Passione Gourmet Dolomiti Archivi - Passione Gourmet

La Stüa de Michil

Un luogo di delizia

Se ci fosse un premio alla piacevolezza complessiva di un ristorante questo andrebbe senza dubbio a La Stüa de Michil, la raffinata e romantica tavola gourmet celata all’interno dell’hotel La Perla (Corvara in Badia, Bz), una delle strutture più affascinanti delle Dolomiti. Una manciata di tavoli, fra le scricchiolanti assi di antiche stües onuste di storia, ove tutto avviene per la placida soddisfazione e l’intimo diletto dell’ospite: dall’educato e franco sorriso dei giovani che accolgono e accompagnano l’avventore; alle luci, soffuse quanto basta; a una carta dei vini (curata da Silvio Galvan) che definire siderale è una diminutio; fino al servizio, attento ed empatico come pochi (nota di merito alle sorelle Valentina e Vanessa Stani e a Diego Holzmann). Ci sono poi due atout che impreziosiscono ulteriormente La Stüa de Michil. Il primo è il padrone di casa, Michil Costa, albergatore-filosofo che ama profondamente le “sue” montagne e che, agli inizi degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso, creando questo “luogo di delizia” a sua immagine e somiglianza, lo ha immaginato come una wunderkammer ove immergersi nel mondo alpino e nella cultura ladina, fra ricordo e meraviglia, fra pensiero e sogno. Il secondo è il cuoco, Simone Cantafio (classe 1986), che, ormai da più di un anno, governa una brigata di cucina, di circa una quarantina di elementi, completamente rinnovata, piena di entusiasmo e voglia di crescere. Nato a Milano, ma di origini calabresi, Cantafio vanta un curriculum di tutto rispetto: Marchesi, Cracco, Niederkofler, Georges Blanc e quindi undici anni con la famiglia Bras, prima a Laguiole e quindi in Giappone, nell’isola di Hokkiado, dove, al comando del ristorante Toya, ha ottenuto le due stelle Michelin.

“L’essenza degli ingredienti

La cucina di Cantafio a La Stüa de Michil, dal tratto assai personale, e già sin d’ora riconoscibile, si basa sostanzialmente su quattro pilastri: la maniacale ricerca delle materie prime, perlopiù di provenienza alpina; la centralità degli elementi vegetali (che non a caso appaiono sempre per primi nella descrizione della pietanza); lo studio dell’«essenza degli ingredienti, al fine di poterli tradurre al meglio nel piatto»; l’approccio fusion che riesce a mediare le tradizioni dolomitiche con i prodotti che giungono dalla Calabria (come per gli emblematici Pomodori verdi al salaturo, fusilloni tiepidi al verde di friarielli, battuta di gambero rosso, jus di sazizza calabra al torchio), e la grande tradizione classica francese con la cucina del Sol Levante (come per il magistrale Cavolo cuore di bue rosolato ai carboni e farcito di oca della valle di Funes, le sue punte in chiffonade alla mentuccia, salsa yuzu kosho). I piatti, anche quelli più complessi (come, per esempio, i Filetti di sogliola nappati al burro e zafferano farciti con funghi finferli e porcini maturati quattro mesi, millefoglie di zucca e spinacino, salsa d’ossobuco in gremolada), sfuggendo il tecnicismo esasperato, paiono prediligere una espressone diretta e immediata: gli elementi sono ben riconoscibili, orchestrati in una attenta armonia interna sostenuta dalle morbidezze (tendenze dolci e grassezza dell’ingrediente principale) e dalle avvolgenze (salse e jus) e vivificata da azzeccati e mai invadenti spunti amari (in genere da clorofilla vegetale: il pomodoro verde, lo spinacino…) e acidi (perlopiù agrumati). Il sapiente utilizzo delle fermentazioni e delle spezie (kimchi, curry, sesamo…) concorre poi ad ampliare la percezione palatale, aprendo il piatto a inaspettate e piacevoli sensazioni fusion, come per esempio, nel centrato Cavolfiore lentamente dorato al curry giapponese, jus di robiola, carpaccio di rombo, noci del Bleggio candite, pane orientale, sesamo. I piatti, in particolar modo i ghiotti amuse-bouche, non sfuggono poi un certo compiaciuto estetismo miniaturizzante che un po’ ricorda, nelle sue ideali torniture, alcune presentazioni tipiche della nipponica cucina kaiseki.

