Passione Gourmet Giampiero Prozzo Archivi - Pagina 2 di 4 - Passione Gourmet

Bros

Un’apertura che si conta ancora in mesi, eppure nel momento di uscire ti porti dietro quella sensazione che questo posto, nel lampo di una cena, sia diventato una tappa nella geografia della cucina d’autore. Qualcosa che somiglia al rammarico che, evidentemente, è da intendersi come quella sorta di gelosia che accompagna i luoghi scoperti con meraviglia, amati dal primo momento e che vorresti sempre -e solo tu- continuare a riscoprire e raccontare. Perché Bros, il ristorante che si nasconde tra l’opulenza architettonica del centro di Lecce, sarebbe bello si svelasse magicamente ogni volta così, passandoci per caso, entrandoci dopo aver sbirciato dai vetri, e non perché se ne parla e molto.
Sorprendersi puntualmente per quel tono nordico della sala, quasi una quiete dopo i furori barocchi delle pietre che accompagnano fin qui, meravigliarsi del menù, quel foglio A4 in bianco e nero, piegato come a nascondere le proposte, azzardi di ingredienti con le sole virgole a separare, o ancora stupirsi di una brigata che definire giovane non basterà a rendere l’idea.

C’è un menù degustazione lungo e perfettamente ritmato che tra genio, sregolatezza e presunzione anticiperà molte risposte alle curiosità, alle scelte perseguite, a quelle che verranno. Alla fine della cena più che domande resteranno attese, come il capitolo a seguire di un libro che si sta divorando, quelle stesse di un sequel di un grande film finito troppo in fretta. Una bella sensazione che non capita così spesso.

Una tecnica impressionante, mai vista a queste latitudini, che sovrintende ogni piatto, ogni idea. Una aspirazione alla perfezione perseguita con caparbietà, studio, applicazione e soprattutto metodo, al punto che quando qualcosa non convince tutto sembrerà solamente una mera questione di tempo. In cucina, Floriano Pellegrino, suo fratello Giovanni e Isabella Potì, sono innanzitutto squadra, imparando questo e tanto altro in giro per il mondo in quella vertigine di incontri, scontri, sudore e sacrifici consumata nelle cucine più importanti del pianeta. Ora sono tornati ad impiantare i semi qui, nella capitale salentina a pochi chilometri dalla Scorrano dell’infanzia.

A loro piace vincere difficile.

Allora poche concessioni e piacionerie, scale di gusto complete talvolta giocate all’estremo, piatti estremamente dinamici dove non si rincorre la centralità del gusto ma -come sottolineato dalla presentazione in carta- i contrappunti di pochi ingredienti senza alcuna gerarchia o ridondanza. Pulizia e ritmo, dunque, che si leggono già nella batteria di entrèe, dove si alternano i fegatini di piccione con l’alloro e il lattughino spolverato di capperi, il raviolo di alga alle erbe e la foglia di basilico con i semi di pomodoro, idee che anticipano le proposte della degustazione estratte tutte rigorosamente dalla carta stagionale.

E anche qui, nonostante il rigo lasciato in bianco tra l’elenco dei piatti quale accenno alla classica partizione antipasti, primi e secondi, si legge la modernità di offrire una esperienza che trascenda le regole, e contemporaneamente contempli quattro piatti di pasta secca, per rimarcare l’identità italiana e del meridione in particolare.

Alla fine da ricordare, infatti, sarà essenzialmente il percorso, nel quale ognuno si troverà a scoprire il suo capolavoro, come quel piatto di fusilloni Gentile di Gragnano la cui precisione ricorda le estrazioni di gusto del miglior Romito, o l’anatra, allevata nel cortile di famiglia e poi sacrificata in una magistrale cottura di scuola francese con i toni locali dell’anguria e creoli del cocco. In mezzo c’è l’anima orientale nella sardina con le ciliegie fermentate, l’avanguardia meridionale con i pomodori nell’acqua di ricotta scante, la scuola nordica nella barbabietola col sambuco acidata dal limone e frutti rossi.

