Nell’era del 2.0 è invitabile: chiunque tra noi, appassionato o no, prima di recarsi in un ristorante -ma non soltanto- dedica un più o meno rapido sguardo al suo sito web, in bilico tra voyeurismo, ricerca di informazioni e pura curiosità.
Ed il sito di Sushi B, proprio in termini voyeuristici, è quanto di più chiaro possibile: senza che sia dato sapere dove finisce l’ambizione e inizia il SEO, il titolo della pagina recita testualmente “Il miglior ristorante di Sushi Giapponese di Milano”.
Semplice e diretto.
Con questa premessa ci rechiamo da Sushi B sinceramente incuriositi, certi di un’esperienza gastronomica quantomeno degna di nota.
Ci accoglie un ambiente letteralmente da sballo, in una delle vie più charmant del centro di Milano, via Fiori Chiari: non nel quartiere Brera ma letteralmente in Brera, a cinquanta metri dalla Pinacoteca, proprio di fronte a quella che fu l’abitazione/studio di Piero Manzoni.
Pochi scalini e sarete avvolti in un ambiente estremamente di tendenza, all’interno di uno spazioso dehors con un ampio giardino verticale, numerosi tavoli ed un grande banco bar, per un aperitivo o un drink after dinner.
Entrando dalla porta sulla sinistra, l’aspetto da lussuosa boutique se possibile si accentua ulteriormente, tra vetri e specchi, marmi e laccature nere, luci anche troppo soffuse e impeccabili divise del personale.
In bagno, uno spettacolare Washlet di Toto ci dispone al meglio quanto a tasso di orientalità, ed invece quest’ultimo si rivelerà, purtroppo, la cosa più giapponese che troveremo tra queste mura.
Senza girarci troppo intorno, non solo non ci troviamo di fronte al miglior ristorante giapponese della città ma, a dirla tutta… in realtà non ci troviamo nemmeno in un ristorante giapponese in senso stretto.
Quella di Sushi B è un’interpretazione di cucina fusion fortemente contaminata, tanto da arrivare a offuscare completamente la sua base di partenza. Piatti -sotto l’aspetto meramente gastronomico- corretti e piacevoli, ottenuti partendo da materie prima di buona qualità, ma snaturati al punto da risultare decontestualizzati ed insensati in qualsiasi ottica, privi di mordente, di stimoli, di anima.
E anche volendola inquadrare come fusion, questa cucina mostra il fianco alla prima ripresa, non operando per valorizzare piatti e materie prime del Sol Levante, bensì limitandosi a mixare, senza profondità, ingredienti dalle origini più disparate. Esempio perfetto il sushi, nel nostro caso davvero basico: riso troppo freddo, dal punto di cottura leggermente oltrepassato, senza acidità né alcun altro contrasto, con del pesce di buona qualità ma totalmente annichilito dal topping in aggiunta, in ordine sparso tartufo, foglia d’oro, caviale e foie gras.
Un paradigma di purezza orientale, il nigiri, travolto e inghiottito dalla voglia di stupire e strafare.
E così, tra il sushi non all’altezza ed un sigaro di pasta fillo davvero banale, il migliore dei piatti del menù Omakase creativo (suggeritoci dal cameriere come scelta consigliabile, nonché fiore all’occhiello della proposta del ristorante) risulterà la pancia di maiale con verdure croccanti. Un piatto sicuramente valido, anche se non propriamente quel che ci si aspetterebbe all’interno di un Omakase… men che meno poi se le aspettative -questa volta indotte- erano da miglior Giapponese di Milano, ed il conto è comunque parametrato ai medesimi ambiziosi livelli.
Il benvenuto: Pesto di Shiso, tagliatelle di Konjac, pinoli tostati. Sfizioso, buon inizio.
I cocktail, davvero eccellenti non solo se rapportati alla media dei ristoranti, ma anche ai cocktail bar di grido.
Il Milano-Tokyo…
…e lo Shinkansen, notevole. Gin Jinzu, Junmai Ginjo, Limone, Acqua al Lemongrass, Agave, Shizo.
La prima portata: Cappesante, gamberi di Mazara, spuma di yuzu, caviale. Buona qualità delle componenti, buona dosatura di acidità: l’inizio è convincente.
Tonno, Salmone e Ricciola Gunkan, con maionese all’avocado. I tre sashimi, scottati all’esterno, sono riempiti delle loro uova.
Salsa di barbabietola, scampo scottato, carpaccio di barbabietola, sashimi di ricciola, olio al tartufo.
Sigaro di pasta fillo con sarde, patate e basilico giapponese, polvere di pomodoro e sale Maldon.
Un briouat, tipico della cucina marocchina (?), non croccante, eccessivamente unto e dalla farcia poco incisiva.
Il sushi creativo: Scampo (con olio al tartufo, disturbante già al naso alla presentazione del piatto), Ricciola (con caviale), Salmone (con uova di salmone), Branzino (con uova di merluzzo), Toro (con foie gras).
Ostrica cotta nel burro di Normandia.
Pancia di maiale, verdure croccanti, salsa di topinambur, salsa teriyaki. Ottimo piatto, con annesso momento di sommessa ilarità per un lapsus del cameriere nella presentazione, testualmente “…il topinambur è una sorta di tubero giapponese…”.
Predessert: Chantilly con spuma al caffé.
I dessert, in linea con il rapporto forma/sostanza del resto della cena: dall’impiatto curato, dai molteplici ingredienti, ma alquanto basilari nel gusto.
“Come un pittore”: Crumble di cacao, meringa, cioccolato bianco, sorbetto all’uva fragola, salsa alla lavanda.
“Terra bruciata”: mousse al cioccolato, spuma di fagioli Azuki, sorbetto al cioccolato e ganache di cioccolato affumicato.
Non c’è probabilmente altra città europea, al momento, in cui trovare una tale varietà e qualità di cibo giapponese: negli ultimi anni Parigi, insieme a Londra, ha visto fiorire un impressionante numero di pasticcerie e tavole dedicate alla gastronomia del Sol levante.
Il sushi, senza dubbio una delle preparazioni giapponesi da esportazione di maggior successo nel mondo, non fa eccezione: sono almeno tre i grandi indirizzi parigini da non mancare.
Tra questi c’è certamente Jin: Takuya Watanabe, sushi master e proprietario di questo locale, ha creato un vero gioiellino che, dal cuore del lusso parigino, catapulta il cliente per un paio di ore in un sushi bar di Tokyo.
Un bel locale, pensato dell’architetto Jun Yonekawa, in stile giapponese con qualche piccola contaminazione occidentale: quindi è d’obbligo il grande bancone in legno dove prendere posto e godere delle preparazioni di Watanabe e del suo aiutante.
Il livello del sushi è veramente alto, non troppo distante da un locale medio-alto della capitale giapponese.
Grandissima qualità del pescato, quasi esclusivamente di origine europea.
Riso (giapponese) ricco di aceto quindi dalla forte spinta acida, chicchi ben sgranati, utilizzo spericolato del wasabi in alcune portate.
Qualche divagazione (ad esempio l’utilizzo del caviale) sempre e comunque molto convincente, sapiente uso delle marinature: il fegato di rana pescatrice è una portata che non dimenticheremo facilmente.
Sul perché nessuno decida di aprire un locale di questa qualità in Italia è domanda a cui non riusciamo a dare una spiegazione. In una città come Milano, ad esempio, troverebbe senza dubbio terreno fertile anche a questi prezzi (certamente non popolari).
Stiamo ad aspettare, fiduciosi… nel frattempo non possiamo che invidiare i cugini transalpini.
Astice, cavolfiore, aceto.
Tonno (o-toro) con caviale: un boccone da imperatore.
Sashimi di branzino, sale, wasabi.
Tonno (akami), soia e daikon.
Fegato di rana pescatrice, peperoncino, salsa ponzu.
Rombo.
Cappasanta.
Scampo con corallo.
Seppia.
Orata.
Ricciola.
Sugarello.
Sgombro.
