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Le Comptoir des Tontons

Uno degli indirizzi più affidabili di Beaune.
Sta diventando una dolce abitudine. Prima, la visita da Pacalet, giusto per scoprire come sarà l’annata del vino che di lì a poco troverà riposo in bottiglia; poi, pranzo in questo piacevole locale nella centrale Rue de Faubourg Madeleine. (altro…)

La storia della Maison Lameloise iniziò nel XV secolo a Chagny, come semplice stazione di posta, ma fu solo nel 1920, quando Pierre Lameloise, allievo del grande Auguste Escoffier, rilevò la struttura insieme alla moglie Denise , che iniziò ad essere un’importante meta gastronomica con il nome di Hôtel du Commerce.
Fu il figlio di Pierre, Jean, che nel 1960 battezzò la sua creatura semplicemente Lameloise, ma fu con Jacques, chef dal 1971, che il ristorante arrivò al massimo riconoscimento della Michelin e Jacques divenne il più giovane chef tristellato di Francia.

Oggi siamo arrivati alla quarta generazione, la gestione della struttura è saldamente nelle mani del duo Fréderic Lamy, nipote della famiglia Lameloise ed Eric Pras, lo chef.
Eric Pras, Meilleur Ouvriers de France nel 2004, dopo apprendistati importanti a Roanne dai Troisgros, a Saulieu da Loiseau, a Saint-Etienne da Gagnaire e dopo essere stato il secondo di Régis Marcon, all’età di 36 anni arrivò a Chagny dove diventò chef di cucina prima affiancando Jacques e poi sostituendolo nella gestione.
Pras non stravolse la cucina della Maison, ma indubbiamente portò una ventata di modernità, la sua è una cucina di prodotto (“La star ce n’est pas moi, c’est le produit!”), fondamentalmente tradizionale, ma piuttosto leggera, parca nell’uso dei grassi e attenta al lato estetico dei piatti.
La sua cucina convince per perfezione delle cotture, per qualità estrema della materia prima e per originalità, ma nella nostra visita non tutto è filato liscio. I piatti, nonostante l’ottima fattura, in taluni casi ci sono sembrati troppo ordinari, un po’ noiosi al palato, senza quel quid che trasforma una preparazione da buona a memorabile.
Un esempio è l’Omble chevalier des Cévennes: marinato, affumicato e nappato con latte di mandorla montato a neve, perfetto a livello tecnico, ma fin troppo abbondante nella porzione, con poca mobilità nel piatto e conseguente difficoltà nel terminarlo.
Nel caso invece del pur ottimo astice blu, rape, pan di spezie e marmellata di prugne, gli accompagnamenti si sono ritagliati il ruolo di veri protagonisti, mettendo in secondo piano l’elemento centrale, con il risultato di far virare il tutto troppo sul dolce, compromettendo il risultato finale.
Di gran classe, come spesso accade Oltralpe, il servizio diretto da Fréderic Lamy, delizioso padrone di casa, a capo di una brigata ben collaudata dove ognuno svolge il suo ruolo con precisione chirurgica, senza mai far mancare niente al tavolo, in maniera naturale, non forzata e col sorriso sempre stampato sulle labbra.
Buona la carta dei vini anche se non amplissima e nemmeno particolarmente profonda, ma con prezzi comunque abbordabili soprattutto se rapportati all’importanza del locale.
Lameloise, nonostante non ci abbia convinto pienamente a livello di cucina, si conferma un ottimo indirizzo per bellezza dell’ambiente, perfezione del servizio e piacevolezza complessiva. Un’oasi sicura per chi vuole concedersi due ore di relax in terra di Borgogna.

La sala

Il ricco aperitivo: veramente ottimi i pop corn di lumache (nel bicchiere).


L’amuse bouche: disco di foie gras e meringa agli agrumi.

Il pane, fra cui spicca il pan brioche veramente buonissimo.

Omble chevalier de Cévennes

Foie gras de canard: marbré confit ripieno di coscia d’anatra, accompagnato da fragole, carciofi crudi e quinoa. Un piatto molto bello con una materia prima eccellente, ma piuttosto monocorde, con una sensazione grassa appena attenuata dai vari accompagnamenti.

