Dopo Eugenio Boer, Brendan Becht: l’onda olandese sembra aver rotto dighe e indugi per abbattersi golosamente sulla Milano da mangiare. Se il primo, in realtà per metà italiano, è tornato di recente a far parlare di sé con il neonato Essenza, Becht è invece il volto dietro il bancone di Zazà Ramen. E’ questo un progetto che dimostra come, lavorando con intelligenza, si possa mantenere alta l’asticella della qualità (nella intenzioni e, quasi sempre, nel piat… pardon nella ciotola) pur strizzando non uno, ma ambo gli occhi, a mandorla o meno, alla modaiola clientela milanese. Da un lato l’insegna rimanda infatti al variopinto mondo dei cartoon, dall’altro la proprietà di Zazà si è dimostrata ben consapevole di come il Ramen, piatto che rappresenta come pochi altri la tradizione culinaria popolare nipponica, sia uno dei trend topic gastronomici odierni della social-metropoli meneghina.
Il locale dà modo di sedersi al bancone, anche solo per un cocktail o una birra, oppure a uno dei grandi tavoli in condivisione del piano terra o ancora a uno di quelli, più piccoli, del livello inferiore, anch’essi a forte rischio condivisione nelle frequenti e tourbillanti serate di pienone. Circa la proposta, l’insegna è chiara: questo non è un locale da cui attendersi una panoramica a 360° della gastronomia giapponese. Ramen, quindi, in due varianti di pasta (“00” o integrale), tre di brodo in crescendo di intensità e sette varianti di condimento, per un totale di quarantadue combinazioni possibili ad ogni cambio menu stagionale: una decina di piccoli antipasti e sei alternative per il dessert esauriscono le opportunità masticabili.
Non delude il Ramen, soprattutto nella folgorante versione con polpette di maiale e manzo alle sette foglie giapponesi: consistenza perfetta della pasta, ingredienti di qualità e brodo di gran gusto, concentrato e “gastronomico” (e come potrebbe essere diversamente con nomi come Marchesi, Senderens e Hermé a far capolino nel curriculum formativo di Becht?) che non risulta però eccessivo neppure nella versione più hardcore, lo Shoyu, che prevede l’aggiunta di katsuobushi e salsa di soia. Il resto delle portate fa riscontrare risultati meno continui, con discreti Yakitori gomito a gomito con Gyoza gommosi e insapori, davvero disastrosi. Segno positivo generale, invece, per il comparto dessert e per la proposta beverage, stringata ma anch’essa intelligentemente compilata.
Il servizio, giovane e assai volenteroso, si barcamena infine in modo più che accettabile malgrado l’imponente affluenza che qui rappresenta la norma.
In apertura: ramen pesce e frutti di mare con finocchio, finocchietto, pomodorini semi-essiccati e zeste d’arancia. Di seguito: l’ottima zucca “Uchiri Kuri” in carpione.
Edamame.
Yaki-Gyoza: qui davvero non ci siamo.
Yakitori, invece, di buon impatto gustativo.
Kakuni, senape giapponese e daikon.
Davvero eccellente il ramen con sette ortaggi a foglia giapponesi e polpette di manzo e maiale. In questo caso brodo Shoyu
Buone ma più ordinarie le altre versioni provate: pollo, uova, friggitelli, taccole, fagiolini e brodo di carne aromatizzato all’alga kombu con pasta integrale;
Manzo, funghi, cipolla caramellata e menma con brodo di carne al miso.
Di discreto livello il simpatico “Monte Fuji-Monte Bianco”, ovviamente giocato sulla castagna.
Davvero ottimo il tiramisù al tè Matcha.
Pregevole lo spritz della casa, con Prosecco non meglio specificato, Umeshu, menta e arancia.
Oltre a birre di fama più consolidata ecco spuntare dal menu le birre del birrificio artigianale Coedo. Questa è la Ruri, la loro Pils.
E’ un dato di fatto che la cucina giapponese, come quella cinese e italiana, sia tra le più scopiazzate e stereotipate che si possano trovare al di fuori dei confini del paese d’origine. Ciò può essere imputabile alla difficoltà nel reperire, in luoghi remoti, le materie prime necessarie, o ad una questione prettamente nazional-culturale dei cuochi che la reinterpretano, o ancora al successo di espressioni fusion che meglio entrano nelle corde dei paesi di destinazione.
