il senso del tempo…

Sono le 10.00, adesso, ma dobbiamo ricorrere all’orologio del telefono perché quello appeso alla parete della cucina, lo facciamo notare, non si vede benissimo dalle postazioni. “Lo facciamo apposta: – controbatte Cossio – i ragazzi devono averlo infuso, il senso del tempo, acquisirlo anche senza vedere le lancette dell’orologio.” Una consapevolezza, questa, tanto essenziale nel mestiere dello chef da dover essere acquisita automaticamente. 

…e dello spazio

Allo stesso modo vige in ALMA un ordine di tipo spaziale. I ragazzi sono disposti in fila per due per ogni postazione e organizzati sulla base del rispettivo lavoro: “se uno ha una ricetta che, al sorteggio, è considerata semplice, sarà affiancato a un alunno che, dalla sua, avrà una ricetta più complessa.” La gestione dello spazio, però, non deve essere intesa solo in questa micro-costellazione di individualità che se lo dividono; lo spazio in ALMA non è solo mera condivisione del pass. I ragazzi, infatti, devono imparare a percepirsi come agenti di uno spazio che interpretano attraverso la materia prima che gli è toccata in sorte. “Si tratta di una forma di responsabilizzazione: in questo senso non si prescinde mai dal food cost che, in ALMA e speriamo anche fuori, deve essere loro sempre presente sin dalle prime lezioni di Tecniche di Base.” E, a questo proposito, sia messo agli atti che ALMA è l’unica scuola a valutare, dei propri ragazzi, anche l’etica. 

Il verbo del Mastro

Oltre a questi elementi, che sono elementi di base, appunto, oggi va in scena uno dei principi costitutivi della cucina di Gualtiero Marchesi: ovvero la natura di una cucina “espressa, cucinata sul momento sullo stile della nouvelle cuisine: tanto c’è sempre tempo, nella vita, per imparare a usare il Roner e il microonde” sorride sardonico il Professor Cossio, e non possiamo dargli torto tanto più in una giornata come questa dove a prendere forma nel piatto sono sì le sue ricette ma, soprattutto, una filosofia in cui l’estetica coincide col giusto: bello è buono, soleva dire lui, e così assistiamo a un’infilata di piatti che, nella loro veste formale, ne rispettano il codice estetico tramite una gerarchia di colori e di elementi.  

Il percorso individuale

Tutto questo accade senza prescindere, chiaramente, dal carattere di ciascuno. Si potrebbe infatti pensare a questi insegnamenti come dinamiche uniformanti e, alla lunga, spersonalizzanti. Niente di più sbagliato per chi, come, noi, ha sempre creduto che è nelle regole che risiede la libertà, nella disciplina l’astrazione. Uno dei mantra di ALMA è, da sempre, proprio il carattere e l’individualità di ciascuno dei suoi studenti, il cui percorso viene attentamente ponderato dal personale docente e, quindi, personalizzato e cucito sul carattere e le aspirazioni di ciascuno: “In Alma tutto parte da questo –  fa eco Cossio – anche la scelta dello stage viene fatta a partire dai loro sogni. Se uno vuole aprire un ristorante di pesce in riva al mare, per fare un esempio, non lo manderò di certo in stage a Bolzano…

La cucina centrale e la vita di brigata

Dopo circa un mese dall’inizio del Corso Superiore di Cucina Italiana, già dalle 6.00 del mattino, i ragazzi popolano la Cucina Centrale: questo spazio, del resto, è operativo tutti i giorni e, dalla colazione alla cena, scandisce i tempi alimentari della scuola mentre provvede, tra l’altro, al rifornimento del bar accademico, all’organizzazione dei banchetti, delle feste, ed è decisiva in tutte quelle occasioni, istituzionali o meno, che vedono impegnata col mondo esterno La Scuola Internazionale di Cucina Italiana di Colorno.

Arriviamo nel bel mezzo del primo turno, quello che va dalle 6.00 alle 14.00 e, precisamente, alle 10.30 di un mercoledì mattina d’inizio estate: fuori, la colonnina di mercurio segna già 30 gradi mentre dentro, e nonostante i fuochi, i forni e le piastre accese, circola un’aria corrente fresca, foriera di tutti i profumi che si levano dalle preparazioni che già arrostiscono, sfrigolano, stufano, brasano, sobbollono: vellutata di sedano e patate; risotto al pomodoro e mozzarella di bufala; polpette al pomodoro; spaghetti coi moscardini; stinchi con gli asparagi; faraona al rabarbaro e tartufo nero; taccole in padella e patate arrosto sono solo alcune delle preparazioni presenti in menu nella giornata di oggi, 26 giugno 2019. 

