Per raccontare i Troisgros è necessario soffermarsi sulla famiglia, prima ancora che sui singoli individui, analizzando la magia che sono in grado di creare durante la trasmissione dei geni di generazione in generazione, limpido esempio di come il talento puro possa essere tramandato.
Ammirando la semplicità con cui tutto si svolge, ci si renderà conto di essere al cospetto di qualcosa di superiore, di immenso, forse di divino. Una straordinaria decisione che si mostra nella consapevolezza di essere una parte tangibile di storia, non solo inerente alla gastronomia, ma di riferimento all’evoluzione di una nazione intera. Con una acuta delicatezza il fluire degli anni viene accompagnato, raggiungendo l’obiettivo che coincide con il visionario e romantico tentativo di addomesticare il tempo, dandogli un’importanza relativa, facendo sì che sia esso stesso a seguire i dettami che loro, gli interpreti generazionali Troisgros, gli impongono.
E come lo scorrere del tempo pare non essere un problema, in casa Troisgros si è deciso di voler veicolare una sensibilità innata nei confronti degli ingredienti attraverso il loro dominio, in modo da riuscire nell’intento di saper ascoltare la natura e apprezzare quanto lei possa offrire, ma allo stesso tempo di saperla gestire e plasmare a proprio piacere. Ciò rende il cuoco stesso natura, in una prospettiva gerarchica ben definita che lo vede sovrano, in cui ogni elemento conosce il proprio ruolo e si attiene a svolgere il proprio compito nella miglior maniera possibile. Non si potrebbero spiegare altrimenti le sfumature aromatiche presenti in ogni preparazione, quasi impercettibili eppure fondamentali per la riuscita di composizioni inarrivabili.
D’altronde se qualcuno ha inventato i fiori e il loro profumo, allora sarà compito dell’artista concedersi la licenza di ricrearne tutte le sfumature olfattive ed emotive all’interno di un piatto. La fortuna in questo caso è che il genio in questione si trova a Roanne, di professione fa il cuoco e che a quanto pare ha saputo assimilare la sua straordinaria dote dal padre, sapendola ora trasferire al figlio.
I Troisgros hanno saputo prendere la tradizione francese, rielaborarla con squisito tatto, in modo da lasciarne inalterati i tratti, contestualizzandola però alla contemporaneità. Lo studio delle acidità, il loro apporto al piatto, non solo in chiave meramente gustativa ma propriamente culturale, ha regalato un nuovo modo di concepire la cucina, sfiorando l’interpretazione classica con un’anima straordinariamente moderna. L’acidulè presente nei piatti riempie l’esperienza come le virgole danno un senso ad una frase, divenendo quindi un tutt’uno con essi, in modo da non poterli più immaginare senza il suo apporto. Un’impronta creata e lasciata in eredità al mondo della gastronomia con il marchio registrato ben impresso.
La decisione e la naturalezza che traspaiono ad ogni boccone è interdittoria per chiunque. La nettezza impressa dalle erbe aromatiche, il grado garbato di acidità di ogni fondo, la cottura rispettosa della materia, riescono ad essere difficilmente spiegabili se non attraverso la loro fruizione materiale. Una commistione di culture e tecniche di lavorazione al servizio di un grande palato. Trippa, plin al pomodoro e nocciole, foglie di sedano e coriandolo con succo di anatra e aceto esemplifica la filosofia di cucina di casa, andando a toccare morbidamente tradizioni culinarie diverse, armonizzandole tra loro attraverso i dettagli acidi e aromatici della mandorla cruda, della foglia di sedano e dell’aceto presente nel succo d’anatra. Un trionfo di sfumature necessarie che trovano la loro essenza all’interno di una complessità di architettura del piatto e di metodologia ferrea, ma che come risultato regalano un’emozione, che in quanto tale riesce ad essere comprensibile a tutti.