Homard bleu; pan d’épices: come già accennato troppo sacrificato il pur ottimo homard rispetto al resto della preparazione.

Noix de ris de veau: impanate al pan brioche, mousse di piselli, carote, succo al profumo di cannella, piatto goloso, perfetto nell’esecuzione, fin troppo abbondante nella quantità.

Côte de veau de lait élevé sous la mère: sporzionato con perizia al gueridon, un piatto perfetto, grande materia prima, cottura millimetrica, goloso e appagante.



Il pre dessert

Tarte souffllée aux fraise Gariguette

Piccola pasticceria


L’ottimo Puligny-Montrachet

Dello Chatomat avevamo già detto tutto il bene possibile poco più di sei mesi fa, ma era troppo forte il desiderio di un secondo passaggio a casa di Alice Di Cagno e Victor Gaillard, soprattutto per capire se il successo aveva influito sulla qualità dell’offerta che allora si era rivelata di grande livello.
Bisogna dire che questa coppia di ragazzi dal passato pluristellato, a un anno e mezzo dall’apertura viaggia ancora forte, inventando ogni giorno piatti originali, talvolta addirittura potenti, d’impianto sostanzialmente classico ma capaci sempre di colpire al cuore. L’ambiente è rimasto ovviamente quello: deliziosamente piccolo e affollato, solo 24 coperti da conquistarsi con i denti. I miei dubbi sul giudizio finale sono stati risolti all’arrivo di un dessert da capogiro (cosa peraltro abbastanza rara nella “neobistrotteria”) che ci ha permesso di confermare, seppur con la condizionale, il giudizio del nostro predecessore.

Il percorso comunque, quasi netto, da cavallini di razza: l’apertura, gentilmente offerta, è affidata a una vellutata di rutabaga, ricotta, pan di spezie e radicchio, interessante ma un po’ troppo virata sul dolce.
Iniziando la cena vera e propria, il consommé di manzo con ostrica pochée e verdure invernali è una declinazione elegante del savoir faire della coppia, abilissima nel coniugare elementi eterogenei senza perdere la nettezza gustativa. Nei piatti principali si fanno preferire quelli dai gusti più decisi, con le carni esaltate da emulsioni e salse davvero di grande impatto, mentre la sola portata di pesce (la razza) sconta una presenza del pompelmo un po’ esagerata e coprente.
Come sospettavamo, dolci di livello davvero notevole. La crema di topinambour con pera, sciroppo d’acero e crumble di noci pecan è molto più seducente dei risultati che di solito si ottengono nella oramai vecchia new wave dei dolci-non-troppo-dolci. Ma è soprattutto con le palline di manioca al latte di cocco, mela granata, litchi e gelato di sesamo nero che si raggiungono altezze veramente inconsuete per questo tipo di ristorazione. Consistenze, temperature, dolce e acido sposati in maniera raffinata ed equilibrata: è un dessert da applauso.
La carta dei vini ha molte attrattive e prezzi onestissimi come tutto da queste parti, e la scelta di un Anjou di Jo Pithon, che non può consentire di seguire con armonia una cena così eterogenea, soddisfa almeno la predilezione di chi scrive per gli Chenin Blanc di nuova generazione.
Una buona ragione, questo Chatomat, per un tour nella vivacissima Menilmontant, quartiere parigino in piena “gentrification” ma, fortunatamente, capace di regalare angoli piacevoli come questo e il lanciatissimo Roseval del “nostro” Simone Tondo.

Vellutata di rutabaga, ricotta, pan di spezie e radicchio.

Consommé di manzo, ostrica pochée e verdure invernali. Molto elegante e leggero.

Croccante al grano saraceno, cavolo, funghi shitake e lamelle di foie gras. Ghiottissimo boccone di stagione, davvero riuscito.

Guancia di maiale alle erbe, manioca, spinaci ed emulsione alle arachidi, che dà un contrappunto davvero potente e originale.