Menzione speciale infine, al reparto dessert, fondamentale per la chiusura e ricordo di un pranzo, spesso trascurato da molti e che qui appare invece come il momento più avanzato e autorevole. Accademico, con il magico contrapporsi del dolce/acido della tarte al limone tra le migliori mai assaggiate, di avanguardia con il rabarbaro, l’ibisco, il malto ed il siero combinati in due tempi infine con l’arte cioccolattiera per ricostruire le castagne di mandorle e le praline col fieno ed il latte di mandorla fermentato.

L’ingresso con la cucina a vista. Non all’interno della sala, ma sulla strada.
Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Una delle due sale interne.
Bros', Chef Floriano Pellegrino, Giovanni Pellegrino, Lecce
Il pane. In abbinamento con il burro d’olio.
pane, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Raviolo fritto di alga Nori con gambero. Sapidità e dolcezza vestite elegantemente in un bel gioco di consistenze.
raviolo, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Cracker con fegato di rana pescatrice.
cracker, rana, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Semi di pomodoro su foglia di basilico. Un utile passaggio defaticante.
semi di pomodoro, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Spaghettini di patata con fegatini di piccione ed alloro: molto bella l’idea della presentazione.
spaghettini, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
L’oliva. La tecnica applicata all’icona di queste terre.
oliva, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Lattughino con polvere di capperi. Immediato, fresco, sapido. Altro intermezzo per resettare il palato.
lattughino, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Barbabietola, sambuco ed infusione di frutti rossi. Uniformità di colore e contrasto dolce-acidulo. La prima portata già suggerisce un percorso senza facili ammiccamenti.
barbabietola, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Pomodori, fiori, acqua di ricotta forte. I pomodori disidratati vengono poi posati nel siero con pepe bianco e nero ed olio evo. Odori molto persistenti. Pomodori lavorati con grande perizia.
pomodoro, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
pomodoro, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Cucummarazzu, gambero, rafano ed aneto. Qui l’azzardo non paga. Dispiace che il cetriolo salentino sia protagonista del piatto meno convincente.
gambero, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Fusillone Gentile, scampo, sesamo nero e scalogno. Un piatto di pasta inserito perfettamente nel percorso. Pulitissimo, essenziale, di grande concentrazione di sapori.
fusillone, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Melanzana, cioccolato bianco e alloro. Un fondente aromatico, con il corpo suadente della melanzana che, leggermente grasso, forse necessiterebbe solo di una qualche leggerezza.
melanzana, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Sardina, fagiolini, ciliegie fermentate. Piatto di grande potenzialità ma con registri ancora da accordare. La fermentazione è probabilmente ancora troppo timida.
sardina, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Anatra, anguria, cocco e salicornia. Piatto di altissima tecnica e grande palato. Tutto perfetto: presentazione, cottura, equilibrio, persistenza. Con piatti così si va molto lontano.
anatra, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Divertissement con la frutta in una infusione di zenzero e cannella.
frutta, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Rabarbaro, hibiscus, siero, malto. Il latticello costruisce una sorta di gelèe dalla consistenza molto intrigante. Pausa. Secondo tempo (servito sull’altra metà del piatto a ricomporre) con un gelato al malto fermentato che risolve chiudendo in maniera impeccabile.
rabarbaro,Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
rabarbaro, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Tarte au citron. A fianco un gelato di meringa. Da averne a vassoi. Conferma l’impressione che con i dessert siamo già ad un livello davvero molto, molto alto.
tarte au citron, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Marshmallow.
marshmellow, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Frutta. Elaborata o solo colta.
frutta, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
frutta, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Cioccolatini al fieno e latte di mandorla fermentato. Castagne di mandorle e cioccolato bianco. Chiusura che non delude con piccoli capolavori.
cioccolato, Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce
Bros', Chef Floriano Pellegrino e Giovanni Pellegrino, Lecce

Trani si identifica con la pietra e le sue cave, una città che sembra vivere attraverso il respiro dei suoi pori. Un centro storico di geometrie luminose, superfici materiche, prospettive senza tempo.
Percorretela arrivando alla Cattedrale piantata lì, sul mare. Uno scenografo ci avrebbe preso l’Oscar.
Quella è l’immagine di una Puglia che vi resterà dentro.