Grazie a Troisgros abbiamo potuto raggiungere livelli di piacevolezza come mai prima in ambito gastronomico. Ma lo spunto di riflessione per capirne la grandezza potrebbe essere un altro. A che punto saremmo se il ristorante Troisgros non fosse mai esistito? Sicuramente mancherebbe un tassello fondamentale per concepire l’idea che la perfezione risiede nella semplicità, singolare affermazione che riguarda il mondo dell’arte nella sua interezza, di cui la famiglia Troisgros ne rappresenta l’epitome in chiave gastronomica.
Uno scorcio della sala.
Pomodoro caramellato, sesamo e zenzero. Un classico leggendario.
Anguria, pepe, biscotto al parmigiano e mostarda; panna cotta al limone verde e giallo con riso fritto; pane soffiato con purè di carote e zest di limone.
Il burro e il panino al burro.
Il pane.
Il primo dei vini in abbinamento.
Insalata rossa. Pompelmo, radicchio, mirtilli, ravanelli, anguria, rabarbaro. Un’entrata trionfante che ruota attorno ad un gioco freddo di consistenze, tra dolcezze, punte acidule e qualche nota amaricante.
Cozze, crema di zafferano, funghi, velo di latte e mandorla fresca. Elogio all’eleganza. Incredibile l’apporto aromatico della mandorla. Grande piatto in cui la tecnica estrema si fonde con una piacevolezza di base non scontata.
Trippa, plin al pomodoro e nocciola, foglie di sedano, coriandolo e succo d’anatra ed aceto. Una colpa per ogni appassionato che non si sia ancora concesso il piacere di assaggiarlo.
Gamberi di fiume, indivia, lampone, fiori di ciliegio e acqua di pomodoro. Passaggio straordinario. L’acidità più spinta rispetto agli altri piatti è smorzata e resa elegante dalla perfetta cottura dei gamberi. I fiori di ciliegio si manifestano come attori non protagonisti del piatto regalando dinamismo ad ogni boccone. Esemplare.
Sogliola sovrapposta, crosta di pane, cipolla marinata in aceto, erba cipollina, salsa dashi e panna. Piatto meno fotogenico ma non per questo inferiore ai precedenti. La cottura della sogliola è da manuale, mentre la golosità della salsa è dosata grazie all’acidità della cipolla marinata.
Animelle, curry e arancia, zucchine e fondo di vitello. Piatto di un equilibrio sottilissimo e perfetto. Da Troisgros ogni ingrediente ha un’importanza fondamentale per la riuscita della preparazione.
Il carrello dei formaggi.
Nel dettaglio.
Il nostro piatto di formaggi.
Confetture di ciliege e pepe e di pomodori e vaniglia in abbinamento.
Viallat est passé par là. Omaggio al pittore di Nîmes composto da menta, rabarbaro e cocco su un letto di biscotto crumble.
Millefoglie, arancia amara e frutti di bosco.
La piccola pasticceria.
Il bel giardino esterno.
I tavoli sono tutti occupati. I camerieri, dai nerovestiti maître e chef de rang, quasi costantemente impegnati fra porzionature e carrelli di formaggi e dolci, ai commis in livrea bianca, sciàmano fra le sale crepitanti di stupore e piccole gioie non quotidiane. C’è un fruscio sottile che accompagna la sensazione di assistere, nello stesso istante, alla routine di una sala attiva quattordici servizi la settimana e al manifestarsi di un’inesauribile varietà di sfumature umane: dalla ragazza che festeggia il compleanno con i genitori e piange al momento in cui, accompagnato dalle note di un Organo di Barberia e dall’applauso generale, giunge un petit gateau di compleanno, alla coppia di vecchi clienti per l’ennesimo anniversario nel solito locale, al gruppo di turisti d’oltreoceano con un assortimento di camicie decisamente poco trois étoiles.
Ad una sala in cui perfino un’insalata diventa un pretesto per dare un giro di ruote al guéridon qualche inezia talvolta scappa, ma non è possibile non provare sincera ammirazione per una brigata totalmente dedita ad una missione: far vivere ai molti convitati un’esperienza memorabile, anche nella sua fallibilità. Perché quello di Paul Bocuse non è solo un ristorante: è un parco giochi gastronomico dove la gioia viene assai prima dell’immota perfezione, una giostra in cui la girandola finale di dolci diventa inno alla vita, oltre che una sfida alla propria capacità produttiva di insulina.