Istinto

Lo chef presente stamattina, coadiuvato dai tre assistenti in grembiule bianco, ciascuno diviso per partita, è Giuseppe Pellegrino il quale ci spiega che una struttura tanto complessa come la Cucina Centrale si fonda invero forse su un’unica, semplicissima regola, da cui discendono tutte le altre: etica del prodotto e della materia, che hanno come immediato corollario l’esigenza di non fare sprechi e, in generale, rispettare l’imperativo del bello come sinonimo di buono che, come quasi tutto, qui, arriva da Gualtiero Marchesi. Tutto questo chef Pellegrino ce lo spiega dando le spalle alla cucina, eppure un istinto antico e primordiale gli dice quando girarsi, sempre un attimo prima che qualche alunno ne reclami l’attenzione. Come in ogni brigata che si rispetti, peraltro, i cuochi-alunni già si muovono nell’algoritmo di una coreografia collettiva scandita dalle lancette dell’orologio che ha una prima, temutissima dead-line: alle 11.20 il pass dovrà essere completamente libero per accogliere le pietanze sui vassoi di servizio: tre piatti caldi, una zuppa fredda e tre secondi, per tre turni di servizio: 12.00, 13.00 e 14.00 per un totale, oggi, di 385 persone da mettere a tavola che, nel fine settimana, con gli eventi e le ospitate, possono arrivare anche a 1000. 

Trasversalità

Alma è, del resto, un modo estremamente, eminentemente professionalizzante. Come tale, tutto ruota  attorno al prodotto e a una cucina cucinata che non è fatta di mere ricette, ma di metodi per realizzarle. È quanto ci racconta chef Laura Torresin, anche lei chef di Cucina Centrale, che argomenta insistendo  sul doppio binario tra teoria e pratica che alberga nella Scuola: “Benché la teoria venga sempre prima, nel mondo accademico di Alma ogni studente assiste alle dimostrazioni, che poi è chiamato a ripetere non solo individualmente ma anche collettivamente – ed empiricamente – nelle lezioni dell’aula Mater e, ovviamente, in Cucina Centrale, che è appunto l’anima di Alma“. È qui che si consuma la vita della brigata propriamente detta, quella che prevede dei ruoli e una gerarchia che però in Alma è più fluida, perché ogni studente deve imparare a coprire ciascun ruolo, trasversalmente. Ecco un’altra delle grandezze di Alma, far cimentare i ragazzi in tutte le partite in modo da cementare le competenze da ogni angolazione. “Per questo motivo il confronto coi Professori Di Malta e Pellegrino è quotidiano:  dobbiamo discutere in merito alle specificità di ciascun alunno, al fine di conoscerne punti di forza e di debolezza perché, non dimentichiamolo, Alma insiste molto sulla personalità di ciascun alunno. Chiaramente, dobbiamo confrontarci anche per provvedere agli ordini della Cucina Centrale, che affronta quotidianamente tante realtà – e tante criticità – oltre a dover assorbire tutte le preparazioni in programma nelle lezioni, nell’ottica di quella trasformazione e di quel riutilizzo che, del resto, è alla base della cucina non solo professionale, ma anche domestica italiana.”

Senso del tempo

Controllo e comunicazione sono, in definitiva, i due motori propulsori di quell’organismo complesso che è la Cucina Centrale che è l’esatta materializzazione, benché in grande, di quello che avviene nella cucina di qualunque ristorante. La Cucina Centrale è, per certi aspetti, il luogo del vero o, come preferisce chiamarla Antonio Di Malta che la Cucina Centrale la pianifica, la organizza e la rende reale quotidianamente grazie anche alle preziose propaggini dei suoi assistenti (anche lui ha incominciato, in Alma, come assistente): “È il luogo dell’azione, il luogo del vero: la prova provata che stai lavorando bene con la tua classe.” È altresì il luogo del tempo: nel senso che in cucina il tempo ha un valore del tutto relativo: non bisogna solo rispettarlo, bisogna costruirlo materialmente, dilatandolo o al contrario contraendolo a seconda dell’intervallo che separa dal servizio. “Senza dimenticare – prosegue  Di Malta – di fare tesoro di ogni momento libero che, comunque, dovrebbe sempre essere un momento di apprendimento. Una cosa che non deve mai smettere di fare un cuoco è chiedersi il perché delle cose, è questo l’unico modo per trasformare la passione per la cucina – che, come tutte le passioni, è  passeggera – in un interesse che, per sua natura, è invece duraturo. È questo il segreto di un’esistenza felice e, forse, anche del concetto di evoluzione che riguarda l’individuo nel suo insieme”; un’evoluzione dove il concetto stesso di brigata altro non è che la metafora di una gerarchia cui si è sottoposti anche nella vita, e dalla cui struttura c’è solo da imparare.