Fatto sta che più passa il tempo più fantomatici ibridi vengono via via maggiormente percepiti come “tradizionali” all’estero. A titolo d’esempio come dimenticare gli Spaghetti alla Bolognese, vero e proprio “must” della cucina italiana in giro per il mondo, ma inesistente in madrepatria.
Buona parte degli avventori occasionali arriva, paradossalmente, a inquadrare come “tradizionale” o “vera” una cucina che di tale ha solo il nome o addirittura a sentirsi presi in giro quando entrano in quei pochi locali che cercano di proporre piatti realizzati con criterio e aderenza alle origini.
La poliedrica Milano è senza dubbio la città italiana più sensibile alle mode: è infatti il luogo dove ormai da anni la moda del sushi è esplosa con più fragore e l’alta domanda ha certamente aiutato la diffusione di una proposta di bassa qualità. Cercando con il lanternino, però, anche a Milano è possibile scovare alcune espressioni davvero tradizionali di cucina giapponese, e quella di Fukurou è senza dubbio la migliore.
E’ sufficiente dare uno sguardo alla pagina Facebook del ristorante per comprendere che tutto quanto, qui, non è di vaga ispirazione nipponica ma bensì realmente del Sol Levante: a partire dallo Chef Ninomiya Yoshikazu (uno dei pochi in Italia, tra l’altro, ad ispirarsi ai principi Kaiseki), passando per tutto il personale di sala, fino ad arrivare alla proprietà, ovvero l’ex pilota di motociclismo Noriyuki Haga e sua la moglie Yurie. Da Fukurou non troverete folcloristiche riproduzioni italo-cinesi, ma un “vero” ristorante giapponese ed è facile rendersene conto appena varcata la tendina dell’ingresso.
C’è solo, onestamente, il Giappone: a cominciare dal tavolo e da tutto ciò che, in successione, vi arriva sopra, come l’estremo shiokara, calamari fermentatio o i gustosi yakitori, non solamente di pollo ma proposti in innumerevoli varianti, siano essi di carne, di pesce o di verdure, grigliati o fritti. Svariate le opportunità di scelta sulle zuppe, con Udon, Soba o Ramen, proposte sia tradizionalmente in brodo che nella versione più estiva asciutta (e fredda), tutte con pasta fatta rigorosamente a mano. Splendidi infine i Nigiri, dalle proporzioni pressoché perfette con in più, a cena, la possibilità di scegliere singolarmente la varietà dei pezzi desiderati.
Dopo ripetute visite la sensazione costante è che il tutto sia preparato con assoluto rigore e rara sensibilità, in maniera rispettosa e mai dozzinale: se Fukurou è, ad oggi, il miglior giapponese tradizionale di Milano, probabilmente è anche la massima espressione presente oggi in Italia. L’unico difetto tangibile è un servizio che, per quanto cordiale e volenteroso, va presto in affanno, dilatando non di poco i tempi di attesa.
Il voto è arrotondato per eccesso, ma vuol essere un encomio per la volontà di prendere completamente le distanze da quella diffusa realtà, da quel deprimente caledoscopio di locali finti giapponesi, che, con profonda tristezza, si arroga il diritto di rappresentare una delle più mirabili cucine del mondo.
Minimale la mise en Place, con tanto di oshibori confezionato.
Il benvenuto dalla cucina…
…e il benvenuto dalla sala.
Disponibile una carta dei vini con qualche referenza, una bella carta di Sake, alcune birre e del Tè. Noi optiamo per quest’ultimo, Tè secha.
Partenza nella maniera più radicale possibile, con gli shiokara, i calamari fermentati.
Eseguiti in maniera impeccabile i gyoza, con la pasta spessa e callosa al punto giusto, e dal ripieno deciso e ben presente.
Sfiziosissimi gli yakitori alla piastra, sia nella versione più tradizionale con pollo…
…sia in quella con asparagi o con calamari. Innumerevoli altre varianti disponibili in carta.
Davvero di alto livello i nigiri: pesce di grande qualità che abbraccia interamente il riso, cotto al punto giusto (forse leggermente freddo), e con la giusta quantità di wasabi, che dovrete far presente qualora non lo vogliate, e non il contrario.
Udon Yamakake: Udon freddo, con igname yamaimo grattugiato e tuorlo d’uovo crudo.
Hiyashi Chiuka: Ramen freddo, con salsa di pesto di sesamo e bergamotto.
Ramen miso: Ramen in brodo di ossa di maiale, miso e macinato di maiale.
Ramen shoyu: Ramen in brodo di ossa di maiale, polvere di pesce e salsa di soia.
