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7 chome Kyoboshi

Il Tempura pare risalire al XVI Secolo, periodo in cui ci furono i primi contatti tra marinai portoghesi, missionari cristiani e il popolo giapponese.
Durante ogni cambio di stagione i cristiani si dedicavano a tre giorni di preghiera e, impossibilitati in quel periodo a mangiare carne, si nutrivano di solo pesce e verdure. Il momento, definito “quattro tempora” (per via del fatto che il rito si ripeteva ogni stagione) diede il nome alla preparazione che per loro venne pensata dai Giapponesi, friggendo in una eterea pastella pesce e verdure, appunto.
Ma sarebbe riduttivo ricondurre a un didascalico evento storico l’esperienza in questo luogo di culto che abbiamo avuto il piacere di visitare.
Incominciamo con il dire che il Tempura non è una frittura. E’ una vera e propria arte di cottura e di pensiero. Ci sentiremmo di definirla un’antesignana della sferificazione di adrianesca memoria. La pastella, eterea pellicola quasi inesistente, è sostanzialmente l’involucro, il sigillante tra la materia prima e il veicolo di cottura.
Con questo artificio si preservano umori e gusto. Il prodotto non perde la sua consistenza originaria, non si ossida, ma miracolosamente cuoce. Ecco quindi un peperone croccante, un gambero suadente, dolce e turgido, un fungo soave e consistente.
Al 7 Chome Kyoboshi, grazie a Sensei Shigeya Sakakibara, originario di Kyoto, è possibile provare la più alta (e la più cara purtroppo…) espressione della tecnica del Tempura. Una ventina di mirabolanti, croccanti ed eteree sferificazioni, che vi allieteranno a tal punto che non vedrete l’ora di tornare a dispetto dei 38.000 Yen (circa 280 euro) che spenderete in questa piccola bomboniera nel centro di Ginza, la Montenapoleone della capitale nipponica.
D’altra parte 9 sono i posti disponibili di fronte al maestro, e quasi mai tutti utilizzati.
Abbiamo già fatto scorrere fiumi di parole sulla maestria giapponese, sul loro concetto di alto artigianato e di applicazione costante al perfezionamento di una sola ed esclusiva tecnica. Osservare Sensei Sakaibara preparare la pastella, controllare la temperatura dell’olio avvicinando lievemente il palmo della mano alla padella, immergere i prodotti e rigirare con le bacchette controllando con attenzione la cottura, con una serenità, decisione e fermezza uniche, è impagabile. Permettendosi anche di scherzare tra una portata e l’altra.
Fantastica esperienza, che consigliamo vivamente a chi si recherà nella capitale del Sol Levante, da non perdere per nessun motivo al mondo.

L’ingresso al settimo piano del palazzo…

L’interno…

La nostra compagna di avventura…

Funghi Matsutake crudi, limone e sale… da urlo.

Il nostro pranzo…

Alghe con gamberi marinati al wasabi.

Il maestro all’opera.

Il primo fritto, l’unico che sapeva di fritto: toast di gamberi.

La consolle di comando di Sensei Sakaibara.



L’etereo gambero.

La fragrante radice di loto.

Daikon e… probabilmente aceto di riso e sakè (il segreto non ci è stato svelato): incredibile.

Patata dolce di Hokkaido.

La seppia, dolce e morbida.

Il peperone croccante e il gambero.

L’uovo di quaglia.

La cipolla.

L’afrodisiaco abalone.

Gambero e radice di zenzero.

L’incredibile e costoso fungo Matsutake.

Gelatina di patata dolce.

Una specie di merluzzo locale con salsa di prugne umeboshi.

L’incredibile fico fritto.

E per finire, sottaceti-fermentati.

Fritto di gamberi e riso.


E il fantastico melone Yubari king, dal costo proibitivo.

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Il Giappone è terra di incredibili realtà.
Sarebbe impensabile in Europa, non solo in Italia, aprire un ristorante per soli 4 coperti.
Da Takazawa accadeva sino al maggio 2012.
Poi, la “svolta”. Le incredibili liste d’attesa, le pressanti richieste dei numerosi clienti abituali lo hanno indotto ad aumentare il numero dei tavoli, sino a giungere al mirabolante numero di 8 coperti, si badi bene non al banco, come accade nei sushi bar, ma seduti al tavolo.
Questa politica economicamente suicida ha un solo movente: la ricerca della perfezione.