Razza pochée, pompelmo, rosmarino capperi e burro alla nocciola.

Crema di topinambour con pera, sciroppo d’acero e crumble di noci pecan.

Palline di manioca al latte di cocco, mela granata, litchi e gelato di sesamo nero.

L’Anjou Les Pépinières di Jo Pithon.

Se è vero che probabilmente da qualche anno l’Arpège di Alain Passard non è più quel formidabile ristorante che è stato a lungo, è anche vero che la diaspora dei suoi chef e uomini di sala, iniziata con l’ormai tristellato Astrance, prosegue con grande successo.
L’ultimo dei progetti nati in questo formidabile crogiolo di talenti è questo Garance, che vede come duo passato per la rue Varenne lo chef Guillaume Iskand e il sommelier Guillaume Muller, che ne è anche il proprietario.
Rispetto a tutti i loro predecessori, qui l’ambizione sembra ancora più alta: la sede è nella prestigiosa Rue St. Dominique, la ristrutturazione del locale è veramente affascinante, con due piani di eleganza franco-scandinava tra stucchi, legni, resine che riescono a creare un ambiente molto sobrio ma accogliente.
Possibilità di accomodarsi a una tavola addobbata come oramai nei neobistrot non usa più, in alternativa a uno dei due banconi del primo piano (sulla cucina) e del secondo. Le “eleganti” premesse non negano però la possibilità di regalarsi un menù del pranzo per soli trentaquattro meritatissimi euro, a meno di non prediligere i “suggerimenti” del giorno, con i cui supplementi si arriva a toccare i cinquanta.
Motivo per cui ci si può anche permettere di pescare senza troppi timori da una carta dei vini anch’essa lodevole e originale, perché affianca flaconi abbordabili e nello spirito bio, tendenza che tanto piace nei nuovi ristoranti di culto, a nomi pregiati e inarrivabili (anche un Cros Parantoux di Jayer per dire…). Noi, più modestamente, abbiamo scelto un Volnay 2005 di Lafarge, ancora sin troppo fresco, per una sessantina di euro piuttosto ben spesi.
Il menù descrive spartanamente i suoi piatti (es: tartare di vitello, rafano, parmigiano), che sono in pieno spirito passardiano: pochi ingredienti, largo spazio ai vegetali, cotture precisissime.
Tra le entrée, a parte la suddetta ottima tartare, ecco il piatto più scontato della giornata, una quaglia con emulsione di nocciola, di impianto classico ed esecuzione priva d’errori. Si capisce che si tratta di uno chef d’alta scuola ma si percepisce anche una prudenza quasi eccessiva.
Grande prova, però, nei plat: l’agnello alla plancia, in due servizi e con l’accompagnamento di una “giardiniera” di bellezza pari alla sua bontà, è da due stelle a mani basse, come pure la “volaille” (originariamente era prevista un’anatra, ma si è ripiegato su un’altra specie non precisata) con mousse di barbabietola e suo fantastico “jus”, anch’essa accompagnata da un secondo servizio che dà ampio spazio ai “legumes”.
Le foto dicono tutto al gourmet che ha sacrificato qualche centinaio di euro sull’altare della mensa Passard: l’ispirazione è evidentemente quella, la scuola ha funzionato. E la possibilità di accedere a una cucina di questo livello a prezzi quasi alleggeriti di uno zero è davvero piacevole, oltre a essere probabile viatico di successo (la sala era piena, soprattutto di uomini d’affari, ma anche di qualche rincuorante giovane coppia).
Bisognerà capire se, come già successo nell’infinito universo gastronomico parigino, tanta passione e qualità a questi livelli di costo non sia solo un’operazione di marketing dalla vita breve, giusto per conquistarsi una rendita di posizione che in futuro riconsegnerà il rapporto qualità prezzo a un gusto molto più “salato” di oggi. Per ora quindi voto pieno con diritto di recesso tra qualche mese, godendoci pienamente la parte più “dolce” del progetto, benché al capitolo dessert, attualmente, troverete una sola voce (ricotta di bufala, sorbetto alle clementine, mousse alla zucca, crema al limone), molto più furbetta che ispirata.