Trani è anche colore, quel suo colore come sensibile al termometro e dunque non è un caso che la sala di Quintessenza, il ristorante dei fratelli Di Gennaro, riprenda alle pareti i toni tiepidi delle vele di pietra facendone un uso elegante, discreto. Stefano è lo chef, giovane da comprendersi nei JRE, caparbio, deciso e suadente da portarsi dietro in cucina un fratello e convincere gli altri due ad occuparsi della sala. L’intesa, allora, sarà solo un gioco di sguardi e tutto infine somiglierà alla perfezione. Essere famiglia in alcuni casi è un sicuro valore aggiunto.

Un menu degustazione lungo 7 portate nel quale si rintraccia facilmente la passione che anima questo luogo, qualche bicchiere da una carta centrata sulla Puglia con qualche sconfinamento europeo, un conto che mai viola gli 80 euro. Tutto compreso.
Poi a svelare gli intenti sarà la chiarezza dei piatti, la decisione dei timbri, quella trasparenza dei fondi che talvolta sembrerà perfino sopperire alla timidezza della loro gioventù. Chiarezza che traspare subito intanto da una materia prima di indubbia qualità, dagli ingredienti pochi, da questa cucina giocata molto sugli allunghi, sulle amplificazioni, sulle persistenze, insomma più sugli accordi che sui contrasti. E’ così dall’inizio, con un tonno che viene come trascinato dallo zenzero e dall’alga, o meglio ancora con quello spaghettone e cozze, dove la sapidità si riverbera sul cacao e il sedano rapa.
Ci sono anche idee per la carne, con una guancia di bella cottura, resa come profonda dalla terrosità del tartufo e inebriata dall’anice spray, lì davanti a te. Prima però, saranno stati i tortelli con la ricotta a farti pensare che c’è del mestiere a creare una bisque con il moscato di Trani per esaltare il gambero rosso posato crudo negli intermezzi del piatto. Dopo tutto, infine, sarà la conferma della chiusura del pranzo prima con la sferzata di vitamina C del predessert giusto poi con l’eleganza di una merenda antica. Golosissima.

La sala. Rigorosa anche nelle tinte.
sala, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Il pane. Integrale, lievitazione naturale e taralli friabili.
pane, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Aspettando l’antipasto… Cracker di patate con erba cipollina, compressione di melone e polline.
benvenuto, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Crudo di gamberi rossi di Gallipoli, peperone ed ananas. Protagonista e comprimari.
crudo di gamberi, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Tonno, bietola, zenzero ed alga nori. Stesso concetto con contaminazioni internazionali. Bietola cotta magistralmente per donare consistenza.
tonno,Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Dentice, asparagi ed estratto di cappone. Qui si trova difficoltà a leggerne le intenzioni. Un fondo che questa volta non aggiunge valore restando avulso dal contesto.
dentice, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Tortelli di ricotta, crudo di gambero rosso di Gallipoli, moscato di Trani. Vale il viaggio.
tortelli, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Spaghettone, cozze, sedano rapa e cacao. Sapidità con l’accelerata degli elementi di contorno. Mantecatura perfetta.
spaghetto, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Spigola alla mugnaia. Il classico.
spigola, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Guancia di vitello carota ed anice, tartufo nero estivo. Anche qui la filosofia è rintracciabile: ingrediente principale e a corredo sapori bilanciati e riconoscibili. L’anice che pervade l’olfatto spruzzata a tavola sul piatto.
guancia, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Vitamina C. Arancia, pompelmo, limone e gelato allo yuzu. La freschezza e l’acidità, ottimo per ripulire il palato prima del dessert più strutturato.
predessert, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Colazione del contadino. Biscotto all’olio extravergine d’oliva, crumble al grano arso, gelato alla ricotta, coulis di frutta. Esercizio di modernità su una robusta colazione tradizionale di campagna.
dessert, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia
Tiramisù. Per chiudere in dolcezza.
tiramisù, Quintessenza, Chef Stefano Di Gennaro, Trani, Barletta, Puglia