Nel quadro d’insieme qualche dettaglio, certo, farà storcere il naso, dall’ineludibile iconografia del mitologico chef disseminata lungo le pareti alla presenza di un unico impiegato di colore, quello addetto al parcheggio e agli ingressi del sopracitato organetto, circostanza somatica che non noteremmo se non fosse per la bizzarra livrea che il poveretto deve indossare e per la sensazione di déjà-vu avuta in un tristellato italiano che, per molti aspetti, ricorda da vicino il lunapark gastronomico di Collonges.
Ci sono poi i piatti, e qui la storia prende la maiuscola e, talvolta, anche il volo: ad esempio con una salsa, che accompagna dei succulenti filetti di triglia in cui le scaglie sono state ricostruite con fettine di patata, che da sola vale il viaggio per intensità e misura di acidità e grassezza. Con un fegato grasso di qualità superba accompagnato da una più che pertinente salsa al frutto della passione, con dolci classicissimi mai sotto la soglia del molto buono. E’ certamente vero che il più recente di questi piatti, pur fatti oggetto di un minimo restyling che ha fatto entrare qualche schiuma all’Auberge du Pont, ha visto più primavere di una buona parte degli chef che attualmente li cucina, ma è per questo che ogni prospettiva critica qui decàde. Perché piatti che oggi ci sembrano persino troppo opulenti ed indulgenti verso le materie grasse sono gli stessi che meno di mezzo secolo fa hanno contribuito, pur in maniera assai inferiore a quelli di altri allievi di Point come Michel Guérard, all’alleggerimento delle preparazioni, ad una diversa sensibilità per le cotture, per le stagioni, per l’utilizzo della tecnologia in cucina e per un atteggiamento rispettoso per il passato ma non affondato dal peso della tradizione. E un pranzo o una cena a Collonges è un corso accelerato di storia della ristorazione che vale cinquanta libri letti, un’esperienza che non dovrebbe mancare ad alcun appassionato gourmet.
Piccola entrata stagionale: vellutata vegetale al tartufo nero.
Casseruola di astice all’Armoricana. Ad una temperatura da pomodorino fantozziano.
Fegato grasso in salsa al frutto della passione. Porzione alla carta: tre scaloppe. Follia!!!
Il filetto alla Rossini in salsa Périgueux. Un piatto che va abbondantemente oltre la nostra abitudine a sezionare i sapori.
Splendidi i filetti di triglia in scaglie di patate. Come già detto, salsa da applausi a scena aperta.
Gli accompagnamenti alla portata principale ordinata alla carta. A tal proposito: avendo provato entrambe le esperienze consigliamo caldamente di scegliere questo tipo di comanda rispetto ad uno dei tre menu disponibili; conterrete i danni al portafogli e nel contempo apprezzerete meglio piatti che non sono fatti per l’assaggio di più preparazioni ma danno il meglio di sé in porzione generosa.
Ferve l’attività in sala: anche per un’insalata (e nel frattempo, purtroppo, non siamo riusciti a fotografare il carrello dei formaggi griffati Mère Richard)
Predessert: ganache al cioccolato (splendida) con amarena.
La scelta dal carrello dei dolci: tarte au citron, sorbetto ai lamponi…
…una crème brulée da antologia…
…babà generosamente innaffiato…
…e un Paris-Brest “solo” buono.
Piccola pasticceria. Davvero un di più a questo livello glicemico.
La brandizzazione dilaga.
L’orgue de Barbarie.