Dessert anch’essi tradizionali, un po’ semplici ma sicuramente molto buoni.
Daifuku. Mochi ben eseguito.
Matcha pudding. Notevole la concentrazione, in pratica un budino di tannino.
A pranzo disponibili diversi menù, sia Teishoku che Jubako, a prezzi clamorosamente convenienti.
Teishoku Sushi (a 16€, con caffé), stessa notevole qualità del sushi, pezzi lievemente più piccoli che a cena, e con l’unico vincolo di non poter scegliere le varietà. Zuppa di miso, contorno e oshinko (verdure salate) in accompagnamento.
Teishoku Sashimi (sempre a 16€, sempre con caffé). Spicca l’impiatto di rara grazia. Stessi accompagnamenti del sushi, con riso al vapore in aggiunta.
Teishoku Tempura. Stesso prezzo dei precedenti, sempre in menù. Tempura dalla pastellatura un po’ spessa ma perfettamente fritta, asciuttissima e croccante, che ingloba l’ingrediente fritto e ne mantiene gli umori. Notevoli il peperone, il gambero e la consistenza del fungo.
Una passeggiata tra le vie che ruotano intorno a Rue Sainte Anne è una piacevole immersione nel mondo del Sol Levante: nel cuore di Parigi, una piccola enclave giapponese fatta di ristoranti, sushi-bar e market. In questa ampia offerta si distinguono due locali in Rue Villedo a pochi metri di distanza: Kunitoraya 1 e Kunitoraya 2.
Il primo è in ristrutturazione, il secondo è il regno di Nomoto Masafumi.
Come spesso accade a Parigi, la formula è molto diversa tra pranzo e cena.
Alla sera c’è un solo menu fisso a partire da 70 euro.
A pranzo ci sono menu più convenienti, ma soprattutto c’è la possibilità di scegliere dalla carta degli Udon un solo piatto per un pasto veloce.
Noi abbiamo provato la seconda opzione e la soddisfazione è stata assoluta.
Gli Udon sono di altissimo livello, così come i brodi: livello assolutamente comparabile a quello delle grandi insegne di Tokyo. Udon elastici al punto giusto, brodi saporiti, ricchi di umami. Le porzioni sono generose, un piatto può assolutamente fungere da pasto completo.
Certo, il prezzo è nettamente diverso da quello riscontrabile a Tokyo. In Giappone l’Udon è considerato il pasto economico per eccellenza e difficilmente riuscirete a spendere a Tokyo più di 10 euro per un piatto.
Qui ci attestiamo mediamente sul doppio della spesa: non ci saranno rimpianti, ma la differenza salta agli occhi. Il centro di Parigi ha il suo prezzo da pagare e tutto sommato, a questi livelli, è un prezzo che si paga con il sorriso sulle labbra.
Lavagne del giorno
Apparecchiatura classica giapponese
In abbinamento: tè verde
Udon giorno: alle vongole
Udon caldi al manzo
Il caffè però è italiano!
Chef al lavoro
Di Hiroki Yoshitake e del suo Sola (“cielo” in giapponese e non fregatura in romanesco) avevamo parlato già anni fa, individuandolo come una delle aperture più interessanti in una Parigi già in piena bistronomie.
Lo chef, dopo un lungo apprendistato in Giappone (suo maestro Hiroyuki Sakai, star televisiva come “iron chef”) è partito in giro per il mondo per arrivare finalmente in Francia, suo obiettivo originario. Qui fa il suo apprendistato in cucine prestigiose e stimolanti (Astrance, Ze Kitchen Galerie, l’ormai negletto alla stampa italiana Magnolias di Jean Chauvel, grande promessa di una decina di anni fa) prima di stabilirsi a Singapore.
Insoddisfatto dell’avventura del suo locale, non ha resistito alle lusinghe di Youlin Li, imprenditore franco-tunisino e sino-cambogiano al tempo (una fusion vivente) che aveva avuto modo di apprezzarne le doti in passato e che già aveva lanciato locali asiatici di successo nella Ville Lumière (Guilo-Guilo su tutti).
Il Sola è nato così, nei locali del vecchio Toustem della Darroze, riorganizzati mantenendo la sala superiore in uno stile tutto rustico “vecchia Parigi” (piuttosto incongruo con la cucina) e ammodernando quella inferiore in perfetto stile nipponico.