L’estensione della Puglia la misuri quando ti capita di arrivare fin qui, così a sud, così ad est. Tricase è pietra ed argilla a comporre strade, abitazioni e monumenti. Poi c’è anche la propaggine sull’acqua, quel piccolo porto senza spazi tra i pescherecci. Privo di aiuti, fatichi a trovarlo il ristorante anche per quelle quattro lettere, poco visibili, dipinte ed incorniciate sulla ceramica ora poggiate su una sedia all’ingresso, come a riposare. La prima sala ha il respiro della volta in pietra e il candore delle pareti bianche, poi per raggiungere il cortile, si dovrà curiosamente passare per la cucina, ad agosto particolarmente ingombra ed indaffarata.

Lemì e il suo chef-proprietario Ippazio Turco, fanno parte di quel Salento che tenta l’impegno per offrire qualcosa in più di quel minimo che spesso a queste latitudini appare come l’unica scelta. Qualcosa forse ora qui si è dovuto ridisegnare rispetto ai furori iniziali, però resta un posto da venire a cercare, specialmente se lo si riesce a fare in quegli altri undici mesi all’anno in cui tutto scorre a ritmi non più dannati.
L’inizio, inganno dell’attesa, è quello che ti aspetti e che ricordi con piacere. I due micropanini ad esempio. Di terra e di mare parlano entrambi di questi luoghi. C’è la cicoria con il peperoncino verde e il profumatissimo capicollo di Martinafranca, e c’è anche il polpo con la stracciatella e le olive nere. Dopo sarà un sandwich, ma sono due filetti di sardina a farsi pane per contenere la ricotta al finocchietto. Infine una mattonella in pietra su cui appaiono il sauro bianco e quello scuro. Il primo, quasi assoluto, con la necessità dei soli profumi del timo e della nepitella, l’altro con un robusto pesto cetarese come a cucinarlo.

Non convincono gli antipasti, intriganti alla lettura ma eseguiti con poca precisione. Le triglie soffrono nella corazza della pastella pugliese e scontano una frittura un po’ greve, che le fave e la cipolla di Tropea non riescono a farti dimenticare. E le seppioline ripiene promesse in carta si palesano in un’unica seppia, di dimensione generosa, con all’interno un fondente di formaggio con la cicoria, che avremmo preferito meno addensato ed ingombrante.
Primi piatti ben eseguiti, con bei fondi sapidi e decisi. Prima uno spaghettone pallido di pomodorino, dove i coralli del riccio sono mantecati con una maionese di calamaro di una corretta fluida densità, e poi una versione pop con sarde e mollica di pane, in una salsa di finocchietto selvatico che si annuncia con il suo profumo.
Dessert semplificati da pasticceria comune, come la macedonia di frutta sulla quale alloggia un anonimo gelato alla camomilla o la torta salentina con mandorle e ricotta in forma di muffin.
Qualche distrazione -rispetto ai ricordi- amplificata inevitabilmente dagli affanni agostani. Tempi di attesa perfettibili, servizio in sala migliorabile come presenza ed attenzione al cliente, oltre una maggiore cura necessaria per alcuni dettagli (la presentazione della carta, l’accoglienza all’ingresso…).

La sala esterna, un cortile con accesso dalla cucina.
Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Piccoli panini: stracciatella, polpo, olive nere e pomodorino; cicoria, peperoncino verde e capocollo di Martina Franca.
panini, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Sulla pietra un sandwich di sardina con ricotta e finocchietto selvatico.
sandwich, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Sauro bianco con timo e nepitella. Sauro scuro ripieno di pesto cetarese.
Sparo bianco, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
La busta del pane caldo.
pane, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Seppioline ripiene di cicoria e fondente di formaggio locale, il suo nero e maionese di alici (senza uova).
seppioline, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Pettole di triglie, fave ed emulsione di cipolla di Tropea.
Pentole di Triglie, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Spaghettone con corallo di ricci, peperone verde e acqua di calamaro.
Soaghettone, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Pasta con le sarde alla salentina e succo di finocchietto selvatico.
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Emulsione di cocco, insalata di frutta e gelato alla camomilla.
emulsione,frutta, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia
Torta salentina, mandorle e ricotta.
torta, Lemì, Chef Ippazio Turco, Tricase, Lecce, Puglia