La bassa bresciana à l’ancien

Della nobile fattura raccontiamo, nella lista delle vivande che degustiamo!” Se potessimo attenerci a un registro stilistico à l’ancien, il nostro racconto potrebbe iniziare in questa maniera.

Perché oggi scriviamo della cucina degli aristocratici di un tempo, delle scuderie del conte Giulio Tartarino Caprioli, nomen omen gastronomico, quasi caricaturale, esimio patriota bresciano il quale ascende a nuova vita, oggi, grazie a Simone Breda ed Eliana Genini, coppia nella vita e nel lavoro, recentemente insignita della prima stella Michelin.

Siamo a Pudiano, nel cuore della bassa bresciana e, nonostante la giovane età, Breda non manca di esperienze nobili nel suo background: cresciuto alla corte reale  di Gualtiero Marchesi nella sua Albereta, ha poi sperimentato le avanguardie italo-nipponiche del duca del mare Moreno Cedroni, in quel di Senigallia.

In sala, servizio impeccabile; in cucina, padronanza dell’acidità

I grandi camini delle tre ampie sale sono lo sfondo medievale alla cucina di Breda, interpretata da un servizio di sala  preciso e puntuale. Sebbene non sempre serviti dalla stessa persona, la continuità e la precisione nel servizio è stato uno dei tratti che maggiormente ci ha colpiti nella nostra visita.

Sul capitolo cucina sicuramente riscontriamo una piacevole padronanza della dimensione ricorrente dell’acidità. Ne è un emblema l’anguilla bieta e limone, in cui il feticcio della croccantezza della pelle dell’anguilla è oltrepassato da una cottura perfettamente fondente e dove al palato si alternano la nota amarotica della bieta, in duplice chiave arrostita e in salsa, e la verticale acidità del gel di limone. Rock dish! Nota di merito anche per la lingua, peperone, anacardi e clementina – solo qualche perplessità sulla stagionalità del peperone, ma vincente comunque nell’abbinamento – oppure il Creste & Creste, ovvero ravioli chiusi come la cresta del pennuto ripieni di pollo e serviti con creste di gallo glassate: piatto azzeccato, tra fondo di accompagnamento tirato da manuale e la golosa callosità della frattaglia.

Non da meno la pasticceria che, nella centralità vegetale di un dessert come finocchio, cioccolato bianco e liquirizia o zucca, tartufo e mandorla, troviamo efficace per concretezza e tecnica, nonché efficace nel sodalizio tra dolce e salato.

La valutazione, questa volta arrotondata per eccesso, sia da stimolo allo chef a continuare verso una strada di maggiore personalità e incisività del gusto.

La Galleria Fotografica:

La cucina del Maestro

C’è un elemento che scandisce la vita accademica di ALMA. Inaspettato, spontaneo e liberatorio, è l’applauso che, levandosi, anima tanto i laboratori quanto la didattica. Lo stesso applauso che, stamattina, apre la lezione su Gualtiero Marchesi, al cui ritratto è precisamente indirizzato.

A condurla, una combinazione d’assi della didattica: toque bianca in testa l’uno, libro alla mano l’altro, Chef Bruno Ruffini e Professor Luca Govoni ricordano che, all’unisono, Gualtiero Marchesi fu, tra i tanti ruoli e le tante cariche ricoperte, anche Rettore di ALMA sin dall’anno della sua fondazione. 