Tonno rosso (akami).
Salmone.
Maki di tonno.
Tonno (chu-toro).
Uova di salmone.
Brodo all’astice.
Pere e mascarpone.
Una volta varcata la soglia di questo accogliente e raccolto locale al Flaminio, interessante quartiere dove sono dislocati alcuni degli indirizzi culturalmente più importanti di Roma (come l’Auditorium e il Maxxi), non potrebbe esserci equivoco maggiore che aspettarsi una cucina di matrice orientale o in qualche modo orientaleggiante.
Noda Kotaro, da tanti anni in Italia, è il classico esempio di affinità elettiva quasi totale per la civiltà enogastronomica di un paese altro dal proprio.
Non conoscendolo di persona, solo un attento lavoro di detection, e non certo una scorsa del menù, potrebbe infatti rivelarne l’origine nipponica, essendo egli profondamente calato in tradizione e territorio laziali.
Dapprima, infatti, in quel di Viterbo alla Torre, e poi, da qualche anno, nella realtà romana, l’immedesimazione, pressochè zelighiana, dello chef nell’ambiente e negli umori di cui è intrisa la realtà gastronomica che lo circonda è di fatto totale.
Vero è, d’altro canto, che a Roma bisogna fare di necessità virtù e un ristorante che non annoveri nel suo menù gricia, carbonara o amatriciana tenderà a incontrare molta difficoltà nell’intercettare i favori di una clientela che definire conservatrice sarebbe un garbato eufemismo.
Lo chef se ne è dato per inteso e nella sua carta non mancano le personali versioni di questi cavalli di battaglia della gastronomia regionale.
E’ altrettanto possibile, però, affidandosi magari al degustazione per un’ampia panoramica, conoscere e apprezzare piatti che, partendo da ricette fortemente istituzionalizzate, ne vedono una loro versione alleggerita e affinata.
Nessuna folgorante intuizione, nessuna trovata trascendentale ma buon senso e levità, applicati con profitto, sono il vademecum costante di un percorso che presenta pietanze come il delicato e leggero pesto di fagiolini e seppie o l’ottimo salmone sapientemente marinato nel koji corredato da una crema fresca, pur se troppo poco densa, a base di yogurth e olio alla menta.
La personale interpretazione del territorio da parte dello chef presenta anche alcune preparazioni certamente gustose ma alquanto scolastiche come la panzanella con pil pil di baccalà e maionese al basilico, l’onesta porchetta con coppa, crema di bieta e mela marinata al vino rosso o l’ennesima e superflua rivisitazione della caprese.
La sensazione finale, comunque, è quella di trovarsi di fronte a un profondo conoscitore della gastronomia locale nonché un bravo esecutore e ad alcuni guizzi, come l’eccellente brodo che accompagna i lombrichelli, un cioccolatino ripieno di fragola di ottima fattura nella variazione di cioccolato bianco o il già menzionato salmone, lasciano intravedere quelle potenzialità che permettono serenamente di arrotondare il voto per eccesso.
Panini di pecorino e pepe e pane carasau.
Ottimo pane.
Caprese rivisitata: gelatina di acqua di pomodoro, salsa di basilico, spuma di mozzarella, foglia di shiso.
Gelato di ostriche, centrifuga di mela verde, sedano e zenzero con lime candito.
Panzanella con baccalà, pil pil, maionese di basilico, pomodorini alla vodka e olio di basilico.
Uova strapazzate, polvere di gamberi, succo di rapa rossa fermentata, gamberi rosa crudi, soncino, prugne fermentate.
Lombrichelli, vongole, verdure e katsuoboshi.
Fusillone, pesto e fagiolini con seppie marinate.
Salmone marinato nel koji, giardiniera e crema di yogurth con olio alla menta.
Porchetta, coppa, mela marinata al vino rosso e disidratata, crema di bieta e pane.
Gelato alla vaniglia.
Variazioni di cioccolato bianco: in polvere, squisito cioccolatino ripieno di fragola liquida, panna cotta ai fiori di sambuco, sorbetto di pera e meringhe allo yuzu.
Crumble di nocciole, pesca sciroppata, mousse di caramello, sorbetto alla pesca, cialda di latte e camomilla, dolce poco significativo.
Petit four.
Un grande Timorasso.
La sala.
La forma: la compostezza ed il rigore di un kaiseki.
La versatilità: gli intriganti sapori ancestrali e l’incredibile biodiversità del cibo peruviano.
È una ”unione” perfetta tra due culture agli antipodi. Purezza da un lato, generosi condimenti e diversi comprimari dall’altro. Parliamo naturalmente della cucina “nikkei”, una delle più in voga oggi.
Pakta, la più rappresentativa tavola a tema dei fratelli Adrià, è probabilmente il miglior ristorante in Europa a proporre questo tipo di cucina.
Il menu Machu-Picchu, il più esaustivo tra gli unici due percorsi proposti, ha due anime. Si apre con assaggi all’insegna della pulizia e dell’estetica degli ingredienti e poi vira, fino a straripare nei colori vivaci, nei profumi e nei sapori pungenti, aggressivi e aromatici del Sudamerica, domati e controbilanciati con intelligenza e bravura.
Rispetto all’altrettanto divertente Tickets, in cui il connubio tra ingredienti e sapori è altrettanto studiato, al Pakta la combinazione dei prodotti presenta un coefficiente di difficoltà decisamente più elevato, considerata la tassatività di dover utilizzare, per la causa, i prodotti peruviani più rappresentativi, come i peperoncini, le patate, la cipolla, il mais, la manioca, il platano, senza però tralasciare i crismi della filosofia estetica, naturale e cerimoniale del kaiseki.
Un paio d’anni fa ci colpì parecchio il fascino di questa fusione di culture gastronomiche, nonché l’incredibile cifra tecnica con la quale veniva messa in pratica. Non un boccone che presentasse difetti, banalità o déjà vu, ad eccezione di alcune tecniche “made in elBulli”, comunque marchio di fabbrica di quello che, per noi, è uno dei più geniali e prolifici cuochi in circolazione.
Albert Adrià con i suoi nuovi progetti ha dimostrato di essere una mente brillante, anche sfuggendo dall’ombra del sommo fratello, attualmente impegnato su altri tavoli, più teorici. Del resto, come ha affermato l’ex sommelier Kristian Brask Thomsen a proposito di Albert Adrià e del Pakta, inserito da Forbes nella stretta cerchia dei 12 posti più “cool” dove mangiare nel 2015: “quell’uomo può prendere qualsiasi cucina e farla sua”.
A distanza di due anni dalla prima visita, i ricordi e le aspettative sono stati confermati, con un percorso quasi tutto nuovo con il quale abbiamo scoperto numerose tecniche o condimenti giapponesi di epoche antiche.
La struttura del menù non è mutata rispetto al passato, sebbene le composizioni differiscano integralmente in base alle stagioni. Jorge Muñoz e Kyoko Li sono a loro agio nell’interpretare le rispettive cucine, peruviana e giapponese, e approfondire l’aspetto creativo, innestando la materia prima locale in piatti che restino quanto più aderenti alla tradizione. E il risultato è sempre sorprendente.
La declinazione in stile street food sul pollo, con il “sanguchito” con maionese di “aji amarillo” e i gyoza piastrati, in una manciata di morsi ti porta da Lima a Kyoto. Parimenti il “calçots” (cipollotto) in tempura da intingere in una salsa romesco o il Gindara “añejo”, un baccalà nero, il cui intenso sapore resta integro al cospetto di miele di carruba, puré di patata, peperoncino giallo e cipollotto, offrono continui rimandi all’Asia e all’America con un’alternanza senza soluzione di continuità.
Abbiamo trovato interessantissimi anche gli abbinamenti di cocktail, birra, vini, sakè e the, studiati con l’obiettivo di allungare il sapore di molte portate.
E visto che, come spesso accade a questi livelli, trovare un pelo nell’uovo diventa una sfida, nel caso del Pakta può essere messa in discussione la politica, o meglio la “cortesia”, di dover avvertire i camerieri ogni qual volta si ha la necessità di dover allontanarsi dal tavolo per le più disparate esigenze. Più di trenta assaggi vengono infatti serviti con ritmi tutt’altro che biblici, ma per consentire che tutto ciò sia possibile, il maître, prima di avviare le danze, vi avvertirà di questa circostanza per poter interrompere le tempistiche della macchina della cucina.
Può essere un problema? Decidete voi.
La postazione per sushi e crudità. Chiedete un posto al bancone per apprezzare la gestualità dei cuochi.
Il menu si apre con il Pisco Sour,con lime, zucchero e albume montato.
Come da tradizione giapponese: Honzen Ryori, composto da:
Tofu di avocado con ricci di mare;
Vongola con salsa al tamarindo e alga nori;
Insalata di olluco (un tubero peruviano) con piselli, brodo di fagioli e kimchi;
Manioca croccante con salsa “huancaina” (fatta con una varietà di peperoncino piccante, latte, olio e formaggio fresco);
Kumquat con gelatina di “leche de tigre” e daikon con “ajì amarillo”;
Il primo sakè servito è il pluripremiato Dewazakura Dewano Sato.
Viene grattugiato del wasabi cristallizzato sulla stracciatella di yuba con tartufo nero.
Si tratta di una pellicola ricavata dal tofu. Piatto neutro che sarebbe stato perfetto con un tartufo più profumato.
Sashimi vegetariano di abalone (fungo ostrica).
Urakasumi Zen.
Un sakè servito freddo.
Temaki di tonno, sichimi (tradizionale mix di spezie tipica delle cucina giapponese) e riso tostato. Il cono croccante è ottenuto bagnando l’alga nori in salsa di soia e zucchero e poi messo nell’essiccatore.
Il duo:
Chips di patata con crema di tartufo nero;
Riccio di mare con salsa ponzu.
Usuzukuri di branzino tagliato sottilissimo con yuzukosho (una pasta fermentata fatta con peperoncino, scorze di yuzu e sale).
I fantastici Nigiri:
Seppia con salsa “acevichada”. Favoloso boccone.
Tonno marinato nello Zuke, una antica tecnica risalente alla metà del XIX secolo con la quale veniva preservata la parte grassa del tonno (ventresca) al momento in cui il colore rosso iniziava ad ossidarsi. Il pesce viene immerso per pochi secondi nel “nikiri shoyu”, una miscela fatta da salsa di soia e sakè, portato ad ebollizione, e poi tuffato in acqua fredda. Quindi riportato a temperatura ambiente e lasciato riposare per mezz’ora, per poi essere tagliato. Secondo il mitico Jiro Ono lo Zuke dona l’umami ed arricchisce il sapore del pesce.
Eccezionale zenzero marinato.
Chicha Sin, un soft drink peruviano fatto con il mais viola.
Il fantastico cheviche invernale: paradigma della cucina nikkei. L’equilibrio fatto a piatto. Un gioco di contrasti terreni tra l’ingrediente giapponese (fungo shitake), quello peruviano (mais croccante e crema di patata) ed il freschissimo branzino locale. Davvero eccellente.
La Causa:
Calamaretto, salsa all’ostrica e lime con “mentaiko”, ovvero uova di branzino marinate con elementi piccanti.
Pollo fritto e “huacatay”, una maionese alle erbe (tipiche del Perù).
Una eccellente IPA olandese, Amarillo del birrificio De Molen. Si sposerà a meraviglia con…
…la variazione sul pollo tra Perù e Giappone.
Il “sanguchito” di pollo grigliato. Un tipico sandwich dello street food peruviano, servito con maionese di ajì amarillo si alterna..
..ai fantastici gyoza con pollo stufato, in uno dei passaggi più entusiasmanti del menu. Un piede a Lima ed uno Kyoto.
Si passa alla tempura. In questo caso si tratta del “calçots”, un cipollotto autoctono, da intingere nella salsa romesco.
Chulpe soba. Ancora una volta una concretissima fusion: gli spaghetti sono di mais
e la salsa è fatta con soia, limone e olio al coriandolo.
Piatto da autopreparare al tavolo.
Per finire: ceviche amazzonico. Un piatto caldo, con il pesce cotto velocemente dentro la foglia di banana. La croccantezza finale viene dagli arachidi tostati. Grandissima variante invernale del famoso piatto peruviano.
Un buon Gewurztraminer austiaco Nikolaihof accompagna il…
…Gindara “añejo”. Altro piatto di grande equilibrio.
Il piatto principale di carne: costata di vacca galiziana con polvere di “grigliata”. Nella sua semplicità, favolosa materia prima e grandissima cottura.
Un altro piatto popolare giapponese. Il “Furofuki”, ovvero un daikon bollito con alga kelp e miso, con crema al foie gras. Un sorbetto più dolce che acido.
Per i dessert, si riparte da dove si è cominciato: Honzen Ryori.
Nel dettaglio, Meringa allo yuzu;
Sandwich di mango;
Mochi con more selvatiche e panna;
Flan alla salsa di soia;
Tronco di cannella con crema al mais.
A chiudere i golosissimi “ningyo-yaki” alla crema di banana;
Piccola pasticceria: wild quinoa al cioccolato;
Ultimo abbinamento: Umeshu Choya, liquore di Ume (una prugna giapponese);
Pakta bonbon al the verde e yuzu. Eccellenti.
Londra è probabilmente la città europea in cui la cucina asiatica si esprime ai livelli migliori.
Quella Giapponese si è ritagliata uno spazio importante: locali costosi dove gustare sushi di altissimo livello (su tutti Araki e Sushi Tetsu) ma anche spazi più popolari, più accessibili economicamente, dove trovare la cucina giapponese di tutti i giorni.
Tra questi, Koya è senza dubbio l’indirizzo da segnare in agenda: specialità Udon, varietà Sanuki, i famosi noodle di farina di frumento da mangiare freddi o caldi, in brodi di varia natura.
Ma ancora più interessanti sono i piccoli piatti da scegliere da una striminzita carta che cambia giornalmente: piccole perle di cucina giapponese, più o meno contaminate dall’estro europeo.
Koya nasce nel 2010 dalla passione sfrenata per gli Udon da parte di un irlandese, John Devitt.
Gli Udon non erano certo una novità a Londra, ma Koya ha portato la qualità e l’attenzione per i dettagli tipiche dei migliori indirizzi giapponesi. Quindi udon fatti a mano giornalmente, brodi freschi e ricchi di umami, ingredienti di primissima qualità.
In cucina Junya Yamasaki, un passato importante da Kunitoraya a Parigi prima di mettere radici in questo locale di Soho.
Il successo è stato travolgente.
Il locale è piccolo e molto semplice, non sarà raro mangiare gomito a gomito con perfetti sconosciuti. Non si accettano prenotazioni, perciò cercate di scegliere gli orari meno inflazionati oppure armatevi di pazienza perché spesso si trovano persone in attesa fuori dalla porta. Il servizio è comunque rapido, quindi non ci sarà mai molto da attendere.
In alternativa, sulla stessa strada, c’è anche il Koya Bar, stessa proprietà e filosofia, aperto in orario continuato da colazione a cena.
Il concetto è quello di applicare la filosofia giapponese al contesto: quindi ricette e idee della tradizione giapponese ma con ingredienti locali, come il pesce delle coste del Galles o i vegetali coltivati da agricoltori autoctoni.
Risultato di ottimo livello, sia per quanto riguarda gli udon, sia per i piccoli piatti del giorno, nel nostro caso una sogliola fritta nella sua interezza di grandissima fattura. Una esperienza che certamente non ha moltissimo da invidiare a quelle fatte a Tokyo.
Fortunati questi londinesi…
Insalata di spring greens, erbe selvatiche & ponzu.
Sogliola al limone fritta croccante con daikon al peperoncino.
Gyushabu udon (con manzo shabu shabu).
Té verde giapponese (della casa).
I menù alle pareti