Abbiamo atteso un ragionevole lasso di tempo prima di venire a trovare Viviana Varese qui, nella sua nuova sede al terzo piano di Eataly Smeraldo, consci degli sconvolgimenti che un trasloco del genere può comportare.
Una location davvero d’effetto, un grande salto rispetto alla minuscola vetrina affacciata in via Adige, sede storica da dove è partita la favola di Alice.
Alice che ora sembra proprio essere approdata nel paese delle meraviglie, qui all’interno dello store più chiacchierato in città, sicuramente luogo di perdizione per tutti i foodies, milanesi e non.
Nonostante l’ingresso avvenga attraverso il negozio, i due ambienti rimangono totalmente separati. Una volta varcata la porta che li divide, ci si accorge subito che dal punto di vista progettuale proprio nulla è stato lasciato al caso. Splendida la cucina, affacciata maestosamente sulla sala che, grazie all’intera facciata a vetri, a pranzo gode di un’eccezionale luminosità. Notevole anche l’arredamento del locale, così come l’allestimento dei tavoli e l’imponente social-table al centro, senza dimenticare la magnifica vista su piazza XXV aprile, da poco restaurata. Non ultimo la bella cantina a vista, completamente rinnovata e arricchita rispetto al passato.
Aumentando le ambizioni, anche il personale è ovviamente cresciuto nel numero, tanto in cucina quanto in sala, ove fin dai primi momenti si nota un servizio dal livello sensibilmente migliorato.
Per quanto concerne invece la cucina, la Chef ha da sempre la fortuna di disporre di una materia prima di alta qualità, selezionata dall’abile Sandra che, negli anni, è sempre riuscita a mantenere standard elevati. Materia elaborata poi dalla Varese e dal suo imprinting caratteristico, sempre presente in tutti i suoi piatti. Nel tempo ha saputo parametrare e dosare al meglio i gusti e le sapidità degli stessi, riuscendo a trovare un equilibrio più che accettabile. Ulteriore caratteristica della cucina della Chef è l’aspetto cromatico, protagonista assoluto di tutto il menù di Alice: il colore la fa da padrone, grazie anche alle onnipresenti frutta e verdura, in ogni creazione.
Ma, come diceva il grande Marchesi, un piatto oltre che bello deve essere anche buono, e qui purtroppo non riusciamo a trovarci sempre in sintonia con il pensiero della chef, non senza un pizzico di rammarico perché, inizialmente, molti dei piatti in carta paiono interessanti, ma non si riveleranno tali una volta materializzati in tavola.
E ciò è un vero peccato, soprattutto perché una materia prima di tale qualità meriterebbe una maggiore valorizzazione, che non vuol necessariamente dire sovraccaricare un piatto di ingredienti anzi, al contrario, spesso è bene cercare di esaltare l’elemento principale, attraverso l’uso chirurgico di ingredienti accessori, atti a farlo risaltare.
Non solo sovrabbondanza di ingredienti ma anche di porzioni, che spesso ci sono sembrate esagerate, tanto che non sempre siamo riusciti a terminarle.
Se abbiamo trovato interessante, ad esempio, il tributo a Marchesi nel menù, con il raviolo aperto rivisitato, non possiamo dire lo stesso per altri piatti, ispirati anch’essi ad altri grandi maestri della cucina, spesso dall’interpretazione non particolarmente azzeccata o compiuta.
Ci auguriamo che con il tempo Viviana ritrovi quella completezza -di pensiero e gustativa- che ancora, a nostro avviso, le manca. Probabilmente sarà necessario mettere da parte quel pizzico di “voglia di strafare” chiaramente percepibile nei piatti, comprensibilmente causata dall’ambizioso salto e dalla relativa pressione mediatica e sovraesposizione al pubblico, per tornare a cercare in primis di valorizzare la materia, senza compiacimento alcuno.