La storia della Cucina Italiana

“Nella vita, se si è fortunati, si ha più di un Maestro; ma è una parola, questa, da non usare a sproposito: perfino per me, che non ho mai voluto essere cuoco, era lui il mio Maestro”, confessa Luca Govoni, Docente di Storia e Cultura di Cucina Italiana che, prosegue, insistendo sui molteplici modi che aveva lui d’esser tale: perché Marchesi ha formato una generazione di cuochi la cui mano – marchesiana – è riconoscibile in tutti i piatti e, cionondimeno, ha anche fatto in modo che ciascuno di questi cuochi prendesse la sua strada e, nel corso della Storia, imprimesse il suo segno: la sua storia. “Però vi devo anche dire che, negli ultimi tempi,  ero riluttante a utilizzare la mia macchina per le nostre trasferte: era molto malato e io già vedevo i titoli sul giornale Professore di Storia della Cucina Italiana uccide la Storia della Cucina Italiana! Risate. Ride lui, rido io, ride tutta l’aula.

A spezzare l’attenzione, ad ALMA, non sono solo gli applausi…

Arte & Cucina

E difatti si dirà che nell’unica pausa prevista, in una lezione di quattro ore, invece di uscire al sole, già primaverile, di questa giornata di metà marzo un nutrito gruppo di alunni si è invece riunito attorno al pass dove Chef Ruffini ha appena realizzato alcuni dei piatti più iconici del Maestro. “Ma proprio i suoi piatti più iconici – precisa – sono anche impossibili da realizzare in maniera fedele: il motivo, lo si evince facilmente ma prima devo fare una digressione: io non sono tra quei cuochi che crede che la cucina possa essere arte. Non ci ho mai creduto. L’unico cuoco per il quale sono disposto a rivedere questa mia posizione è, però, proprio Marchesi che era, a modo suo, un artista. Per cominciare, faceva parte del tessuto culturale della Milano di Arnaldo Pomodoro e Piero Manzoni e, difatti, questi piatti gli erano stati commissionati dalla rivista Stile Arte per cui lui traduceva le opere d’arte in cucina. Così, dall’opera di Caravaggio aveva creato Riso Oro e Zafferano, mentre la Seppia al nero era d’ispirazione fiamminga e il Teatrino di Lucio Fontana aveva invece dato origine a il Rosso e il Nero. Era un processo creativo trascinante, il suo, tanto che se oggi possiamo permetterci di pensare “avrei potuto farlo anch’io, è solo perché l’ha fatto lui, prima di tutti noi!”

Lo potevo fare anch’io!

Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte di Francesco Bonami è anche il libro che Luca Govoni stringe tra le mani, e che legge agli alunni, mentre su un maxischermo si susseguono le immagini delle tavole imbandite della Eat Art di Daniel Spoerri, le performance di Jannis Kounellis e quelle del situazionista del Pad Thai Rirkrit Tiravanija accanto agli affreschi del Pontormo, alla Merda d’artista del già citato Piero Manzoni, alla Mozzarella in Carrozza di Gino De Dominicis – altre risate… – alla Vucciria di Renato Guttuso fino allo straniamento indotto dalla performance This is so contemporary di Tino Sehgal.

Dripping di pesce e libertà

Ci si nutre d’arte, a lezione di cucina con Ruffini e Govoni e, così facendo, ci si sente liberi. E difatti dopo la realizzazione del Dripping di pesce parte un altro applauso: “si tratta di una tecnica anti-tecnica – spiega Ruffini – che sovverte anche le regole della cucina perché, differentemente da qualunque altra ricetta, non permette a nessuno di riprodurre il piatto in serie. I gesti, che poi sono gli stessi gesti di Jackson Pollock, non sono codificati, tanto che lo stesso Marchesi poteva rifarlo, certo, ma mai uguale al precedente.

In questo piatto la linea è come la tavolozza dei colori: come fosse un pittore, lo chef lavora con una campitura di maionese – diluita con acqua – perché fondamentale è la densità degli ingredienti, che sono i nostri colori: la salsa di pomodoro è setacciata e ristretta, quella al nero di seppia idem, così come la salsa al prezzemolo, deve esser materica. Abbiamo poi bisogno di vongole, meglio se vongole grigie, o poveracce, e dei calamaretti spillo, appena sbollentati, e poi scolati.”