La mise en place, altro che neo-bistrot…

Chef al lavoro (e giapponesi al bancone). Iskand è quello mosso…

Altro piccolo bancone, al piano superiore

La quaglia. Niente da dire, ma si viaggia un po’ col freno tirato

Tartare di vitello, rafano, parmigiano

L’agnello. La vista non inganni, siamo su livelli davvero d’eccellenza

… e il suo teletrasporto per rue Varenne

La volaille in due servizi

Il dessert, un po’ in tono minore

Il pane (niente, proprio niente da dire)

E il vino, con M. Lafarge che è la solita certezza

 

Bisogna schierarsi nella vita.
E un posto come questo, per i limiti strutturali che lo connotano, non può piacere a tutti: ci si trova fatalmente ad amarlo o a odiarlo.
Dal voto si capisce da che parte siamo noi, ma oltre al colpo di fulmine che è scattato appena varcata la soglia di questo buco di ristorante, abbiamo numerosi e validi argomenti per argomentare la nostra predilezione.
Akihiro Horikoshi, dopo aver lavorato per più di quindici anni all’Ambroisie occupandosi delle preparazioni di pesce, ha fatto una scelta radicale: aprire una sorta di mini salotto da meno di venti persone, dove propone, a prezzi ragionevoli, pochissimi piatti da grande ristorazione. Il tutto è accompagnato da un’agile carta di vini, scelti con oculatezza per accompagnare validamente il cibo senza pesare sul portafogli.
L’ambiente è minimale, la cucina realmente a vista, nel senso che è praticamente accanto a voi. Lo chef è coadiuvato solo da una signora, anch’essa giapponese (probabilmente sua moglie dalle fonti trovate in rete, ma non ho ritenuto d’indagare oltre), che si occupa dei clienti col noto garbo tipicamente nipponico, mentre lui cucina, pulisce e fa anche i piatti.
Date le premesse arriviamo alla cucina e alla sua valutazione: il menù proposto a pranzo, che prevede solo due opzioni per entrée, un piatto principale e un dolce unico, rasenta la perfezione nelle esecuzioni. Se chiudete gli occhi e v’immaginate in una grande maison ne ritroverete in piano presentazioni, cotture, salse d’accompagnamento, qualità degli ingredienti.
L’orata, la cappasanta, la sogliola, il San Pietro vengono esaltati dal tocco di una mano sapiente nel dosare la preparazione al millimetro con salse, verdure e spezie perfettamente governate. Una gamma espressiva volutamente limitata (solo il mare), ma portata ai massimi livelli possibili.
L’unico dolce proposto, una torta di pere di fattura a dir poco classica e senza alcun accompagnamento, può sembrare una caduta, ma se poi si rivela soave al palato, non può che confermare la scelta massimalista di Mr. Aki: fare apparentemente semplice e fare sostanzialmente bene.
Ad accompagnare il tutto un cristallino, per profumi e freschezza varietale, Sauvignon Les Broux 2011, annata non sempre felicissima in zona.
Se siete stanchi di velleitarismi e non volete svenarvi per provare una cucina da multistellato tradizionale la scelta è praticamente obbligata: 49, rue Vaneau, un luogo discreto che vi resterà nella memoria e che pretende solamente l’accortezza di una telefonata un mesetto prima per assicurarvi uno dei pochi e ambiti tavoli da vero gourmet.

Orata con salsa alle spezie e carote. Dosaggi certosini e cotture millimetriche. Un entrée che dice già tutto.

Cappasanta al potimarron e spuma alla vaniglia. Elegante con echi della Cancale che più ci piacque.

Goujonettes di sogliola, brunoise di sedano rapa e capperi. Materia prima da sogno accompagnata come meglio non si può. Splendido il contrappunto salato dei capperi. Nulla per caso.

San Pietro con scalogno caramellato. Preso e catapultato qui da tavole multistellate.

Il gradevole Sancerre che ci ha accompagnato.