IL PIATTO MIGLIORE: Cavolo cuore di bue rosolato ai carboni e farcito di oca della valle di Funes, le sue punte in chiffonade alla mentuccia, salsa yuzu kosho.

La Galleria Fotografica:

L’illuminato filosofo dei Monti Pallidi

«Perché non aveva radici, seccò».

Matteo, 13, 6.


Così recita il Vangelo nella nota parabola del seminatore. Caduto in un luogo sassoso il chicco, benché germogliato, venne subito bruciato dai raggi ardenti del sole: non aveva potuto sviluppare un apparato che gli apportasse nutrimento. La frase, nelle molteplicità di quelle che Erich Auerbach ha definito come ‘letture figurali’, si presta però a numerose interpretazioni. Religiose e non solo, assumendo laicamente valore a sé se estrapolata nella sua atemporalità di immagine. Ora – visto che in fondo tutto il nostro esistere è ‘prigioniero’ delle parole – vale l’investimento fermarsi un attimo a riflettere: non sul soggetto (il seme) ma sul fatto che quest’ultimo possa essere sostituito da una pluralità di altri soggetti. O situazioni. Insomma, quest’immagine ha una sempiterna validità, monito per chi o cosa non può o non vuole avere una ‘radice’ che porta linfa, che fa germogliare, e quindi crescere e di nuovo creare.

Probabilmente più di qualche riflessione, su questo e su molto altro, l’ha spesa, nel corso dei decenni, una figura singolare, da alcuni ritenuta sin eccentrica: Michil Costa. Fra le sue Dolomiti, nel paese di Corvara, Michil gestisce, insieme a genitori e fratelli, l’albergo di famiglia: il raffinato hotel La Perla. Una tappa irrinunciabile per coloro che amano il bello e il buono. Un luogo in cui – come ama ricordare Michil – non esistono clienti ma ospiti e ove il vero lusso non è in quello che c’è ma in quello che volutamente manca (come, giusto per dirne una, l’assenza del frigobar nelle camere). Scelte mirate e decisioni intenzionali, portate avanti con tenacia perché tese a preservare il più possibile il meraviglioso ambiente dolomitico. Una salvaguardia che, nel pensiero di Michil, deve necessariamente passare attraverso una progressiva consapevolezza ed educazione degli ospiti affinché nulla appaia come imposizione o privazione.

I Monti Pallidi (così sono chiamate le Dolomiti da Karl Felix Wolff nelle sue opere di indagine sulle saghe e sui miti ladini), con le loro vette e le loro crode, benché ancora sostanzialmente intatti, hanno un equilibrio assai fragile. Vanno protette, dice Michil, dal turismo massivo, privilegiando coloro che sono in grado di goderle lentamente. Vanno salvaguardate dal traffico veicolare: da qui la sua proposta di chiudere alle auto e alle moto i passi, almeno per qualche ora al giorno. E vanno destagionalizzate perché in ogni momento dell’anno propongono squarci di bellezza. «Agosto, Dolomite mia non ti conosco» sostiene appunto Michil, invitando a salire in vetta negli altri mesi dell’anno così da evitare assembramenti che l’ecosistema dolomitico fa sempre più fatica ad assorbire.

Come – quindi – il lettore ha intuito c’è un cuore che scandisce, con il suo movimento di sistole e diastole, la vita de La Perla: le montagne. Attorno a esse ruota l’esistenza di Michil e del suo piccolo regno. Da esse, come radici esistenziali, sia l’uno che l’altro traggono nutrimento e stimolo. E germoglio per una continua, rinnovata, vitalità. Ma le radici sono importanti anche a tavola. Perché pure il cibo e l’atto del cibarsi attraverso il tramandamento di usi e costumi sono il precipitato storico di radici che affondano nel tempo. Ma pure di radici ‘ideali’ che ci legano – idealmente, appunto – a quei sistemi valoriali che riteniamo a noi più affini. Così, anche in questo ambito, Michil ha voluto esprimere il proprio pensiero creando una tavola che lo rappresentasse. La sua stüa, quasi nascosta all’interno dell’albergo di famiglia, è un concentrato di quelle radici che lo legano al mondo alpino e alla cultura ladina. Ma è anche un luogo – ed è qui il colpo di genio – ove, grazie a valori come il buon gusto, l’educazione, l’eleganza, la civiltà, ogni ospite può ritrovare parte delle proprie umane radici. Ed è forse proprio in questo che risiede il fascino indiscusso del ristorante La Stüa de Michil, con le sue luci soffuse e i suoi legni antichi del XVI secolo.