Applausi, risate, e domande…

Quel che si evince subito è che questa lezione non vuole chiudere il discorso, vuole aprirlo. Non propone una risoluzione ma domande che, appunto, si tengono e s’inanellano l’un l’altra: nel momento in cui Marchesi usciva in carta con questi piatti – chiede un alunno – l’idea era quella del cuoco, o dell’artista? C’è un collegamento tra gli artisti che seguiva Marchesi? chiede un altro… Perché mettere un bordo ai confini del piatto, quando Pollock non ha mai messo una cornice? E, ancora: in questo piatto è venuta prima l’idea o la materia? “Ecco, nel caso dell’Insalata di animella con soia e sesamo – spiega Ruffini – nasce prima il piatto e poi l’opera, nel senso che è il piatto ad esser stato accostato all’opera di Jean Fautrier Otages, ovvero, ostaggi: si trattava di un pittore francese che impresse le sue sensazioni su tela, dopo aver assistito alle torture dei prigionieri uccisi dai nazisti: erano opere cruente, che mostravano la violenza, la crudeltà e, in ultima analisi, liberavano un espressionismo astratto potentissimo.” 

È una lezione di vita, questa, prima ancora che d’arte, o di cucina. È una lezione in cui, con mano leggera, docenti e alunni esplorano le categorie estetiche e semiotiche del buono e del cattivo, dell’utile e dell’inutile, del pieno e del vuoto, del presente e dell’assente come nell’Achromes di branzino, “che Marchesi realizzò riprendendo una serie di opere di Piero Manzoni dove, per esprimere una certa sensazione di vuoto, o di assenza, l’artista comprese di dover aggiungere l’immateriale”.

Una lezione, insomma, che è stata mille lezioni in una e, per noi che l’abbiamo vissuta, e assaggiata, un piacere, nonché un onore, da raccontare.

Troppo spesso ci troviamo a giudicare cucine creative che non fanno i conti con la storia. Troppo spesso godiamo assaggiando piatti che vivono di emozioni estemporanee, verticali e fatue. Gusti decisi, giovani, nervosi ma poco profondi, facilmente dimenticabili, che creano un divertimento nell’immediato spesso fine a se stesso.
Si rischia di farci l’abitudine: anche il gourmet più preparato tende a lasciarsi trasportare da questo moto effervescente, ma anche poco virtuoso.

Poi succede di accomodarsi alla tavola di uno chef lombardo, Silvio Salmoiraghi, che in punta di piedi ristabilisce l’ordine che i grandi maestri della storia della cucina avevano sapientemente creato.
Uomo schivo e introverso, Salmoiraghi, cela dietro gli occhi stanchi di chi non smette mai di pensare una profondità ed una finezza tranquillamente definibili come straordinari.

È nella semplicità che si esprime la genialità di un autore, che in questo caso si “limita” a creare un’epitome di tutte le opere scritte dai grandi maestri di cucina, alleggerendole, contestualizzandole e rendendole stupefacenti per gusto e umiltà di presentazione. Un racconto che cita Escoffier, Fernand Point, Artusi, Marchesi e Pierangelini. Una storia narrata da una voce esterna tranquilla, calda e rassicurante che accompagna il commensale passo dopo passo immergendolo all’interno della più alta cultura gastronomica degli ultimi tre secoli.

Non ha paura Silvio Salmoiraghi di rimanere vittima della timidezza, postponendo la sua personalità alle citazioni che si sente in dovere di offrire in continuazione. Una cena all’Acquerello è un elegantissmo film di costume, con tempi dilatati e dialoghi caustici, in cui la provocazione è sempre dietro l’angolo senza però essere mai espressa direttamente, cercando di stimolare il senso di malizia nascosto in ogni avventore.

I trompe-l’oeil che accompagnano le pareti della sala sembrano essere messi lì apposta per introdurre ad una sorta di fase ipnagogica attiva, creando così un distacco cosciente dalla realtà tangibile, al fine di lasciarsi completamente avvolgere dalla magia proposta dallo chef. Spezie orientali, tecniche di cottura giapponesi, ricette riprese da manuali ottocenteschi e rinominate in chiave squisitamente italiana. Questa in sostanza la cucina di Silvio Salmoiraghi, che non ha bisogno di spiegazioni perché si dichiara da sé, che non può lasciare interdetti perché è tecnicamente perfetta e gustativamente travolgente, che non può che far riflettere perché questo infondo è forse il suo fine primo. La mugnaia di carne è una geniale intuizione per nobilitare una ricetta comunemente bistrattata, utilizzando la cottura shabu shabu per la carne di vitello e il cervello scottato in padella per ricordare la classica cremosità della versione ittica originale. Il risultato è sbalorditivo per consistenze, gusti e richiami alla memoria.