In questo contesto, lo chef propone la sua idea di cucina: una rilettura sapiente della grande cucina francese in una chiave leggera e arricchita dall’uso di presentazioni e ingredienti non necessariamente transalpini. Con esiti davvero notevoli per finezza, pulizia, nettezza dei sapori, in cui è facile ritrovare i paradigmi ispiratori (soprattutto Barbot e Ledeuil abilmente meticciati).
Cucina piacevolmente raffinata, dicevamo, proposta a prezzi formidabili (48 euro a pranzo per un menu di 4 portate più amuse-bouche e petit fours; 98 la sera per il menu più ricco), accompagnata da impeccabile carta dei tè (per noi un prezioso Gyokuro) o da una stimolante carta dei vini, molto ben pensata e prezzata in maniera introvabile a Parigi in locali di questo livello.
In un pranzo tutto notevole, le punte sono state la sogliola con declinazione di cavoli, dalla cottura millimetrica e una rilettura davvero indimenticabile del tiramisù (delle mille versioni provate in giro per il mondo, di una spanna la più bella e la più buona. Un grande applauso al pasticciere, Hironobu Fukano).
Non è il locale di cui si parla di più a Parigi: meglio così, trovare posto non è impossibile e ne vale davvero la pena.
Il tè, servito in bellissime tazze
Eclair con foie gras caramellato e crema dauphinoise. Perfetta la consistenza dell’éclair, ottimo l’insieme
Carpaccio di orata con finocchio, pompelmo e salsa al pompelmo. Pompelmo un po’ coprente, non esalta l’ottima qualità della materia prima
Raviolo di poulet de Bresse in brodo, con radicchio, rapa e tartufo nero. Quando la cucina “fusion” ha un senso.
Sogliola con declinazione di cavoli, piselli e salsa agli spinaci. Un grandissimo piatto, che non ci stupiremmo di gustare da Barbot
Piccione, petto e coscia con radicchio. Realizzazione impeccabile e bella presentazione (meno cruenta della moda attuale, ma bene così…)
Rilettura del tiramisù. Un esempio di grande pasticceria: bellissimo, contrasti di consistenze e temperature, leggerezza e zucchero in giusta quantità. Da applauso.
Metti che la saudade del Giappone non ti lasci in pace un secondo.
E quindi, dopo il tuo ritorno, trascorri ogni santo sabato a cercare invano di risentire quei profumi, intensi e pervasivi. Quell’aria, ora così distante, che è diventata familiare. Quella sensazione di stomaco leggero, non appesantito da grassi, appagato dal gusto e dalla delicatezza eterea di infinite preparazioni golose.
E allora capita che ti fai guidare dall’istinto e non dalla solita classifica di ristoranti etnici costruita da persone che mai hanno messo piede in quel paese.
L’istinto questa volta ha il nome e il volto di un amico a cui, sbagliando, non dai mai retta quando ti consiglia un ristorante. Poi, dopo l’ennesima segnalazione, ti informi, leggi, scorri qua e là e scopri che questa chef donna (già di per se una novità per la cucina del Sol Levante) è stata per anni la sous chef di Nobu. E allora ti fiondi, incrociando le dita, e scopri che anche a Milano si può mangiare un buon sushi.
Creativo, contemporaneo. Come tutti i piatti di questa graziosa e delicata chef. Che però sa il fatto suo quando deve preparare il riso per il sushi o quando deve pensare le proporzioni tra pesce e riso. Oppure quando deve condire e contaminare, con eleganza e tocco femminile. Delicato ma persistente.
E ti lasci affascinare anche da quel piatto di Udon, che mai avresti pensato di trovare così buono e ben fatto a Milano, e da quei ravioli di verdure, delicatamente conditi e piacevoli.
Al momento del dessert ti fai tentare dal solito sorbetto di the verde, ma scorgi anche una novità a queste latitudini. Un gelato al Mochi che ti schiuderà il cuore e ti riporterà in Giappone, di corsa. Evviva!
E ne varrà la pena passare del tempo e faticare per prenotare, perchè i 20 posti scarsi di questa piccola bomboniera sono quasi sempre pieni a pranzo e a cena. Ma tentate, ne vale davvero la pena.
Mise en Place
Uno scorcio.
Roll con tonno, tobiko, avocado, salmone, daikon e salsa yuzu.
Cono (temaki) con tonno e avocado.
Ravioli di verdure in salsa di soia.
Il fantastico sushi misto, con salse ed abbinamenti (e alcune cotture alla fiamma) interessanti. Notare proporzione tra pesce e riso.
Gli ottimi tempura Udon.
Tonno, sesamo, gambero fritto…
Mochi Gelato, ottimi.
Gelato al the verde.