La tavola di Michil. E la cucina di Nicola

La lettura dell’escerto evangelico ricordato in apertura, lasciato discretamente sul tavolo, a fianco al candeliere, piuttosto che di un’altra breve riflessione tratta da un filosofo o da uno storico, è il primo atto che l’ospite in genere compie sedendosi a uno dei pochi tavoli finemente vestiti. Con questo gesto, che sancisce l’inizio del viaggio, si spalanca la porta a un vasto mondo di emozioni e gusti tanto che sbaglierebbe chi pensasse a un tour gastronomico ristretto fra il Piz Boè e il Conturines. Tutt’altro. Perché se le radici sono ben piantate nell’humus ladino, la cucina della Stüa de Michil spazia dalla montagna al mare, e dai laghi alle pianure.

Ciò è merito di colui che, dal 2017, guida la brigata del La Stüa de Michil: Nicola Laera. Trentottenne, sguardo franco di chi più che con le parole ama parlare con i fatti, Nicola è nato e cresciuto fra le vette dei Monti Pallidi. Le conosce a menadito per averle percorse in lungo e in largo: facendo fuoripista in inverno, con le pelli di foca. Ed esplorandole in estate, scarponcini da trekking ai piedi e zaino in spalla ove riporre erbe aromatiche e frutti selvatici. Eppure questo giovane (che si è formato nella cucina di Norbert Niederkofler ove ha lavorato per quasi venti stagioni diventando sous-chef del St. Hubertus) ha una seconda radice che lo porta lontano e lo lega ai profumi e ai sapori della Puglia, regione d’origine del papà (per molti anni cuoco dell’hotel Ciasa Salares nonché “levatore” dei primi passi di una neonata La Siriola).

Equilibrio e contrappunti

La cucina di Nicola Laera è complessa nella sua stratificazione di lettura. È un incrocio di reminiscenze e suggestioni che si muovono dalla montagna al mare e viceversa. Ha ben presenti le basi classiche dell’alta cucina (come accade nel suo soufflé con caramello salato e gelato alla vaniglia, uno dei migliori soufflé che si possano gustare, ora, in Italia) ma pure maneggia con disinvoltura – per fortuna senza eccessi – le tecniche più contemporanee, tese alla ricerca di quella vivificazione del gusto ora più in voga. Inoltre – ma non potrebbe essere altrimenti considerata la presenza di Michil – utilizza materia prime (anche preziose, come crostacei, molluschi, fegato grasso, caviale…) di eccelsa qualità, privilegiando quando possibile produttori locali.

Costruiti attorno a un ingrediente principale, i piatti di Laera vivono di contrappunti: gli elementi (mai più di quattro) sono infatti accostati fra loro con una sensibilità che pare quasi rasentare l’istintività. Ma, in realtà, non è così: la mano del cuoco è guidata da salda e meditata conoscenza. Benché sfuggano le asperità, viaggiando su alti livelli di rassicurante, classica rotondità, in ognuno di essi è lasciata con sapienza cadere una nota dissonante e vivificante.

Talvolta può essere una spezia (come lo zafferano che accompagna il minestrone a specchio della variazione di gambero rosso: crudo, le sue zampette fritte, la maionese fatta col suo carapace). Talaltra può essere una punta di acidità (come nel magistrale risotto all’aglio orsino con ostrica, cipolla e limone). Altre volte, ancora, una sensazione amara (come nel caso di quella data dallo spinacio selvatico Buon Enrico che scorta la succulenta coda di manzo brasata con lumache alla vaccinara e pinoli). Il risultato è che ogni pietanza appaga senza stucchevolezza. I gusti rotondi soddisfano senza stancare. E il palato è pronto per la portata successiva.