Siamo certi che, attraverso la medesima determinazione che l’ha portata insieme a Sandra fin qui, non le sarà difficile ottenere dei tangibili miglioramenti nel breve. Attualmente non ci è possibile affermarlo ma, se i passi avanti fatti per ambiente, sala e servizio avverranno anche in cucina, il futuro di Alice non potrà che essere… meraviglioso.
Mise en place e vista globale del locale.
Il pane, molto buono.
Amuse-bouche: pacchero fritto con mousse di parmigiano ed erba cipollina, frittelle di pasta cresciuta di salicornia, hummus di semi di sesamo e ceci, bouquet di insalate con crema di pistacchio e granella di pistacchio.
Passion: ostrica con centrifugato di cetriolo, granita di mela verde e sfere di panna acida e frutto della passione ghiacciati.
Apertura niente male, con un bel gioco acidità e di temperature a dare il via alle danze.
Che-li-amo: astice intero alla catalana con variazione di pomodori, salsa di peperone, spuma di acqua di pomodoro.
Uno dei piatti che ci è piaciuto di più.
Tonno subito: carpaccio di fassona con tonnata, insalatine aromatiche, verdure all’agro e capperi.
Questo invece è un piatto che non ci ha convinto molto: troppo abbondante la porzione, con le verdure, tagliate grossolanamente, che andavano a coprire completamente la carne, senza trovare un legame.
Quadro di pasta: insalata di riquadri di pasta con pesce, crostacei, verdure fresche e sottaceti.
Questo è il piatto che ci è piaciuto meno di tutti, che purtroppo proprio non funziona. Gli ingredienti restano completamente slegati fra di loro, rendendo difficile anche solo terminare il piatto.
Verde brillante: linguine ai ricci di mare con burro di manteca, clorofilla di prezzemolo e peperoncino.
Bello e buono, questa è la Varese che piace a noi. Attenzione solo a non sporcarvi… è un attimo.
Sotto l’ombra di un ravanello: trancio di ombrina con centrifugato di ravanello, salsa di yogurt, crema di barbabietola, lardo di cinta senese battuto.
Non male anche se forse qui ci sarebbe voluto un piatto con un guizzo in più, ma soprattutto qualche ingrediente in meno.
L’albicocca in un campo di mais: gelato al mais, chicchi di mais affumicato, salsa e spugna all’albicocca, albicocca semi candita e pop corn caramellati.
Benché possa sembrare, in prima lettura, un dessert pesante, si rivelerà invece un piatto gradevole e rinfrescante.
Mela al mirtillo, ananas al lampone e pera al passion fruit.
Non sempre quello che mangi è ciò che sembra: un bel gioco di fine pasto, di chiara ispirazione Alajmo.
Certe volte è meglio fare poche cose fatte bene piuttosto che molte fatte male.
Purtroppo quello del “molto” era il leitmotiv di molti ristoranti di Milano durante i favolosi anni ottanta, con menù enciclopedici e una qualità della materia prima mediocre, a cui seguiva un’altrettanta sommaria esecuzione dei piatti.
Negli ultimi anni per fortuna il trend si è interrotto e contemporaneamente si è assistito alla nascita di ristoranti specializzati in un ingrediente o in un alimento.
E’ il caso appunto de “La Griglia di Varrone”, ristorante già presente a Lucca e sbarcato da poco più di un anno a Milano, nella zona della movida di corso Como.
Con grande coraggio sono stati eliminati dalla carta i primi piatti (scelta più che motivata per un ristorante del genere), specializzandosi appunto nei soli piatti a base di carne.
La Griglia di Varrone non punta a prodotti o produttori a chilometro zero, ma ad una selezione delle migliori carni provenienti da varie parti del mondo, una su tutte il famoso e raro manzo Wagyu, proveniente dal Giappone e vittima purtroppo di tante imitazioni.