La delicatezza e il tatto sono il filo rosso di una degustazione fatta di soli colpi da fuoriclasse, in grado di essere compresi dal neofita come di lasciarsi interpretare e studiare dall’appassionato, in un gioco di profondità complesse, da scoprire poco a poco.

L’educato servizio di sala è un puro accompagnamento formale di una cerimonia che specchiandosi non si trova bella come in realtà gli altri la vedono, che vorrebbe di più quando il di più forse non c’è, che probabilmente è inconsapevole della sua levatura e per questo si nasconde in una dimora troppo umile per le sue potenzialità.

Silvio Salmoiraghi è un cuoco eccellente oltre che un uomo intelligente. Basta poco per riuscire a capirlo, basta poco per rimanere folgorati dalle sue qualità, basta accomodarsi ad un tavolo della sua casa e lasciarsi trasportare dalla sua saggezza.

Cocktail di scampo. La salsa fatta con il corallo dello scampo trova il suo bilanciamento nel fiore di pepe fritto, che dona una piacevole nota piccante, acida e speziata. Un cocktail a base di carciofo, cognac e interiora di scampo è stato il perfetto sposalizio di un classico anni ’80 reinterpretato alla perfezione.

cocktail di scampo, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Uovo in agrodolce. Una cialda di polenta, pane e aceto copre la preparazione a base di uovo, curcuma, zenzero e peperone. Giochiamo ancora sui toni classici: il benvenuto perfetto.

uovo in agrodolce, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Il pane nero.

pane, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Il burro, eccezionale.

burro, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

La mugnaia di carne, semplicemente splendida. Il finger lime dona una nota esotica ad una preparazione che si discosta radicalmente dall’originale, riuscendo comunque a rievocarne gusto e consistenze. Un bell’apporto di spezie ne allunga la profondità, rendendo il tutto ancora più intrigante di quanto lo stravolgimento della ricetta non avesse già fatto.

mugnaia di carne, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Il gratin, omaggio a Fernand Point. Passaggio giocato sul caldo-freddo dettato dalla temperatura del piatto (caldo) e della salsa (fredda) a base di menta e parmigiano (citazione a Fulvio Pierangelini). I carciofi, le vongole, la menta, i piselli secchi ed il parmigiano danno vita ad un rincorrersi di sensazioni gustative che variano dal dolce all’amaro, mantenendo una tensione straordinaria. Chapeau!

fernand point, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Sorbetto di rabarbaro, genziana, cioccolato bianco e pompelmo.

sorbetto, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Si cambia tipo di pane.

pane, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Piccione alla milanese con indivia, petto di piccione crudo, acciughe e senape in grani. Davvero grande.

piccione alla milanese, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Il secondo servizio del piccione. Questa volta sono le cosce, che fanno da ripieno alle spugnole coerentemente fritte. Non manca mai la nota speziata che fa volare in medio oriente.

secondo servizio piccione, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Le anatre, cotte allo spiedo, che nell’arco dei successivi tre servizi ci verranno servite declinate in diversi modi.

anatre, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Primo servizio: anatra, caviale, frutto della passione e porro. Millimetrica.

anatra, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Secondo servizio: Dim Sum di coscia, con brodo d’anatra e tè nero. Avremmo bevuto tre litri di brodo a testa!

dim sum, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Terzo servizio: sovracoscia piccante, catalogna, gamberi e spezie. Il finale perfetto di una cena perfetta.

Terzo servizio, anatra, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

La piccola pasticceria.

piccola pasticceria, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Radicchio, frutta secca, latte di mandorla e Vov. Chiusura di pasto decisamente sopra le righe. I ricordi del tabacco e della liquirizia affiorano subito alla mente. Dessert assolutamente non banale, molto virile, correttamente eseguito sebbene estremamente sapido: la percezione personale, più o meno acuita, di questo gusto ha diviso la tavolata in perplessi ed entusiasti, con un vantaggio a favore di questi ultimi.

Radicchio, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

Le bottiglie della serata.

vino, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

vino, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

meursalt, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese

vino, Acquerello, Chef Silvio Salmoiraghi, Fagnano Olona, Varese