In carta pesce e carne convivono senza costrizioni: senza steccati ideologici posti da finti km0 o da tradizioni da rispettare in modo filologico. Tutt’altro. Le radici si incontrano, affondando i loro rizomi nel profondo, in un orizzonte di contemporaneità e germogliano piatti come l’ottimo trancio di storione con sanguinaccio, mela verde e foie gras affumicato. O le altrettanto grandiose lumache del Gran Sasso con caviale di trota fumé, burro acido e olio al prezzemolo (indubbiamente uno dei signature dishes di Laera). O i mediterranei mezzi paccheri con ricci di mare, sgombro, aglio nero, Marsala e cacioricotta pugliese.

Ma non è tutto. Una esperienza a La Stüa de Michil è, infatti, anche altro. L’ospite se ne accorgerà appena seduto. Mentre l’assito secolare scricchiola sotto il passo di un servizio fra i più sorridenti d’Italia. Mentre la luce, da basse piattine, squarcia ombre piene di mistero. Mentre alcuni specchi giustapposti dilatano, proditori, lo spazio raccogliendo i riflessi del candore del tovagliato e degli argenti. Ebbene, se ne renderà conto quando a tavola, a inizio pasto, giungerà il momento di scegliere il vino. Se si volesse essere banalmente materialisti (ma come certo si è capito non è La Stüa de Michil il luogo più adatto per esserlo) può esser sufficiente questo dato: la carta dei vini è un in-folio di novanta pagine scritte in caratteri fini fini. C’è tutto? No. Ma quasi: per ogni gusto, voglia e tasca. Nonché uno fra gli assortimenti più intelligenti d’Italia dove le etichette sono, perlopiù, di produttori noti, di chiaro valore e di riconosciuta capacità. Il suo intento? Quello di fare bere bene, stappando bottiglie di soddisfazione certa, a prezzi corretti.

L’escerto è stato letto. La bottiglia stappata. Che il viaggio alla scoperta delle radici abbia inizio…

La Galleria Fotografica:

Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

La galleria fotografica:

“Siamo una squadra fortissimi”, a San Cassiano

Il titolo può far sorridere, ma sottende una verità neanche molto nascosta di grande profondità. Lo chef Norbert Niederkofler è un grandissimo scopritore di talenti e un allenatore fantastico, paragonabile a Josè Mourinho per intenderci. Dopo la massima investitura, invece di rinchiudersi in autocompiacimento egotico ha intelligentemente esaltato e amplificato le sue doti di capitano e uomo squadra. Con tanta intelligenza e umiltà. E, al St.Hubertus, ha creato attorno a sé una squadra di tutto rispetto sia in sala che in cucina. Tutti giovanissimi, tutti agguerriti, tutti molto preparati. E, sotto la sua ala protettrice, li sta facendo crescere a dismisura dando loro libertà d’azione, consigli, metodo, esperienza, e pure un filo di controllo.

St.Hubertus: cook the mountain

Il risultato? Semplicemente eccezionale. Al fianco della sua esperienza, del suo talento e della sua conoscenza uno stormo di idee fresche, di stimoli innovativi, di energia positiva. Che traspare nei piatti così come nel servizio. La filosofia “Cook the mountain” è stata estesa e potenziata e, di fatto, ogni anno subisce un’accelerazione improvvisa e intensa. Piante, fiori, erbe e radici spontanee la fanno da padrone in piatti in cui regna sovrano l’ingrediente autoctono. Le preparazioni si fanno sempre più intense e pervasive e, pur trattandosi di un ristorante che deve accontentare i palati più disparati, non ci scorderemo tanto facilmente della nota amaricante dei Ravioli e buon enrico, ovvero con lo spinacio selvatico: un colpo da maestro che fa lievemente impallidire, ma non soccombere, il Cuore di vitello con una salsa magistralmente acida, vegetale ed intensa e una Alzavola selvatica da tripla capriola carpiata.

L’immensa Tartare di coregone, ancora migliorata ed evoluta, e l’Insalata di montagna, cangiante e profonda come non mai, sono il contraltare degno di una pasticceria e una panetteria che, dopo il congedo del grande talento di Andrea Tortora, non ci saremmo aspettati essere così rilevanti e interessanti. Un ristorante che, oggi, conferma la sua valutazione in pieno, pronto prossimamente, se continua così, a traguardi ben più importanti. Anche perchè questa filosofia e questo intenso profumo pervadono tante preparazioni in momenti differenti della stagione. Tanti piatti cambiano in continuazione.