Si fa presto a esclamare trionfalmente “Marc Veyrat è tornato!”, ché l’antologia dei grandi ritorni è infarcita di storie patetiche, delusioni e stanche riproposizioni di gloriosi passati. Ci sono però i campioni, e ci sono poi i fuoriclasse, e la distinzione fra le due categorie è sovente irriconducibile a banali affarucci di tecnica e professionalità. La differenza, a questi livelli, la fa un fuoco sacro che spegnere è impossibile, nascondere al mondo neppure, confinare al ventricolo destro men che meno. A loro, ai fuoriclasse, a loro sì che è concesso di tornare sul sedile che avevano lasciato prima di scendere dal treno, si fossero essi alzati per far sgranchire in corridoio le ossa, affaticate dallo sfiancante viaggio, o che se le siano rotte, le ossa, perché dalla carrozza son caduti in corsa. E per collocare Veyrat fra gli X-men dei fornelli non serve neppure rivolgersi al formidabile palmarès: sono sufficienti le parole, ancora stravolte dallo stupore di ricordi che non ne vogliono sapere di sedimentare, di coloro che la fortuna di provare la cucina dell’uomo dei ventiventesimi prima del ritiro, diversamente da chi scrive, l’hanno avuta. Correva l’anno 2009 quando Marc, segnato pesantemente nel fisico dalle conseguenze di un incontro troppo ravvicinato con un pilone avvenuto nel 2006 durante una sciata, si arrese al dolore e chiuse il tristellato Auberge de l’Eridan, dopo che già sùbito dopo l’incidente aveva venduto l’altrettanto premiato La Ferme de mon père: uno choc da cui il mondo della gastronomia fece in tempo a riaversi giusto in tempo per fronteggiare la chiusura del Bulli.
A lenire i rimpianti degli appassionati, e non solo di chi nel 2008 prometteva a sé stesso che l’anno seguente avrebbe tirato un bel calcione al porcellino e affrontato la proverbialmente inaffrontabile addizione savoiarda, ci penserà questo nuovo locale, appeso lungo i pendii sovrastanti il Col de la Croix Fry, dove Veyrat è nato e nel 1978 aprì il primo locale. La Maison des Bois vuole essere, nelle intenzioni della proprietà, un luogo dove l’ospite si possa sentire per qualche ora (o per qualche giorno: sono disponibili alcune camere) realmente come a casa propria, approfittando di un ambiente taglio plaid, di un’accoglienza sollevata da eccessi di sovrastrutture e rinfrancato da una cucina allo stesso tempo ardita ma ricca di appigli anche per il più inesperto free climber della forchetta. E il calore del legno, la cura dei dettagli (con l’eccezione di qualche pacchiano cuscino) e la luce delle vetrate, anche in una giornata dal meteo complessivamente poco favorevole, hanno davvero reso il nostro breve soggiorno una pausa confortevole, dall’atmosfera quasi familiare. Ci ha inoltre sinceramente divertito il poter scegliere le bottiglie per accompagnare il pranzo, così come facciamo a casa nostra, scendendo direttamente in cantina, così come scoprire, nel locale attiguo ad essa, come siano gli inquilini dell’ovile a mantenere i tesori enoici al riparo dal gelo, naturale conseguenza già a metà ottobre dei quasi 1700 metri.
Il servizio è gestito dal simpatico e affabile sommelier, dal personale di cucina e da un paio di jolly scorrazzanti fra la sala al piano superiore e la hall/bar/stube a quello inferiore. Il tutto, va detto, avviene non senza macroscopiche cadute: ci piace l’idea di un’atmosfera distesa e poco ingessata e del resto, a poco più di un mese dall’apertura, sarebbe eccessivo pretendere che tutto giri come un orologio, ma che quattro delle sei cosce di rana di un commensale vengano seminate sul pavimento lungo il tragitto verso il tavolo, senza che a ciò faccia seguito non solo un nuovo piatto, ma neppure un gesto di scuse, a 300 euro risulta difficile da incassare con il sorriso.