Due milioni di chilometri quadrati. Più di quindici milioni di abitanti. Ventitré quartieri con vocazioni e aspirazioni diverse. Una storia, lunga e complessa, che qui, e solo qui, non sembra essersi stratificata verticalmente come sempre accade, ma spalmata sull’intero territorio, fino ai bordi, con i suoi paradossi e le sue follie ad ogni passo: strade senza nomi e palazzi senza numero, pagode con tegole e legni scuri, poi chilometri di neon, lampi di fosforo e treni volanti. Botteghe mai più alte di un albero e dietro, edifici ricalcati sulle geometrie dei circuiti stampati.
Giardini come architetture, grattacieli come foreste.

Tokyo.

Allora per tentarne il racconto, per rintracciare un filo, sarà necessario la scelta di un luogo come metafora, un microcosmo nei cui confini ricercarne più facilmente l’anima. Magari un mercato. Sicuramente uno. Lo Tsukiji Market, quello del pesce, imprescindibilmente nelle prime cinque ore di permanenza del viaggiatore curioso e nelle prime cinque pagine di qualsiasi guida turistica che voglia suggerire un’idea di questa città.
Poi, saranno parole per spiegare quello che le fotografie qui non riescono a fare.

Tutto comincia prima, percorrendo quel quartiere di Ginza -marciapiedi come autostrade, e pareti di vetrine- che inaspettatamente termina lì, proprio tra quei capannoni umidi e le sessantamila persone che ogni mattina li respirano. Un calo di luce improvviso appena ci si addentra dopo essere sopravvissuti alle ruote dei velocissimi carrelli elettrici che attenteranno alla vostra vita. Poi alle luci delle lampade sospese, l’immagine apocalittica di un oceano improvvisamente ritiratosi, lasciando così, agli occhi, tutti i suoi abitanti muti riversi sul fondo. Di ogni taglia. Di ogni colore. E allora sarà come camminare dentro un acquario, una discesa in apnea lungo i tagli dei banchi come scogli ma con i piedi nelle scarpe, all’asciutto delle volte, tra voci, meraviglia e sangue.

All’esterno dei capannoni c’è l’altro mercato. Qui, esposto fuori dalle minuscole botteghe, il pesce si offre porzionato, lavorato, essiccato, conservato, cucinato, in un fantasmagorico caleidoscopio di colori, forme e geometrie. I vicoli sembrano essere stati ritagliati a fatica intorno ai cesti, alle scatole, a quelle cassette, a comporre una sconfinata natura morta del mare, silente ed immobile. E sempre qui, quando si arriverà, rigorosamente all’alba, nell’attesa dell’apertura al pubblico dei capannoni sgombri ormai dalle aste e dai grossisti, che si affronterà la fila, lunga ma ordinatissima, di chiunque voglia avere, per una volta, lo sgabello davanti il banco di Daiwa Sushi, per guardare le mani sicure e velocissime dei maestri che sfilettano, impilano il riso e lo depongono su quel tagliere in legno, davanti a te. Omakase, il breve menu dello chef, si intenderà senza parole. Nigiri per sette volte, poi qualche maki, una zuppa di miso, una tazza di the verde. Null’altro sarà necessario per avere l’esperienza del sushi, quella da portarsi appresso per tutta la vita.

A novembre però, tutto questo non sarà più, si è già troppo rimandato, e dunque il nuovo teatro di questo spettacolo avrà spazi più moderni, banchi più ampi, luci piu’ diffuse, taglieri con meno rughe.
Vedremo, ma la magia di questo luogo, no, non riuscirà a traslocare, gli uomini non sussurreranno più ai pesci carezzando le squame, e il mercato di Tokyo non sarà più un luogo dove cogliere in qualche ora l’anima millenaria del paese.

La fila delle 6 per accedere a Daiwa Sushi.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Seduti al banco.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
The verde e zuppa di miso per accompagnare.
the verde, zuppa di miso, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
I maestri all’opera. Spazi ristrettissimi per gesti precisi.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Momenti dell’omakase. Mazzancolla,tonno, riccio, anguilla e i maki misti.
omakase, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Omakase, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Omakase, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Omakase, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
L’esterno. Dove tutto comincia e finisce.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
La zona esterna al mercato. Qui gli essiccati.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Ostriche grigliate.
ostriche grigliate, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Sezionati.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Pose.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Millimetrati.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
I giganti.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Le miniature.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Occhi di tonno. L’ultima specialità della tavola giapponese.
occhi di tonno, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Forse i fratelli Alajmo qui hanno avuto l’intuizione per i paralumi del ristorante.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Scorci dell’interno del mercato coperto, accessibile ai visitatori solo dopo il termine del lavoro degli operatori del settore.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Lavorazione del tonno.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Teste.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Colori.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
La mattanza. Poi gli scarti.
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo
Fugu. Il pesce palla e la fama del suo veleno.
fugu, Tsukiji Market – Daiwa Sushi, Tokyo

Prima del dessert ecco apparire, in una sorta di nemesi, la buatta. Tubetti di Gragnano al sugo di S. Marzano e Piennolo del Vesuvio con olio extravergine e basilico, all’interno della tradizionale latta dei pomodori, con tanto di etichetta. Basici.
Un gesto d’amore, un tributo alle origini, all’obbligatorio punto di partenza, volutamente in fondo ad una cena che sembrava aver appena messo tutto in discussione.

Una cena al ristorante dell’Hotel Romeo di Napoli è una esperienza complessa, ricca di rimandi, citazioni, suggestioni. In un certo senso, mentre sei intorno a quel tavolo come impilato in cima ai nove piani di stanze, con il nero della sala a dare continuità alla notte dietro i vetri, è come se tutto fosse sospeso. Occorreranno minuti, ore, forse anche giorni affinchè si comincino a decifrare tutti i segni. Uno alla volta.
La posizione intanto, emblematica, con giusto due corsie di asfalto a separare le pareti di vetro dalle banchine del porto, da sempre luogo letterario di scambio, contaminazione, libertà.
La cucina, senza il feticcio del chilometro zero, con l’acciaio del banco in bolla con l’orizzonte, l’unica linea che non confina spazi, l’idea più comune di infinito.

I piatti poi, che sembrano continui cambi di rotta, memorie, incursioni, matrimoni, quasi a ricordarci che talvolta la storia e la geografia si possono ripassare anche con coltello e forchetta tra le mani. E infine l’arte. Che con le sue schegge riveste pareti, ingombra pavimenti, traveste oggetti, incornicia i piatti, al punto da averle raccolte in un volume alto due dita da regalare agli ospiti affinchè ne abbiano conoscenza e memoria.
L’aperitivo iniziale gioca molto sui travestimenti di piccoli bocconi, elaborati ma dal gusto riconoscibile, immediato. Contrasti a tutta scala (acido-dolce-amaro) come la mozzarella che diviene sablè con un budino di melenzana e una marmellata di pomodoro, alterazioni di consistenze con la mousse di mortadella, il pistacchio fatto maionese e l’aceto balsamico in disco di gelatina ed anche deriva etnica come il raviolo nella vaporiera di bambù con ricotta fermentata e gel di piselli. Una elegante presentazione simultanea accompagnata da taralli e grissini, da una selezione di sali e pepi e da un olio (ravece) spalmabile.