Ecco che la ricerca della materia prima di qualità, unita a metodi di cottura semplici e non invasivi come la griglia (con la brace ovviamente) o il forno del mitico Paolo Parisi, permettono di portare in tavola prodotti di gran livello.
La Griglia di Varrone è un ottimo esempio di ristorante materico per eccellenza, e la passione con cui il patron Massimo Minutelli gestisce il locale è la dimostrazione pratica della famosa frase di Walt Disney: “se ci credi ci puoi riuscire”.
Già dagli antipasti si capisce che alla base di questo progetto c’è una gran ricerca nella selezione del prodotto. Ecco quindi la collaborazione con importanti produttori, che tutti noi conosciamo bene (come Paolo Parisi, Massimo Spigaroli, Joselito, Guffanti, Oberto) che assicurano la bontà e la qualità della materia prima.
Il menù come detto offre una buona scelta di tagli di carne provenienti da varie parti del mondo: potrete scegliere tra il Black Angus U.S.A. e quello australiano, il Kobe dal Giappone, la Fassona dal Piemonte per proseguire con la pluma di Pata Negra Joselito, l’agnello di razza aragonese e persino il bufalo (molto magro e ad alto valore proteico). Completa la carta una bella selezione di Hamburger.
Fra i tagli più interessanti e saporiti abbiamo assaggiato l’entreña, un taglio di manzo proveniente dal laterale del diaframma e il The King, filetto con osso da 500 gr di Angus USA.
La carta dei vini comprende una buon selezione di etichette con Toscana e Piemonte in testa ovviamente, ma ci aspettiamo di vedere qualcosa in più in un futuro non lontano.
La carta dei dessert è decisamente essenziale ma come abbiamo già detto, qui si viene per la carne.
Il locale è certamente modaiolo (del resto è la zona stessa a richiederlo) ma l’ambiente è piacevole e si sta bene, benché quando il ristorante è a pieno regime il rumore generale sia un po’ fastidioso.
Astenersi chiaramente vegetariani e vegani.
La vetrina con i vari tagli di carne e dietro la griglia, cuore nevralgico del ristorante.
La mise en place.
Il cestino del pane, di buona qualità.
Fiore di zucchina con burrata e acciughe del mar Cantabrico.
Prosciutto cotto di Paolo Parisi con giardiniera di verdure.
Jamon Joselito Gran Reserva 2009, umami allo stato puro.
Tris di tartare: con foie gras e confit di cipolle, olive e pinoli, burrata e pesto al basilico.
Tagliata di bufalo.
Entreña e picanha, entrambe morbide e saporite. Cottura perfetta.
Cipolla rossa cotta nella cenere.
Verdure cotte nel forno di Paolo Parisi.
Gelato alla vaniglia, per finire in docezza.
Passione, capacità di selezionare gli ingredienti, onestà intellettuale, caparbietà: sono queste solo alcune delle caratteristiche del bravo restaurant man, ben rappresentato da Enrico Buonocore, patron di Langosteria 10.
In poco più di sette anni ha fatto crescere questo ristorante, portandolo ai vertici della ristorazione meneghina come uno dei (se non “il”) migliori locali di pesce della città.
Certo ci vuole una gran conoscenza della materia prima per acquistare bene (cosa che Enrico ha sempre avuto), ma poi è necessario un vivo spirito imprenditoriale, la squadra giusta intorno e un pizzico di fortuna. Da bravo patron è riuscito a fare emergere il gruppo per intero, senza mai dover dipendere da un solo uomo in cucina.
Il locale, in zona Porta Genova, è chic ed elegante ma senza eccedere nello sfarzo, perché qui il vero lusso è ciò che arriva nel piatto e nel bicchiere: Langosteria 10 è una delle Ambassade della maison Krug (ce ne sono soltanto tre a Milano), e ciò la dice lunga sulla carta dei vini, con un’ampia e accattivante scelta di Champagne che non vede protagonisti soltanto i soliti noti, ma anche una bella carrellata di piccoli produttori a prezzi più che abbordabili.