I due dessert Latte di capra, fragole e rabarbaro e fior di castagno e ricotta di capra, ci hanno colpiti ed affondati totalmente. Quest’ultimo, soprattutto, moderno, fresco ma con una profondità gustativa e una nota tannica davvero formidabili.

Quanto al pane, la nuova varietà è morbida e croccante, intensa ma rotondamente golosa. Non resta dunque che fare un plauso al capitano in testa, Michele Lazzarini e al nuovo pastry chef Diego Poli, nonché al grande sommelier Lukas Gerges e al suo fido braccio destro Giovanni Mingolla.

Ecco quindi perché il St.Hubertus è una “squadra fortissimi”!

La galleria fotografica:

Un grandissimo ristorante che merita l’eccellenza assoluta, in val Badia, a San Cassiano

Norbert Niederkofler ha appena ricevuto il più alto riconoscimento che uno chef possa desiderare. È stato insignito delle tre stelle Michelin con il ristorante St. Hubertus presso cui lavora da tempo, da quel lontano 1996, anno in cui la famiglia Pizzinini, proprietaria di uno degli alberghi più belli ed eleganti dell’Alta Val Badia, l’Hotel Rosa Alpina, ha deciso di trasformare parte dell’allora pizzeria in questo ristorante gioiello che, con il tempo e la fatica, ha raggiunto l’ambizioso traguardo.

Niederkofler da questo bellissimo ristorante alpino ha da sempre trasferito il suo messaggio, oggi ancora più intenso e vibrante, sotto lo slogan di “cook the mountain”. Quello che si cerca di fare è valorizzare al massimo i prodotti straordinari dei dintorni e di costruire una cucina tutto sommato a Kilometro zero. Intento che riesce quasi al 100%, tranne qualche piccola ma necessaria divagazione, per ovvi motivi di reperibilità. Ma ciò che più importa, al di la degli slogan e dei tentativi più o meno riusciti di appiccicarsi addosso una filosofia, è il risultato al gusto, al palato, di questo ristorante e dei suoi piatti, che ci ha lasciati letteralmente stupiti.

Il pane finito di cuocere e portato al tavolo fumante …

Diciamo innanzitutto che Norbert ha lavorato duro tutti questi anni per arrivare a costruire anche e sopratutto una squadra, una brigata di eccezione, in cui le sue punte di diamante sono certamente il sous chef Michele Lazzarini e il pastry Chef  Andrea Tortora. Due fuoriclasse, potremmo definirli i Ronaldo-Messi del team, che hanno certamente portato una gran ventata innovativa alle idee, ai piatti e alla cucina del cuoco altoatesino. E tutto qui permea di giovane e frizzante nonché elettrizzante bontà.

Dagli amuse-bouche, ai piatti principali, in cui ci hanno colpito la lingua e una straordinaria Trota alla mugnaia rivisitata, un Piccione strepitoso – una delle poche concessioni non a kilometro zero – e poi che dire degli strepitosi dolci, una Tarte tatin antologica, accompagnata da un gelato alla crema che ci ha fatto saltare in piedi sulla sedia. Con dolci a seguire decisamente moderni, pensati e realizzati da un grandissimo pasticcere.

Il piatto della serata, didascalico e perfetto, la Tartare di Coregone con fiori e erbe di montagna, impreziosito da brodo di pesce e levistico, con il perfetto tocco di acetosa e le squame fritte a donare croccantezza. Un piatto magistralmente realizzato ed eseguito ad esempio della filosofia dello chef.

Completa il quadro un servizio giovanissimo, che ci è piaciuto davvero tanto nella sua elegante informalità ma anche nel suo dinamismo elevato, che ha scontato qualche ingenuità di troppo, forse non perdonabile a questi livelli, ma che ci sentiamo di assecondare e incoraggiare sia per la pronta reazione di spirito che l’ha seguita, sia perché questa squadra così giovane ci ha fatto davvero divertire tanto, e ci ha comunque coccolato e seguito con attenzione. Particolare menzione al giovane sommelier che ci ha consigliato una bevuta tutt’altro che scontata, intrigante e divertente. Bravi davvero, lunga vita al St. Hubertus!

La galleria fotografica: