Cucina solida in forma moderna, in un contesto di rimandi infinito, tra allusioni e gioco, filosofia e marketing. In Cantiere intanto è una buona idea. Allora sulla strada che alla sinistra prolunga il casello dell’autostrada Avellino Ovest della A16, tra concessionari e vetrine di arredi, ecco, anticipata dai tavolini esterni, la sala, ampia e spoglia, di questa trattoria pizzeria. Un cantiere appunto, grezzo ed informale ma preciso nei dettagli. Dunque l’ingresso, con la piccola attesa dove dei cuscini rendono accoglienti i pallet di legno ed i chiodi diventano appendiabiti, o quei cavi ben in vista a sostenere lampadine nude o poco più e un bidone dietro la porta per lavarsi le mani con la verità della ruggine addosso. Poi intonaco grezzo, quadrati di tavole di ponte in abete piallato con sedie spaiate intorno, rete elettrosaldata a infilare bottiglie. Infine, unico decoro plausibile, piccozze, martelli, pale, caschi e quanto occorre ad animare pareti.
In un angolo un bel forno a legna rivestito, questo sì, con esagoni in gres a dare un senso di compiutezza a qualcosa. Se poi le pizze che cominciano a girare per i tavoli hanno la faccia giusta per meritare l’assaggio, si potrà iniziare proprio da lì, con una peperoni, salsiccia pezzente e fiordilatte per esempio. Qui, è stato fatto -come ormai spesso avviene- un bel lavoro sugli impasti e sui lieviti arrivando addirittura a prometterci una futura pizza che doppi le attuali 48 ore di lievitazione minima. La ricchezza dei condimenti proposti per una volta non serve a mascherare la pochezza della pasta, invero morbida e digeribile.
La carta dei vini raccoglie circa 140 etichette, raccontandoci di una passione che va aldilà del commercio. Le birre, una quindicina, completano l’offerta.
Dal menù, la voce “in cantiere” invece raccoglie l’infilo di antipasti, variabili con le stagioni e l’estro dello chef, che nel packaging informale delle merende propone un riassunto delle intenzioni gastronomiche della brigata di cucina irrobustita dalla consulenza di Mirko Balzano.
Subito il legno del tagliere nascosto dagli affettati e dai formaggi da cui si intuisce la cura della selezione dei fornitori, e una frittura mista -debitamente presentata nel colafritto di alluminio- della quale si serberà ricordo grazie agli anelli di cipolla di Montoro e di quelle croccanti ostie di patate con la buccia a marcare la circonferenza. Non delude le aspettative l’abbinamento dell’uovo che arriva a tavola nel tipico imballo di cartone con patata e tartufo irpino e il trittico di buatta, barattolo e boccacciello, contenitori pronti ad esalare i profumi familiari del baccalà con la scarola, della parmigiana -per una volta di zucca- e dei fagioli con la cotica del maiale.
Lo spazio -esiguo- che rimane è per un primo, problematico ed ambizioso per un estremo abbinamento mare-terra: linguine con le vongole alle prese con cipollotto, salsiccia piccante e pecorino. Materia da utilizzare con maggiore cautela: la sapidità è da controllare e gli equilibri da definire.
Si chiude con un gelato di buona fattura e un conto di indubbia onestà.
Affettati, vari e di qualità: prosciutto cotto a legna, ciauscolo, mortadella Re Norcino, salsiccia di fegato. Formaggi con i pecorini di Moliterno e di Capocastello.
Calici Zalto a corredo di qualche bottiglia piu importante. Bellissimi.
Frittura. Anelli di cipolla di Montoro, frittatina di pasta, crocchè di patate, arancino di riso.
Uovo, patata, tartufo. In un guscio vero. Un classico incontro in una veste casual.
Tris della tradizione: parmigiana di zucca, fagioli e cotica di maiale, baccalà con scarola.
La “buatta” con il baccala’ con la scarola. Un originale apri e gusta.