Riassumendo, l’ambiente è straordinario, il servizio migliorabile, la cantina fornita e neppure gravata da ricarichi impossibili, ma la cucina? Per quella bisogna stare sereni, perché l’uomo col cappello alla guida è un pericolo solo nel traffico. Tra portate sfacciatamente rustiche, di esecuzione comunque non facilmente migliorabile, e piatti dal tratto decisamente più autoriale fra i quali annovereremo non meno di tre capolavori, il percorso “Ma cuisine pastorale et minérale” è un fiume in un letto di note acide, vegetali ed erbacee. Il livello riscontrato nei piatti, sempre elevatissimo e macchiato qua e là da pennellate di sublime, è stato perfettamente in linea con le nostre dickensiane attese. Quel che c’è ancora di migliorabile non è tanto sulle singole portate, neppure su quelle programmaticamente meno giocate sulla finezza, quanto nell’idea, solo accennata attraverso la ricorsività di alcuni colori espressivi, di un percorso coerente, di un arco formale in cui tutti i piatti si incasellino senza fraintendimenti possibili, in cui anche i non radi ma neppure sistematici rimandi alla tradizione, come l’elaborazione minimal della Tartiflette, finiscano per avere un senso architettonico.
Ciò non toglie che, anche a poche settimane dalla sospirata apertura, peraltro preceduta da tre lunghi anni di gestazione, Marc Veyrat sia già tornato ad essere un punto di riferimento assoluto nel panorama ristorativo europeo. E’ lecito attendersi ancora di più, e per questo ci teniamo in serbo un ulteriore balzo nella valutazione, ma difficilmente troverete altrove l’infinita classe dei migliori piatti del nostro pranzo.
La parola ora al fotoracconto realizzato dal nostro Leonardo Casaleno.
Ad accompagnare l’aperitivo: mini hamburger di foie gras con composta di fichi…
…torta rustica con Reblochon e cipolle…
…e crema di zucca dentro la quale viene fatto sciogliere del meraviglioso lardo.
Il menù ufficiale inizia con il primo dei capolavori: yogurt di foie gras con succo di acha (del quale non siamo riusciti a trovare la traduzione: per ragioni di legalità supponiamo non sia quello citato dai Cornershop nel loro più celebre singolo) a scudisciare il palato di acidità. Galletta al cumino ad accompagnare e moderare i contrasti.
Infuso d’erbe. Strepitoso.
Uovo cotto nell’argilla, mais e acetosella. La nota olfattiva dell’argilla, già di per sé non gradevolissima, non ci pare aiuti l’uovo ad estrarre il meglio di sé. E ci fermiamo qui. Il passaggio meno riuscito del pranzo…
…accompagnato dal più autoctono dei biscotti.
Non è sempre fondamentale l’equilibrio, ma laddove lo chef lo trovi fra elementi che non sembra possibile bilanciare non possiamo che lodarlo: caviale, gelatina di pollo e tussilagine (pianta erbacea con una spiccata nota di carciofo).
Le rane (con un lieve eccesso d’unto residuo) nel loro ambiente, felci dei boschi e salsa al polipodio (straordinario l’effetto di quest’ultima, dal sapore in bilico fra piselli e liquerizia).
Coregone, salsa al caffelatte, pane bruciato, erba Buon Enrico: un altro piatto straordinario per misura e controllo degli elementi in gioco. Don’t try this at home.
Sembra impossibile dopo il piatto precedente, ma il punto più alto arriva subito dopo: dei tagliolini, senza uovo né farina bensì fatti di Beaufort e zafferano, vengono bagnati da una miscela di brodi di carne, spezie, erbe e (crediamo) funghi.
Il risultato, con la pasta che si scioglie nel recipiente sottostante, è tanto affilato nell’attacco quanto incredibilmente multisfaccettato nell’infinita girandola di riflessi che illuminano un’idea centrale che ricorda molto il porcino.
Tartiflette virtuale, con gli elementi scomposti (e l’aggiunta di tartufo nero).
Pancetta di vitello cotta tutta la notte con erbe e spezie. Piatto dal tratto decisamente agricolo, nobilitato dalla sapienza nell’uso degli elementi vegetali.
Il carrello dei formaggi.
E’ il momento della scarpetta. Segue coup de theatre (che tuttavia non vi riveleremo perché l’abbiam promesso).
Tapioca, frutti rossi e crème de cassis.
Soprendentemente fresca l’apparentemente minacciosa sfera di cioccolato, e ciò grazie al suo contenuto: chartreuse e genepì.
Frutto della passione e agrumi, a tutto acido.
Petit fours.
I vini della giornata, avanti, Savoia…
…beh no, per le bollicine (ma, in buona parte, anche per il resto) meglio rivolgere lo sguardo altrove.
I guardiani della cantina.
Siamo in alto, parecchio in alto.
Nel 2009 Christophe Dufau ha trasferito in una silenziosa villetta ricca di moderne opere d’arte, lontana dal centro della tranquilla Vence, il suo ristorante che, a Tourettes sur Loup, aveva mietuto già fama e allori.
All’interno, attraversata la sala da pranzo al primo piano, si accede a un piacevolissimo pergolato circondato da un rigoglioso giardino con tanto di orto.
In un’atmosfera rilassata, nobilitata da un servizio gioviale e informale, l’incontro con la cucina di Dufau è senza dubbio interessante: il passaggio da grandi francesi come Albert Roux nel londinese Le Gavroche o il sommo Loiseau a Saulieu sono sicuramente bagaglio importante nella sua formazione, ma è probabilmente l’influenza del danese Jan Hurtigkarl quella che maggiormente ha caratterizzato lo stile dello chef.
Dal grande scandinavo, suo compagno di viaggi intorno al mondo per anni, Dufau ha mutuato una cucina di mercato, essenziale, molto varia, certamente mediterranea e aperta a molteplici influenze.
Non ci sono piatti classici, se con essi si intende capisaldi della cucina tradizionale francese, ma preparazioni che, con l’utilizzo di ortaggi e ingredienti rigorosamente stagionali, esaltano il gusto dando un rilievo importante alla leggerezza.
Quest’ultima, infatti, viene ricercata con metodo essendo praticamente assenti salse e fondi di cottura.
Mare e terra, fiori e frutta, verdure e funghi tutti insieme compongono il materiale cui attingere per ricette fondate su sobrie giustapposizioni di elementi.
Non tutto trova però la propria quadratura, alcuni piatti risentono di eccessiva rusticità o di accostamenti poco equilibrati.
Una salsa di carote un po’ troppo dolce e degli spaghetti fatti in casa dalla dubbia consistenza non sono così il degno accompagnamento di una varietà di salmone che avrebbe necessitato di ben altro complemento o, ancora, un bergamotto che è troppo prevalente sulla dolcezza di un gambero già contrastata dalla presenza del limone.
Non è certo una cucina che faccia di finezze e finiture la propria cifra stilistica, ma la semplicità e la levità con cui sono costruiti i piatti rendono il risultato comunque lodevole e degno di rilievo.
Da altri particolari come un concentrato sorbetto di acciughe, un fritto impeccabile o una triglia perfettamente marinata, si nota infatti, altrettanto nitida, una salda mano in cucina.
La cantina è ottimizzata al massimo, con pochissime etichette per lo più di nicchia, e consente l’apertura e la scoperta di bottiglie dal rapporto qualità prezzo molto conveniente.
Ambiente.
Vigoroso pesto al prezzemolo, una versione decisamente meno apprezzabile di quella classica.
Meringa di sedano e mela, marmellata di tuorlo d’uovo.
Grissini alle olive e rosmarino.
Fritto di finocchio, piccola paranza e aioli.
Pane alle patate.
Sorbetto di acciughe, pomodoro e olive.
Triglia en escabeche, legumi confit, crema di acetosella, cracker di riso nero.
Gambero, limone e bergamotto (troppo forte la presenza di quest’ultimo).
Fegato di vitello, anguria marinata, vinaigrette di lamponi e dragoncello.
Salmone, gallinacci, salsa e schiuma di carote, spaghetti fatti in casa con bisque di crostacei.
Piccione, melanzane affumicate, gnocchi di mais e formaggio (un pò troppo grevi).
Chevre du Pics des Courmettes affumicato.
Nocciole con siero di vino e insalata.
Melone, menta, cetriolo, ribes, granita di acetosella, meringa al limone. Molto fresco e defaticante.
Albicocca, chou al miele, gelato alle mandorle.
Petit fours.
Convincente questo village di Philippe Colin.
Esterno.
Una valida mascotte tra di noi (di cui purtroppo non ricordiamo il nome).
A circa tre chilometri dalla congestionatissima e ipergriffata Cannes, in prossimità dell’autostrada, il borgo di Le Cannet ospita Villa Archange, oasi di buon gusto e serenità.
All’ingresso, su un lato, c’è la graziosa veranda del “Le bistrot des anges”, la risorsa più semplice della scuderia Oger, nonché avamposto ormai d’ordinanza di ogni grande ristorante che si rispetti.
Sovrastante a essa, alla fine di un piccolo vialetto, troviamo il delizioso e silenzioso giardino della Villa Archange, ai cui tavoli esterni, nella bella stagione, sarà possibile rilassarsi unendo le gioie del palato a quelle del benessere derivante da un ambiente così confortevole.
Bruno Oger è stato il delfino di Georges Blanc e questo trascorso emerge nitidamente dallo stile adottato, chiaramente improntato alla grande cucina classica di cui il cuoco di Vonnas è grande interprete.
A un retaggio così importante lo chef ha apportato un tocco personale che conferisce interessanti tonalità eleganti e mediterranee, caratterizzando i piatti con raffinata leggerezza, cifra stilistica di questo ristorante.
La leggiadria quasi eterea delle commis addette ai tavoli, è il degno completamento di un cadre dove tranquillità e autorevolezza culinaria si fondono mirabilmente.
Se una grande tavola è tale anche per l’attenzione dedicata a tanti piccoli particolari, oltre che per la presenza di grandi piatti, qui ne troviamo conferma assoluta.
I pani, ad esempio, di bontà inenarrabile, rappresentano un attentato alle capacità gastriche di qualsiasi gourmet. La gelatina di pomodoro che avvolge l’aspic di astice è di per sé già golosamente ricca di note acide e speziate così come nella memoria rimane ancora il cappuccino di vin jeaune e scalogno di cui, senza esagerazione, si potrebbe abusare spensieratamente.
Ma è un fondo di cottura, nello specifico caso quello dello stinco di vitello, a stabilire l’esatto livello della cucina, mostrando in tutta evidenza quanta abilità e sapiente tecnica occorrono per tirare alla perfezione una solo apparentemente semplice e affascinante salsa.
Conseguenza di tale perizia sono anche le impeccabili cotture e le concentrazioni di sapori, la cui persistenza, intensa e appagante, è affidata a un utilizzo di grassi e spezie quanto mai misurato ed essenziale.
Niente è affidato al caso qui, ma tutto concorre a un’armonia che rende l’esperienza a lungo impressa nel ricordo.
I costi sono senz’altro proporzionali al valore del ristorante (anche se è presente un interessante menù a pranzo di 65 euro), come i ricarichi di una lista dei vini non molto accessibile né particolarmente ricca di produttori minori.
Mise en place.
Meravigliosi pani: baguette classica, al pomodoro e pistou, ai cereali, burro aromatizzato al limone. Che ve lo dico a fare…
Foie fritto, maccarello, millefoglie ai funghi, Creme Dubarry (vellutata di cavolfiore).
Zenzero e agrumi, chips di riso.
Insalata di polpa di granchio con seppia alla griglia. Qui c’è una nuance citrica in accompagnamento di gran classe.
Astice in gelatina e spuma di pomodoro su crema di piselli, olio del suo corallo.
Cappuccino di rane e vongole allo scalogno e vin jeaune.
Scampo, rapa, sedano e royale al dragoncello.
Rombo su royale di crostacei…
…accompagnato da squisito potagère de legumes e cannolicchi.
Granita al limone su marmellata di agrumi, un defaticante e adeguato intermezzo.
Stinco di vitello cotto 24 ore, patata schiacciata e divino fondo di cottura.
Tarte al cioccolato e guaranà di alta scuola con sorbetto al cacao e sciroppo di ciliegie.
Petits fours.
Ottimo interlocutore.
Sala interna.
Le bistrot des anges.
Giardino.