Negli antipasti si comincia a delineare il percorso che affianca a questi virtuosismi tecnici una materia prima molto variegata. L’ideazione del piatto sembra concludersi sempre con una scelta puntuale e senza vincoli di ogni singolo ingrediente.
Ecco l’aceto di riso -puntellato da zenzero e pepe- a marinare lo sgombro ospitato all’interno di un tacos di mais realizzato con l’acqua di mare, ecco i piccoli asparagi sulla pietra lavica accelerati da una maionese di acciughe -giusto un accenno- e dalle uova di pesce volante, meno aggressive e dalla sapidità più contenuta di altre. Molto buoni i gamberi dove il sentore della brace e l’aroma della quinoa sono ripuliti dal finale pop del vino bianco con la pesca e una ghiacciata di basilico.
Si prosegue, e c’è un risotto di buona scuola, dall’impervio controllo di sapidità per l’abbinata cozza e limone salato (anche se forse avremmo preferito un cimento con la pasta secca) ed a seguire un bel merluzzo nero alle erbe, cotto perfettamente, sferzato dall’autorità del percebes.
Entrambi sembrano introdurre gradatamente i concetti che troveranno compimento nei secondi di carne, prima con la trilogia del piccione con petto, coscia ed un superbo collo ripieno di fegatini marinato all’anice, poi con l’animella in una glassa di soia e aceto con erbe di campo e quella giusta acidità della mela in chiusura.
Ma la vera deflagrazione arriva con il pollo e la sua zuppa chiamata all chicken, un grande concerto delle sue parti meno nobili (durelli, piedini, cuore e fegato) in una sorta di miso con funghi enoki e bottoni di canapa ripieni di kefir. Ovvero come realizzare un piatto elegante, complesso, di grande equilibrio e di forte impatto gustativo. Contemporaneamente.
Poi, dopo l’atterraggio con la buatta -pura verità- si torna in orbita tra le finzioni con l’uovo da bere con il centrifugato di pesca a fare il tuorlo e infine quello allevato a terra dove un guscio di isomalto protegge il cuore liquido per irrigare la terra delle fragole.

Un bel lavoro di squadra iniziato quattro anni prima, una ambiziosa idea di ristorazione in una città difficile, tanto più all’interno di un grande albergo. Una offerta gastronomica che, parafrasando l’immenso Bottura, è di tradizione sì, ma vista da dieci chilometri -o meglio miglia marine- di distanza.
Si sono voluti complicare la vita. Ed è ancora l’inizio.

La sala. Architettura, luci, design, arte.
Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Aperitivo. Taralli cotti al vapore con arachidi e sesamo tostato, Olio ravece spalmabile, Grissini ai semi, Polpettina di barbabietola con insalata russa, Sable di mozzarella con budino di melanzana e marmellata di corbarino, Tartelletta di Parmigiano con mortadella, Maionese di pistacchi e gelatina di balsamico, Riso soffiato al nero e puttanesca secca, Ravioli in doppia cottura con ricotta fermentata e gel di piselli.
aperitivo, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Raviolo, particolare.
raviolo, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Tacos di acqua di mare e mais con sgombro arrosto marinato in aceto di riso, zenzero e pepe rosa.
Tacos, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Asparagi con maionese di acciughe, olive, capperi e uova di pesce volante.
Asparagi, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Gamberi alla brace con insalatina di quinoa rossa, pesca e vino bianco, granita di basilico.
Gamberi, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Risotto con curcuma, pomodorini gialli, limone salato e cozze.
risotto, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
All chicken: zuppa di pollo con durelli, piedini, cuore e fegato, funghi enoki, senape e bottoni di canapa ripieni di kefir e parmigiano.
All chicken, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Black cod con emulsioni di piselli ed erba di grano, sedano cotto in ghiaccio, percebes ed estratto di lime.
Black Code, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Piccione (petto, coscia e collo ripieno di fegatini) marinato all’anice con ibisco, pera e spinaci senapati.
Piccione, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Animella glassata con aceto e soia, crema di erbe di campo, mostarda e mela croccante.
Animella, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
‘A buatta: nella latta retrò della passata di pomodori, tubetti di Gragnano con sugo di S,Marzano e piennolo, olio evo e basilico.
L’ultima portata è poesia: il ritorno a casa.
'A Buatta, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Uovo da bere: acqua limonata e centrifugato di pesca.
uovo da bere, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Uovo allevato a terra. Ritorna il tema dell’uovo, quasi una ossessione per lo chef, questa volta in chiave dolce. Un guscio di isomalto nasconde.
uovo, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
uovo dolce, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Cremoso di nocciola con cioccolato affumicato e kamut soffiato.
Cremoso di nocciola, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
I Macarons.
Macarons, Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli
Il panorama sempre mutevole del porto turistico di Napoli.
Il Comandante, Chef Salvatore Bianco, Hotel Romeo, Napoli