Ancora una buona pizza napoletana fuori del capoluogo. Impasto ben lievitato, cornicione alto e alveolato, centro elastico e sottile. Qui una versione robusta: Fiordilatte, salsiccia pezzente e peperoni.
Particolare della pizza.
Linguina con cipollotto, salsiccia piccante, pecorino e frutti di mare. Complesso ma da ridefinire con una calibratura piu attenta della nota salina.
Gelato artigianale. Pistacchio di Bronte, nocciola di Giffoni. Il lusso della semplicità.
Il lavabo della toilette. Un riutilizzo in tema di un bidone.
Le birre alla spina. Tubazioni a vista per quseta piccola officina con una scelta di 15 etichette.
L’ingresso del locale. Le sedute sono ricavate da pallet in legno.
Scorcio del locale. Ponteggi, attrezzi, reti metalliche e tavole in legno per ricreare l’ambiente di un cantiere edile in attività.
La cantina con le etichette in vista a riempire la rete elettrosaldata alla parete.
Gennaro Esposito, a dispetto del nome così popolare e comune, è una persona che ha saputo da sempre distinguersi. Forse aveva deciso tutto sin da ragazzo, da studente dell’alberghiero della costiera prima, e da sguattero di modeste cucine poi, perseguendo con caparbietà il sogno, aprendo già nel 1991 il suo ristorante, qui a Seiano, sulla spiaggia precipitata dalla roccia dopo Vico Equense.
Quando tutti gli davano del matto, per l’investimento oneroso di anni giovanili e di denari prestati, lui ha continuato per la sua strada: la fatica e il talento nel capitalizzare gli incontri con Vissani e Ducasse, che il destino gli aveva messo davanti, fino ad ottenere una prima e una seconda stella da cucirsi al petto.
Intanto, prima di molti altri, aveva compreso di dover essere anche un buon comunicatore, oltre che un grande imprenditore, e così ora la sua annuale Festa a Vico raccoglie 250 chef italiani sulla spiaggia di Seiano, e la sua firma sigla i menù sui tavoli di Ibiza e Capri.
Una cucina riconoscibile, fedele negli ormai tanti anni a quell’idea che lo ha subito identificato: magnificare l’oro della costiera, gli orti e il mare, riproponendo memorie antiche con una tecnica contemporanea. Niente di particolarmente originale si dirà, ma Gennarino, come lo chiamano in molti a dispetto della sua stazza rassicurante, lo ha fatto prima e lo fa meglio degli altri.
Si comincia salendo le scale della torre, approdando nelle sue viscere animate dal suono di uno stereo che rende giustizia al contributo di ogni nota, poi ci si accomoda in veranda dove i mattoni divengono trasparenti, per celebrare la liturgia dell’anticipo del pranzo e del mare, l’elemento che percorre le vene del menù.
Nella sala, luminosa come ci si aspetta, tovaglie bianche con anzitutto i pani, da sempre una eccellenza di questa tavola. Sono grissini, brioche, taralli e babà rustici che già innalzano le aspettative unitamente ad una carta dei vini di volume e di interesse.
La materia prima, animale e vegetale, che anima ogni portata, è strepitosa, grazie ad una ricerca di piccoli fornitori che lo chef ha continuamente affinato e che costituisce la vera armatura dei piatti, generalmente molto puliti e caratterizzati da cotture veloci.
L’inizio è una discesa nei fondali che circondano il ristorante: gamberi, anemoni, gallinella, palamita, seppia, pesce bandiera, triglia, sgombro che si interfacciano con finezze come il gazpacho di vongole, l’olio di cottura disidratato, marinature al mandarino, crunch di mela verde o una maionese ottenuta con la pelle del pesce.
Il cuore della degustazione è senz’altro rappresentato dai primi piatti, mondo dove lo chef dimostra un grande mestiere: apre con un risotto di grandissima fattura, con un’intensa quanto piacevole nota piccante del peperoncino fresco strofinato sul fondo del piatto, intermezza con uno spaghetto dove i piccoli filetti di bandiera fritti nell’uovo contengono la colatura di alici, conclude con una pasta fresca ripiena di un popolare polpo “affogato”, che deflagra con l’agrodolce del pomodoro. Scorfano e dentice protagonisti dei piatti finali, dove quest’ultimo si fa preferire per l’intuizione della cottura a vapore -rigorosa e salutare- doppiata dalla successiva aggiunta dell’olio bruciato, a donare spunto e carattere.
Dessert di precisa fattura e bell’impiatto, dove forse ci si auspicavano contrasti piu’ incisivi e acidità piu pronunciate. Servizio all’altezza del cadre.
L’ingresso. Un muro, una scritta, una scala. Il mare di fronte.
La torre del VIII secolo. Saracena, appunto.
L’interno della torre con la macina in pietra e il bar.
L’impianto stereofonico della torre. Anche qui l’inseguimento della perfezione.
Vellutata di zucca, porcini e polvere di peperoni. Si comincia così sui divani della veranda sul mare, prolungamento di vetro della torre.
Panino con hamburgher di pollo, lattuga e cipolla rossa caramellata.
Crostino con acciuga, erbe e frutto della passione. Acido, amaro, salato. Tutto in pochi centimetri.
Vellutata di ceci, baccalà, polvere di mais e crumble di finocchietto selvatico. Una raffinata versione di un classico.
A chiudere l’aperitivo un piccolo gioiello: cialda di parmigiano con calamaro scottato.
Dalla torre al ristorante passando per la terrazza sul mare.
L’ingresso della sala ristorante. Essenziale, elegante.
I pani, i grissini (superbi), taralli, babà rustico e brioche. Da sempre altissimo livello.
Cocktail: gambero al vapore, gallinella marinata, anemoni in maionese e mandarino. La materia prima non si discute.
Palamita affumicata, nduja e crema di tarallo di Agerola. Piatto giocato tutto sugli accenti del fumo e del piccante. Il tarallo, solitamente utilizzato per il croccante, qui accompagna in una consistenza che viceversa esalta le carni sode del pesce.
Millefoglie di seppia e pesce bandiera in gazpacho di vongole, carote e prezzemolo con maionese di pelle di sgombro. Qui si ritrova il maestro Esposito, quello divenuto famoso per piatti come questo.
Triglia con caprino in brodo di cottura, cavolo rosso e gnocchetti di bietola in agrodolce. Manipolazioni e tanti ingredienti ma lasciando sapori netti e accordati.
Stoccafisso in salsa tonnata, puntarelle, insalata di sedano, patate e mela verde. Dell’intero percorso l’unico piatto poco convincente.
Risotto con cipolla ramata di Montoro, sauro affumicato ed alga croccante. Limone candito e peperoncino fresco. Il più grande interprete del risotto sotto la linea del Garigliano. Semplicemente perfetto.
Spaghettini con colatura di alici, pesto di noci e pesce bandiera dorato. Il piatto che raccoglie tre icone del territorio. Semplice e molto buono.
Colatura di alici. Obbligatoriamente artigianale. L’assaggio assoluto.
Bottoni di polpo affogato, ricotta, aglio, prezzemolo e pomodoro agrodolce. Originale l’idea della farcia con una tipica esecuzione partenopea del polpo.
Scorfano gratinato, scampi e purea di fagioli di Controne. Materia prima, materia prima, materia prima.
Dentice al vapore, insalatina e olio bruciato, zenzero, carote ed estratto di ortiche.
Gelato alla nocciola, crumble di fava di cacao. Esercizio di buona pasticceria.
Crostatina d’orzo, ricciolo di cioccolato bianco, mascarpone al limone e sorbetto di more.
Cremoso all’olio di oliva, gelatina di mandarino, nocciole.
Piccola pasticceria (macaron, madeleine,marshmallow) nell’eleganza della bolla di vetro.
La geografia della pizza napoletana, prima ricalcata precisamente sulla linea dei confini metropolitani, modifica ed amplia ormai continuamente il suo perimetro. Se prima per un residente del centro città l’ipotesi di una trasferta pur breve sarebbe apparsa quantomeno bizzarra, oggi la ricerca sull’impasto, specificatamente sulle farine e sui lieviti, e la cura nella scelta dei prodotti di complemento, fondamenti di una buona pizza, vengono condotti in tutta la provincia e spesso fuori di essa da pizzaioli giovani e motivati, talvolta figli d’arte eredi di tradizionali pizzerie senza troppe pretese. Questo è il caso di Le Parùle già La Gardenia che con il suo ingresso sormontato dall’enorme scritta luminosa, argina il lato mare della Benedetto Cozzolino, la strada che cinge un tratto di Vesuvio da Ercolano a Torre del Greco.
Qui, da un anno, Giuseppe Pignalosa, proprietario e pizzaiolo, ha voluto scommettere e rilanciare e dopo aver pennellato le pareti con colori vivaci, sostituito tavoli e sedute, costruito un bellissimo forno di tessere oro, si è messo a studiare le alchimie tra acqua, farine e lieviti. Poi a completare il prezioso orto di famiglia si sono scelti, uno ad uno, i prodotti piu’ interessanti ed ora, ad esempio, la pizza Margherita si presenta con un impasto ad alta idratazione con lievito di birra, farina doppio zero con percentuale di zero, un disco di formato medio, fiordilatte Cioffi di Agerola e pomodori San Marzano Agrigenus. Alta digeribilità, cornicione alto, alveolato e ben cotto, spessore della parte centrale sottile come previsto dal disciplinare, pomodoro senza acqua in eccesso grazie alla evaporazione per l’alta temperatura del forno. Su queste basi poi si vanno costruendo le variazioni e le prove d’autore con l’orto (il dialetto parùle appunto) protagonista: cosi’ la scarola corredata di alici e olive nere in una veloce cottura con la sua integrale croccantezza restituita dalle nocciole di Giffoni, la zucca la cui crema accoglie i porcini e la pancetta o ancora la rucola selvatica, amara di suo e incattivita dal fulmine della grattugia di limone che contrappunta la dolcezza della bresaola della Valtellina riproponendo al palato tutto il campionario di sfumature grasse, acide, dolci e sapide.
Nuovo ingresso in carta, poi, l’ ovo conciato. Progetto ambizioso che vuole l’utilizzo del Conciato Romano, lo straordinario formaggio delle anfore di Manuel Lombardi, in abbinamento con l’uovo. Dentro la pancia di una pizza fritta. Una sorpresa celata dunque che colora il piatto al primo affondo di coltello. Piacevole la intensità del tuorlo liquido, meno quella delle parti di albume che non riesce a cuocere interamente data la brevità della frittura. Si potrebbe tentare un minore spessore della pasta che lo racchiude portandolo al limite che garantisca la tenuta in cottura o forse optare per la sua eliminazione in fase di farcitura. Allungo finale del Conciato con una persistenza davvero notevole che la rende ideale a chiusura del pranzo. Birre artigianali, qualche bottiglia di vino senza pretese, grande entusiasmo e molta voglia di crescere.
Da tenere in lista.
La facciata di ingresso con la scritta fuori scala. Decisamente più a vocazione turistica che gourmet.
La sala. Boiserie bianca, pareti verdi e azzurre, sedie in legno. Le fotografie in cornice e gli oggetti sospesi al soffitto animano un ambiente altrimenti freddo anche a causa dell’illuminazione con le plafoniere a soffitto.
l piennolo di pomodorini del Vesuvio in compagnia dei peperoncini sospesi ad una scala a soffitto. Un cambio di prospettiva della tradizione.
Il menù. Circa 30 scelte di pizze, 12 primi, 8 secondi oltre dolci, birre, vini. Tanta roba. Forse troppa.
La pizza sulla pala, prima di entrare in forno.
La margherita nel piatto. Cornicione alto e alveolato, basilico a foglia intera, fiordilatte di Agerola, pomodoro San Marzano, olio evo. Ineccepibile.
La margherita a tavola. Si notano le pezzature bruciate in alcuni punti del cornicione.
La margherita. Particolare. Intorno e sopra al cornicione si formano le escrescenze che caratterizzano la irregolarità tipica del tondo della pizza all’uscita dal forno.
Zucca e porcini. Una crema di zucca di media densità con fiordilatte, funghi porcini, pancetta e il croccante delle nocciole. Tema stagionale, equilibrio, grandi profumi. La pizza del giorno.
Stracciatella. A metà tra pizza e focaccia. Stracciata di bufala, bresaola, rucola e buccia di limone aggiunti a crudo sul disco di pasta appena uscito dal forno.
Scarulella. Un classico ripieno qui in versione aperta: scarola, alici di Cetara, fiordilatte, olive di Gaeta e nocciole di Giffoni.
Fritta con ovo conciato. Forma allungata, spessore pronunciato, frittura asciutta, doratura accentuata. Al taglio, il tuorlo liquido comincia a sgorgare. Sul finale il sopravvento del conciato romano.
C’è una parola, una sola, che descrive l’esperienza di un pranzo da Angelo Sabatelli in Puglia, nella Monopoli delle cento contrade a ridosso degli scogli a mollo nell’adriatico.
Stupore.
Puntuale, ogni volta che ci torni.
Intanto la masseria, un ricordo di tutto quello che non è più: pietre vissute che resistono alle offese della zona industriale a ridosso del casello, fatta di lamiere e grandi insegne che forse sono messe lì apposta, come ad esaltare la meraviglia che poi, dietro di esse, si cela.
Poi per la cucina, che finalmente valorizza un territorio -di terra e di mare- generoso ed incompreso.
Infine per lo chef-patron, il suo sorriso incorniciato dalla barba, quel camice con la pinzetta infilata nel taschino quasi a voler estrarre con precisione le parole che sceglie per descrivere la sua storia, la famiglia, gli incontri ed i paesaggi, gli odori e i colori dei suoi piatti.
Venire qui sarà mettere in preventivo del tempo in più per quel viaggio nel viaggio, che a forchette ferme sarà ascoltare le sue esperienze intorno al mondo, a raccoglierle ordinatamente, resistendo alla tentazione di scrivere un romanzo e non più una recensione.
Sotto le volte e sopra le chianche che pavimentano la sala sarà subito manifesta la sua idea di accoglienza: un servizio efficace con tempi precisi, gentile e premuroso senza eccessivi formalismi governato dalla moglie con bel mestiere.
Una carta con tre degustazioni o una libera scelta, ampia quanto basta tra memorie di casa e suggestioni orientali, strepitose pagine di bollicine, poi vini bianchi e rossi tra territorio e penisola tutta. E stranieri a parte.
Pani di bella fattura con grissini e taralli. Prima di cominciare l’unico appunto possibile sarà per le luci, diffuse, disperse, forse suggestive ma periferiche rispetto alle sedute.
Subito una lunga serie di appetizer, quasi a sfogliare il block-notes dello chef. Idee, schizzi, intuizioni, sogni: quel datterino ad esempio, del quale vorresti cassette intere. Le chips di patate dolci, l’affumicatura della panna e il peperone crusco. E il fumo che torna nuovamente nella crema di melanzana con olive nere. E poi due piccoli capolavori con la zuppetta di pomodoro con fiori di begonia, pepe e caviale di salmone e l’allievo crudo, crema di mandorle e limone candito ammantati dal velo di seppia maculato di “liquirizia di mare” dove alghe, nero di seppia e riccio sono cristalli di purezza.
E’ l’inizio di un bel percorso, prima con antipasti di grande finezza come il piccolo filetto di sgombro ricco di suggestioni, l’interpretazione della melanzana nel suo caldo/freddo e i gamberi con una fantastica polvere di olio, poi con la certezza della pasta declinata nelle orecchiette, nei capellini ed in un risotto di grande fattura.
Dopo saranno pesce e carne: l’orata, dove le olive sono in salsa, la cicoria in olio e la curcuma in polvere, poi la pancia del maiale, con le rape in una ristretta salsa barbecue con caffè e senape e il vincotto sulla pelle.
Dopo tanto mestiere, qualche incertezza sui dessert, dove probabilmente si è ancora alla ricerca della giusta ispirazione, tra tentazioni dolci e derive salate. Qualche elemento si ripete ma solo a sottolineare una identità forte, una necessità proprio di chi ha vissuto a lungo altrove. Le olive innazitutto, icone del territorio pugliese, del suo paesaggio e dei suoi profumi. Il caffè poi, inteso come spezia con quella nota tostata, ed ancora i sentori arrostiti ed affumicati, a dare forza dove è richiesto un allungo di sapore. Una vera alchimia tra il territorio, questo del vicino oriente d’Italia, con gamberi rossi, ricci, olive, lampascioni, orecchiette e melanzane e gli echi di quello estremo, asiatico, con la curcuma, soya, daikon. Cucina a km zero comunque, non in senso geografico, ma intesa come elaborata con gli ingredienti che ti sono familiari, che appartengono alla tua storia
Ecco, Angelo Sabatelli è questa cosa qua. E avrà ancora molto da dire.
Angelo Sabatelli a parole.
Il lavoro in cucina visto dalla sala.
Particolare della mise en place.
I grissini.
Datterino, pane e pomodoro. Ricostruzione precisa. Un esercizio di stile già visto, ma qui portato alla perfezione assoluta. Polpa speziata di consistenza quasi liquida, piacevolissima. Sapore intenso.
Chips di patata dolce con crema affumicata e peperone crusco. Elegante presentazione, raffinata esecuzione.
Olive nere. Varietà mele. Fritte. Dolci. La Puglia e la sua materia prima.
Catalogna con maionese e latte di soya.
Crema di melanzana affumicata con olive nere. Il bicchiere della terra.
Zuppetta di pomodoro con caviale di salmone, fiori di begonia e pepe nero.
Velo di seppia con “liquirizia di mare” (alghe, ricci e nero di seppia in polvere) a celare allievo crudo, crema di mandorle e limone candito. Piccolo grande piatto.
Gamberi rossi con yuzu, polvere di olio ed erbe.
Sgombro marinato con salsa di limone arrosto, pomodoro arrosto, daikon e caviale affumicato.
Bianco e nero di melanzana arrosto. La voluttuosa polpa di melanzana glassata in una riduzione di olive nere impaginata tra i fogli di ricotta ghiacciata. Bella l’idea, perfetta la esecuzione.
Capellini spezzati, fagioli, cozze, farina di ceci e polpettine di seppia. Quasi una zuppa con una scelta di pasta adeguata.
Risotto con caciocavallo podolico, albicocche, polvere di caffè e di sedano. Mutevole al palato grazie alla dinamica degli ingredienti. Finale in progressione dell’amaro del caffè. Sabatelli con i risotti è a suo agio.
Orecchiette al ragout +30. Il numero è riferito alle ore di cottura. Le orecchiette sono opera di una delle ultime artigiane del territorio. La fonduta di canestrato compatta il tortino. La cucina di casa portata alla perfezione.
Orata con salsa di olive alla calce, olio di cicoria e curcuma. Una tradizionale concia delle olive con l’ausilio di calce viva per una salsa di straordinaria efficacia.
Pancetta di maiale su salsa barbecue e caffè, rape e semi di senape. La sua pelle e il vincotto.
Cialda di cipolla arrosto con fegatini di piccione, fieno greco e polvere di olive nere. La versione minimal del fegato alla veneziana.
Fragole al sambuco, panna e polvere di the verde.
Biscotto alle mandorle.
Bonbon di cioccolato fondente, lampascioni canditi e liquore di carciofo. Golosità, territorio e memoria in un piccolo gioiello per fine pasto.
Gelatine finali.
Capri, l’isola e la sua magia, sembrano già cominciare all’interno dell’aliscafo che in 40 minuti -disegnando una linea retta di schiuma nel golfo- unisce Napoli al suo piccolo porto affollato di yacht.
Mille idiomi si mescolano tra le poltrone, mille valigie si affollano nel pozzetto di poppa, duemila occhi si spalancano alla meraviglia della roccia che si avvicina dagli oblò. Poi basteranno pochi passi sull’asfalto, che si inerpica alla destra del molo, che una struttura elegante nel suo bianco apparirà come poggiata sulla verticale di pietra. A piombo sui granelli della spiaggia.
Qui, al JK Place, il lusso delle 5 stelle è nella perfezione dei dettagli. Prima una terrazza dove il legno induce ad una eleganza semplice, con i divani bianchi dinanzi allo schermo gigante del mare, poi con la ricercatezza degli interni, sofisticati, ricchi, con le boiserie e i gessi ad incorniciare i colori dei pastelli.
Giù, nelle cucine al piano interrato, opera da tre stagioni Edoardo Estatico da Napoli. La cosa sorprendente è il peso delle sue 30 candeline a ricordarci che talvolta gli anni non vanno semplicemente contati. Serio, misurato, studioso. Dopo qualche piatto e qualche scambio di parole sarà naturale sospettare che i capelli sulla sua testa abbiano cominciato a diradarsi come per allinearsi alla profonda maturità che esprime. La sua grande scuola sembra essere stata quella di famiglia, con le donne della casa, nonna e mamma, inconsapevoli ispiratrici della passione di una vita poi divenuta mestiere. Oltre, la gavetta, la fatica, i grandi incontri professionali, l’applicazione, il gioco. I piatti si raccontano in questa cornice. Pur avendo perso totalmente l’approssimazione della cucina casalinga e i suoi eccessi, non ne rinnega i legami, i grandi insegnamenti, le basi.
Profumi innanzitutto. Abbinamenti poi. Una memoria attenta, tra il popolare e l’alta scuola, la ragione e il sentimento, l’accademia e l’avanguardia.
Così si comprende appieno il lungo menu degustazione, che spazia dalla classica perfezione della royale di foie gras, di scuola francese, al divertissement del babà caprese, sfrontato ed indigeno. Dai dovuti abbinamenti mediterranei della spigola con le mandorle, gli spinaci e le olive nere alle sofisticate alchimie della pesca, bergamotto e noci macadamia che firmano gli scampi.
Dessert non all’altezza del viaggio, forse da ingentilire e rendere più eleganti.
Di contorno, intanto una menzione ai pani, di grande fattura e infinita scelta, poi una completa carta delle acque e le attenzioni, nell’attesa, con il burro e l’olio. Bella la scelta dei vini, con le obbligatorie etichette classiche importanti, ma anche con una attenzione al territorio con cantine più nascoste, penalizzate solo da ricarichi eccessivi. Servizio purtroppo non ambizioso come il contesto.
L’ingresso. Quello di una villa, classico ed austero.
Una sala interna. Decori, stucchi, colori. Il discreto lusso mediterraneo.
La carta. C’è il light lunch da bordo piscina, un piccolo menù tradizionale ed anche la pizza. Poi la carta della cena con 3 degustazioni e una ampia proposta gourmet. Ancora carta delle acque e una bella scelta di bottiglie.
L’aperitivo. In terrazza sembra d’obbligo. E allora Bellini sia…
Si comincia a riempire la tavola: burro di Agerola. Voluttuoso, delicatamente acidulo. Base rinforzata con semi di papavero. Accompagnamento di provolone del monaco essiccato. Monti Lattari. Nomen omen.
Taralli, grissini, focaccine, pani. Integrale, al carbone vegetale o con peperoni, salumi, zafferano ed anche cipolla. Qui si rende inequivocabile l’idea che la ristorazione la si vuole fare bene. Straordinaria varietà, ottima qualità. Tentazioni da controllare.
Cozza cotta al vapore, parmigiano e nero di seppia per ricostruire la valva, centrifugato di pomodoro ed olio evo a crudo. Tecnica, invenzione e gusto. Sapori netti, restituiti integri al palato dopo tanta elaborazione.
Alice arrosto, indivia, senape. Sotto, una fetta di pane tostato. Ovvero l’interpretazione internazionale di un classico inizio.
Rapa, caprino, arancia e gelatina di Campari. O dell’interazione degli elementi. Intermezzo papillare da potersi giocare ad ogni momento del pranzo. A compendio la scala di consisitenze.
Bon-bon di gambero rosso, pesca bianca, bergamotto e noce macadamia. Intanto grande materia prima. Anche qui la costruzione del piatto è pura dinamica degli equilibri: prologo dolce amplificato dagli zuccheri della frutta, chiusura pulita con l’amaro dell’agrume e della noce che caratterizzano la bisque.
Royale di fegato grasso di anatra, scampi e ciliegia. L’epopea dell’alta cucina. Un omaggio alla cucina francese con un piatto che non consente rivisitazioni ma una perfetta esecuzione. Vale sul curriculum di uno chef. Impiattamento accademico di grande eleganza con la chips di crostacei ad anello.
Babà Caprese. La memoria come spunto per la creazione. Una versione rustica del dolce napoletano in bagna di centrifugato di pomodoro a rimpiazzare il rhum. Aria di basilico, olio e fondo di crema di mozzarella a ricostruire la caprese.
Battuta di vitellone con pistacchi, capperi e zabaione all’arancia. Deviazione sulla carne, sebbene cruda, che però non sembra aggiungere valore al percorso.
“Ruote” ai ricci di mare, friggitelli e nocciola di Giffoni. Equilibri matematici. Qui ad accompagnare la deriva dolce del riccio ed a contrastarne la arrendevolezza intervengono i peperoncini verdi e la nocciola, in salsa e crudi. Pasta di Benedetto Cavalieri nel suo formato “cult”.
Geometrie di ravioli ripieni alla parmigiana di melenzane. Ancora gioco e memoria, ancora un piatto di disegno contemporaneo ma con echi di ricordi familiari. Le differenti farciture dei quattro ravioli (provola, basilico, pomodoro e parmigiano in crema) ricompongono il piatto tradizionalmente inteso con la protagonista -la melanzana- lasciata come guarnizione a completare. Sfoglia di pasta sottile per la sola funzione di contenere.
Spigola, crema di mandorle bianche pugliesi, spinaci e olive “ammaccate”. Come una onda del Mediterraneo. Servita sulla terrazza poi, la brezza marina che veicola i profumi è un valore aggiunto che completa ed accompagna il piatto come un calice di buon vino. Un piatto che molti stranieri passati da qui porteranno nell’album dei ricordi.
Dentice in crosta di pane al carbone vegetale, scapece di zucchine e fior di zucca. L’idea è di ricostruire il pacchero nel quale annidare il pesce, quasi uno scoglio della sue tane in mare. Scioglie il boccone, altrimenti secco, la fluidità e la spinta della zucchina marinata nell’aceto.
Crema catalana, salsa di passion fruit e siringa ai lamponi. Forse, tra tanta natura, stona l’uso della fialetta in plastica.
Cucciolone di pastiera. Il famoso gelato è qui reinventato con un classico della pasticceria campana. Il risultato è divertente, pratico e molto gradevole.
Carota interrata. Mousse allo yogurt, terra di cacao, spugna alla carota, salsa arancia e zafferano. Dolce molto pretenzioso, l’aspetto troppo disegnato, con la riproposizione della carota appena estirpata dalla terra, intimorisce. Da rivedere lo spessore della glassa e il formato troppo generoso.