Takazawa fa un one man show (invero un aiuto c’è, ma è dietro le quinte): erto sul banco di lavoro, su un lato della sala, cucina a vista e spesso dirige lo sguardo ai suoi ospiti affinchè possa servire ogni portata nei tempi più consoni.
Tutto passa sotto l’attento controllo suo e della gentilissima consorte, regina della minuscola sala.
È una cucina pensata, studiata nei minimi particolari, dalle forme ai colori, dalle consistenze ai sapori.
Le proporzioni dei singoli ingredienti sono millimetriche e incredibile è la profondità di gusto che si riesce a percepire nelle sue preparazioni. Takazawa riesce a far emergere la vera essenza degli ingredienti, con utilizzo minimo di condimenti grassi.
La leggerezza è il minimo comune denominatore.
Non ci sono fronzoli, ciò che viene portato in tavola è strettamente funzionale al risultato finale.
Tale impatto di grande pulizia e raffinatezza si celebra anche nella mise en place, essenziale.
Vedere il maestro all’opera è didattico. In assoluto silenzio, cucina sul suo personale palcoscenico, la pulizia regna sovrana, i movimenti sono misurati, l’odore della brace raggiunge solo lievemente le nostre narici, ci godiamo lo spettacolo ammirati.
Per chi, come noi, è a digiuno di giapponese, la moglie saprà, seppur elementarmente, spiegare i piatti in lingua inglese. Sospiro di sollievo.
Il servizio (ovvero la signora Takazawa) è delicato, gentile e professionale. Al termine della cena, i coniugi vi accompagneranno alla porta e faranno mille inchini finché non avrete girato l’angolo. Ospitalità orientale.

Una serie di portate di grandissimo livello (che gioia gustare la celestiale maionese al tartufo bianco sulle verdure del suo orto) segnano una delle cene memorabili della nostra vita.
La materia prima non potremmo immaginarla migliore.
Quell’anatra era di un’altra galassia, per il manzo di Kobe c’è tempo.
La ratatouille di verdure è l’emblema della classe di Takazawa. Ben 15 tipologie cotte separatamente (e perfettamente), croccanti e saporite, in un sol boccone che al palato regala attimi di puro piacere. Un piccolo mondo vegetale.
Lo zenith non lo abbiamo comunque raggiunto: sui dolci, per inventiva e gusto, seppur tecnicamente ineccepibili, siamo ancora un gradino sotto.
Tokyo è luogo magico per la ristorazione e Takazawa una delle sue perle.

Mise en place.
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Mako sashimi style, di bontà inenarrabile.
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Frozen pop corn. Esercizio di stile.
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Tenpura di funghi “matsutake” e verdura “okura”. Leggera e croccante.
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Il signature dish. Ratatouille. 15 verdure, cotte separatamente, poi in terrina. A latere fagiolo nero e sale. Boccon divino.
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Terrina di maiale di Okinawa, pan brioche (fantastico) con fagioli di soia. Consistenza simile ad un patè, gusto molto concentrato. La merenda che tutti avremmo voluto da bimbi.
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Cappuccino di Ayu (pesce), spuma di cetriolo, formaggio acido, vegetable caviar (semi), fiori di cetriolo e croccante di Ayu. Dosaggio degli ingredienti e tecnica.
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Rivisitazione di uno street food diffusissimo in Giappone, il takoyaki, originario di Osaka. Terrina di polpo, alga fritta e maionese.
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Il Tiramisù. Un pasticcio di mais e granchio con polvere di cacao e liquirizia. Magnifico.
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Harvest from Takazawa farm. L’orto secondo Takazawa. In una granella di pane tostato, sesamo, avena, a mo’ di terra, sono piantati asparagi verdi e bianchi (che buoni!), edamame, patate e rape. Il tutto deve essere colto e condito con…
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…la strepitosa maionese al tartufo, contenuta in minuscoli tubetti. La cucina è anche gioco, e qui si gioca alla grande.
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Si gode.
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Anago (anguilla di acqua salata) affumicata, con tartufo estivo, pepe, cipolla e dragoncello. Ineccepibile per gusto e cottura.
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Anago close up.
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Candleholder. Un finto portacandela nasconde un’ottima creme brulèe di foie gras, purea di mango e pane croccante alle noci comme il faut completano la portata. Indovinata la spinta acida per un grande classico. Davvero notevole.
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Candleholder svelato.
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Reds: una portata tutta giocata sui toni rossi. Un pesce, delicatissimo, il bighand thornyhead, cotto con barbabietole, pomodoro, radicchio, coriandolo, e la sua testa arrostita sui carboni, croccante e saporita.
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Rice Paddy: anatra, purea di patate, riso soffiato e porri. Carne difficile da descrivere, per bontà e consistenza.
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Melon Soda: melone frizzante con gelato alla vaniglia. Preludio al reparto dolce, palato resettato.
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Wine Tasting. L’idea è davvero interessante, racchiudere in una gelatina tutti i principali descrittori dei vini bianchi e rossi: papaia, mango, menta, melone, ciliegia, uva passa, ananas, tartufo, caffè, pepe. Al palato, però, alla lunga stanca.
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Cookies e cioccolato. Per finire in dolcezza.
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La sala, vista sulle scale
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In Giappone si mangia benissimo a tutte le cifre.
Al di là dei luoghi comuni e dei pallidi echi che arrivano dalle nostre parti sotto forma, nel migliore dei casi, di sushi bar e, nel peggiore, di all-you-can-eat gestiti da cinesi dove gustare (si fa per dire) confusi mix asiatici, recandosi in quello splendido paese si trova una varietà d’offerta straordinaria.
Quando si parla di “noodles”, questi possono assumere (con mille varianti regionali) la forma di soba (tagliatelle di grano saraceno), ramen (di frumento e di origine cinese) e udon (anch’essi di frumento, normalmente a sezione quadrata molto spessi).
Pur da cultori della materia, mancava nella nostra esperienza la conoscenza degli Inaniwa Udon, una tipologia antichissima (il primo libro di ricette che ne parla è del diciassettesimo secolo), originaria della prefettura di Akita, nel nord ovest del Giappone.
Si tratta di udon più sottili rispetto ai classici, dall’aspetto particolarmente traslucido e dalla consistenza morbida e setosa, che vengono gustati sia affogati in brodi caldi sia accompagnati, a parte, da salse fredde o calde in cui intingerli.
Il modo migliore di testare questa specialità è quello di visitare uno stabilimento classico in cui la preparazione sia eseguita in modo rispettoso della tradizione e la nostra scelta è andata alla sede in Ginza della Sato Yousuke Shoten.
Si tratta del branch nella capitale di uno storico produttore alla settima generazione familiare, presso il quale è possibile, anche a Tokyo come nella sede madre, acquistare i preziosi “spaghi” o mangiarli in loco. La particolare qualità dello stabilimento è certificato dal premio di “Skilled Artisan” ricevuto nel 2004 dall’attuale capo azienda, un patrocinio diretto da parte della casa reale che è cosa non trascurabile nel paese del sol levante.
La location è molto curata ed elegante, se si pensa che si tratta di un mangiare povero, ma non lasciatevi intimorire: al momento del conto non avrete nessuna lacrimuccia da versare.
L’offerta è davvero basic: meno di dieci possibili scelte tra udon freddi e caldi, accompagnati da tè verde o birra, da scegliersi da un menù plastificato che un po’ stride con arredi e illuminazioni semplici ma di ottimo gusto.
Quel poco che c’è, però è davvero buono: gli udon con funghi nameko e daikon grattato sono l’opzione più tradizionale, davvero ottima se accompagnata con la salsa al sesamo che ne aumenta lo spettro gustativo senza comprometterne la grande freschezza e leggerezza. Altrettanto interessante la variante al curry, concessione al “fusion” più impegnativa della versione originale e davvero ben riuscita, con un curry forse meno intenso che a Brick Lane ma molto efficace nell’accompagnare gli udon.
Nel vassoio che vi sarà servito, a complemento dei noodles, una ciotola di riso e “pickles” d’ordinanza, particolarmente graditi al pubblico locale.
Se gradite un rinforzino di udon perché vi è avanzata della salsa, non esitate a chiederlo, è già previsto che vi sia fornito, con un piccolo supplemento.
La vostra tazza di tè non resterà mai vuota grazie alla solerzia delle gentili cameriere, ma nessun rabbocco avrà effetti sul conto finale.
L’addizione suddetta, anche per il più affamato, non potrà superare i 15 euro per una scoperta gastronomica molto interessante, un fast food per gourmet che conferma, se ce ne fosse bisogno, che il buon gusto non si misura in soldi spesi.

Uno scorcio del locale.

Lo spartanissimo menù, in versione inglese. Per rendere l’idea: 1000 yen sono poco meno di 8 euro al cambio attuale.

Una vista da vicino degli udon. La lucentezza viene ottenuta raffreddandoli col ghiaccio dopo la cottura.

Il servizio degli udon al curry. Come tutti gli udon freddi, vanno presi con le bacchette (hashi) e intinti nella ciotola contenente la salsa, in questo caso il curry.

Dieci giorni tra Tokyo e Kyoto per un totale di oltre trenta ristoranti visitati, molti pluri-stellati, qualche locale più semplice e tanto cibo da strada. Un’immersione in un universo affascinante e tanto distante da noi. Non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente. Un popolo, una terra ricca di suggestioni. Quale modo migliore per capire il Giappone se non quello di immergersi nelle sue strade, osservare i comportamenti di un popolo civile ed evoluto, i cui i treni non arrivano mai in ritardo, ma neppure in anticipo.
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Città in cui ci sono pochissimi cestini per i rifiuti lungo le strade, perché tutti si portano i rifiuti appresso, pragmatismo ecologico (si riducono i rifiuti prodotti) e organizzativo (non si debbono svuotare cestini che per un qualsiasi imprevisto potrebbero rimanere pieni). E per le strade sono una rarità anche le panchine, qui si corre dalla mattina alla sera, spesso ci si addormenta stremati nei metrò, in sostanza non si spreca il tempo, un bene prezioso come l’aria. In questo paese una richiesta fuori programma, che sia un piatto in più o una variazione su una prenotazione, pone l’interlocutore di fronte all’ignoto, al non conosciuto, all’indecifrabile e all’ingestibile. Tutto sembra perfetto, catalogato, certo e sicuro, anche nella baraonda e nella confusione apparente che affascina durante una visita ai mercati, pieni di rituali a noi sconosciuti, ma ricolmi di civiltà, storia e cultura.
Un popolo si comprende molto meglio osservandolo a tavola, e anche immerso in uno dei nostri compiti primari per la sopravvivenza, vero a qualsiasi latitudine, la conquista del necessario per sfamarsi. Almeno due volte al giorno. E’ atto di sopravvivenza qui svolto, come tutto il resto, in maniera responsabile, attenta, sottile, finanche maniacale.
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I mercati ricchi di freschissima materia prima, a tutte le fasce e a tutti i livelli. Solo in Giappone può esserci chi si impegna a coltivare 10 meloni per raccolto, a cesellarne e scolpirne le forme, quasi come un bonsai, per ottenere una stratosferica e straordinaria materia prima, a oltre 100 euro al pezzo. Solo in questo luogo si può incontrare un maestro di sushi che apre 24 tonnetti per sceglierne uno solo, il migliore e il più fresco, che i suoi 6 commensali di quel giorno avranno l’onore di assaporare. I mercati strabordano di verdure e alghe fermentate, componente base per una cucina povera di grassi, sana, ma gustosa e persistente. In cui l’umami è ricercato attraverso mille componenti e sfaccettature differenti.
Qui in Giappone c’è la grande industria, vanto di questa terra, precisa nella sua seriale ed elevata qualità, ma c’è anche la somma espressione dell’arte artigiana, purtroppo destinata – e lo sappiamo bene – a pochi o meglio dire pochissimi eletti.
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La ripetitività del gesto, infinita, che qui è considerata maestria. Un solo atto da ripetere e perfezionare per tutta la vita. Al bando la creatività, la variabilità, l’istinto e l’improvvisazione. Qui si è considerati grandi se si persegue per tutta una vita lo sviluppo di un solo gesto, di un solo atto, di un solo e unico modello. All’infinito curato e migliorato, giorno dopo giorno, nei minimi dettagli e particolari.
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Ecco quindi emergere i maestri di tempura, che vi doneranno una frittura che non sarete più in grado di chiamare tale. Eterea, praticamente inesistente, che ha il solo significato funzionale di sigillare la materia, semplicemente straordinaria, dal veicolo di cottura, l’olio. Per rendere una melanzana, un fungo, un gambero apparentemente crudo ma al contempo cucinato, dolcemente cullato dal calore, preservando però all’interno dell’involucro tutti gli umori dello stesso. La sublimazione di un atto, come la preparazione maniacale di un pezzo di sushi, in cui tutto è fondamentale. Dalla scelta della materia prima, dalla cura del riso e della sua preparazione, dal confezionamento.
E non stupitevi se voi, quasi attoniti, vi sentirete dire con perentoria decisione che il melone che state acquistando deve essere consumato entro 2 giorni, o che i dolcetti che volete riportare alla vostra amata non potranno essere consumati oltre la sera stessa.
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Non dimenticando i riti e ritmi kaiseki, qui scanditi ovunque. Vi pervaderanno con attenzione estrema all’estetica, considerata parte integrante del senso gustativo, mai fine a se stessa. Il dettaglio, la bellezza, che riprende un concetto caro a Marchesi. Ciò che è bello non può che essere anche buono. Estetica e gusto: la bellezza della forma non è mai comprimaria del gusto, ne è struttura indivisibile (principio kaiseki).
In questo paese vige il culto dei dettagli: la bellezza è spesso nascosta. Un fiore, un vaso, uno scorcio infinitesimale di un giardino interrompe la monotonia di cemento in alcune periferie spesso anonime, in cui si incontrano maestri che officiano nascosti in cantine di palazzi grigi, ma che sfiorano l’arte con le loro preparazioni. Senso civico senza pari, rispetto dei codici e dei formalismi, rispetto dell’ospite e massima attenzione al servizio, qui considerato un’elevazione verso il divino.
Un paese, una terra molto affasciante e intrigante, che noi cercheremo di raccontarvi attraverso l’occhio curioso di 6 appassionati gourmet, sperando di riuscire a trasferirvi il senso profondo di questo popolo, della loro cultura e civiltà, attraverso il cibo, fonte di vita primaria ed energia che muove il mondo intero.
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Va preso atto che l’alta cucina nelle grandi città italiane passa sempre di più per l’hotellerie di alta gamma e che, contrariamente al passato, in molti alberghi di Roma e Milano ci sono ristoranti davvero interessanti.
In questa che è una tendenza recente, si distingue il caso di Francesco Apreda e del suo Imàgo, attivo oramai da molti anni all’interno dell’Hotel Hassler ma rarissimamente citato dalle cronache gastronomiche.
La cornice è fantastica: nel cuore di Roma e con vista, dalle sue vetrate, su tutta la città, la sala è in sé motivo di una visita. Questo che sarebbe, a tutti gli effetti, un plus, rischia però di offuscare un aspetto essenziale: all’Imàgo si mangia benissimo.
La cucina di Apreda è l’espressione matura di uno chef di grande personalità e con delle passioni forti: in particolare l’Asia, sia nella sua declinazione nipponica (Apreda ha lavorato a lungo in Giappone) sia in quella indiana (basti vedere come gli si illuminano gli occhi quando parla dei viaggi che fa da quelle parti per consulenze legate al suo lavoro). Asia che Apreda riesce a coniugare, spesso come elemento di sostegno e amplificazione, a una cucina di chiara matrice italiana e mediterranea, rispettata nei suoi dogmi ma resa moderna e stimolante.
Il tutto porta a preparazioni complesse, molto tecniche, di grande impatto visivo e, nel contempo, leggere, pulite, in cui tanti elementi eterogenei si fondono con sorprendente armonia.
Abbiamo spaziato tra classici e novità, nelle preparazioni di carni e pesci e nei dolci, trovando una cucina davvero riconoscibilissima e, che bello, senza una caduta.
Molte, anzi, le vette: splendidi tutti e tre i primi, dal risotto, ai capellini, alla pasta ripiena; molto buoni i piatti di pesce ed eccellenti le preparazioni di carne; dessert di grande tecnica e pieni di suggestioni, visive e di memoria gustativa.
Dovendo proprio scegliere un emblema, pescheremmo quello che è giustamente già un classico della maison: Cappellotti di parmigiano in brodo freddo di tonno, doppio malto e 7 spezie.
Solo a leggere il titolo tremano i polsi e invece si tratta di una preparazione esemplare: tutt’altro che accomodante, l’umami spinto del ripieno di parmigiano si abbina a un brodo di strabiliante complessità gustativa, ma rinfrescante. Sapidità spintissima, ma mai sgradevole e un matrimonio improbabile tra Italia e Giappone si celebra tra gli applausi. Altro che “cucina d’albergo”, intesa come tranquillizzanti preparazioni per ottuagenari benestanti, qui c’è personalità da vendere.

La carta dei vini permette di accompagnare la cena ai prezzi che ci si può aspettare in un locale della categoria (anche se non mancano bottiglie molto sotto le tre cifre). Interessante la selezione di bollicine italiche e francesi. Se dovessimo dare un consiglio (a questi livelli l’obiettivo è il cielo), ci piacerebbe vedere più ricerca di “chicche” e meno soliti nomi (ad esempio, oltralpe, nelle selezioni di Loira e Alsazia, regioni che possono proporre abbinamenti eccellenti con questa cucina).
Il servizio va segnalato per la capacità di dare calore alla professionalità: siete in un posto di lusso ma non ci sono affettazione né rigidità, una sensazione che all’Hassler proverete ovunque (compreso l’ottimo cocktail bar) e che è la cifra impressa dalla straordinaria direzione di Roberto E. Wirth, da oltre trent’anni al comando di questo hotel di culto.
Rapida conclusione: una meta obbligatoria.

In apertura: risotto allo spumante e blend di pepe e sesamo, caciotta e aceto balsamico. Un risotto memorabile.

Ottimi amuse-bouche

Terrina di foie gras con sgombro, miso e spezie. Coefficiente di difficoltà altissimo, abbinamento assai ardito. Risultato finale notevole

Tartare di gobbetti, pane, olio e cedro. Fine e rinfrescante, sarebbe perfetto se la proporzione fra tartare e elementi freschi fosse un po’ più spinta in favore dei secondi

Carpaccio di capesante, bacon, sale alla vaniglia. Più scolastico, ma comunque ben riuscito

Capesante impanate, ripiene di mozzarelle di bufala, foglia di sedano e tartufo. Il piatto più debole, anche se l’idea del sedano tiene tutto insieme

Cappellotti di parmigiano in brodo freddo di tonno, doppio malto e spezie. Già detto, una gran riuscita.

Capellini aglio, olio e peperoncino, anguilla affumicata e polvere di cacao. Un altro piatto di grande scuola. Splendida l’armonia tra i due mondi, impagabile la capacità di unire finezza e gourmandise.

Filetto di spigola alla Marinara fragrante, crescione e tataki di melanzana.

Grigliata di sciabola e gamberi rossi al balsamico, patate e asparagella. Come ingentilire i sapori delle grigliate estive. Tecnica spintissima.

Merluzzo carbonaro glassato al saké, verdurine in campo viola.

Piccione arrostito al tè nero e sherry, zolfini e porri strinati. La foto un po’ scura non rende giustizia a un piatto bello e buono in pari misura

Petto d’anatra in stile tandoori, lattughina e albicocche al vino. Passaggio in India, altro pezzo di bravura.

Agnello da latte alla brace di semi di coriandolo, fave e purea di pomodoro. Una delle vette della cena e un altro abbinamento oriente-occidente da applauso

Scenografica versione del babà, qui anche i dessert sono di livello.

Ricordo di uovo allo zabaione, granita di orzata alla crema di caffé. Piatto della memoria, tra le domeniche campane e le mattinate di vacanza nel salento. Regressivo e tecnico insieme.

Le bottiglie che ci hanno accompagnato durante la serata:


Il cocktail bar al piano terra, per iniziare con un Americano, se amate il genere, di rara bontà.