Ma qui si viene innanzitutto per assaggiare i grandi crudi di pesce: a partire dalle ostriche, con una scelta veramente completa, continuando poi con scampi, gamberoni, bulots, tartufi, clams, mandorle di mare, carabineros, tartare e carpacci, per arrivare poi a prelibatezze più rare, come i ricci o i percebes, i crostacei di origine galiziana.
Potrete scegliere quello che preferite a comporre il vostro personale e quanto mai scenografico Plateau Royal, che arriverà al tavolo accompagnato dalle salse e dai dressing classici, in perfetto stile francese.
Siccome l’appetito vien mangiando si può proseguire alla grande con i primi, volendo anche con un semplice spaghetto al pomidoro (si, con la i), che qui sanno fare molto bene. E poi come non assaggiare il Re dall’Alaska, il King Crab che, alla griglia o al vapore, forse riesce ad essere più buono pure dell’aragosta, anch’essa ovviamente sempre disponibile.
Insomma qualunque sarà la vostra scelta in carta cadrete certamente in piedi, perché Langosteria 10 è una “portatrice sana” di prelibatezze ricercate e uniche.
Negli anni inoltre il patron Enrico è andato a migliorare, da vero perfezionista, tutti quegli aspetti che meritavano attenzione oltre la materia prima, uno su tutti il servizio in sala e la differenza, per chi ha seguito questa avventura sin dai suoi esordi, è evidente.
Di recente è stato ultimato anche un restyling generale all’ambiente, ed è stata creata una nuova zona, in fondo al locale, in grado di assicurare maggiore privacy: un oyster bar ed un cocktail bar, luogo di perdizione dove degustare Krug à-la-flute, mangiare ostriche e fumare un sigaro, una sorta di moderno girone dantesco dedicato a golosi e lussuriosi.
In casi come questo il rovescio della medaglia, che non permette al giudizio di “spiccare il volo”, è il circoscritto operato della cucina, che si limita intelligentemente a non rovinare la preziosa materia, e alla conseguente staticità della proposta, certo varia ma assolutamente costante nel tempo. Ma tutto ciò non è necessariamente un minus: se non conoscevate “la Langosteria” allora andateci al più presto, se invece già lo conoscete tornateci per scoprire le novità.
Non mancate infine di consigliarlo perché non farete mai brutta figura, da qui si esce contenti, con la voglia di tornare presto.
Un tavolo del ristorante, dalle corrette dimensioni ed illuminazione.
E ti senti subito “King of the World”: salmone Sockeye dell’Alaska con marmellata di cipolle rosse e crostini al burro. A seguire lingottino di salmone Balik Zar Nikolaj con il suo caviale. Già potreste toccare il paradiso con un dito.
Un dettaglio del salmone Balik Zar Nikolaj: tornare indietro sarà difficile.
Scampi, gamberi rossi e bulots, ovviamente freschissimi.
Acciughe dissalate del mar Cantabrico con crostini al burro. Un classico, qui però a livelli eccellenti.
Tagliolino con scampi crudi e cotti e fiori di zucca. Piacevole il contrasto con lo scampo crudo, che tende comunque a cuocere lievemente con il calore della pasta.
Il mitico King Crab cotto alla griglia con verdure. Mai come in questo caso è la materia prima a parlare, e riesce a farlo benissimo.
Carabinero alla griglia.
Le “mitiche” chips della Langosteria, questa volta però un po’ sottotono rispetto al solito standard.
La millefoglie: solo un po’ pesante la sfoglia, che preferiremmo più sottile ed eterea, ma molto buona la farcitura.
I cannoncini con la crema, che a questo punto del pasto sono una sfida anche per i più audaci.
Piccola pasticceria a fine pasto, decisamente migliorabile.
Elio Sironi da circa un anno è tornato a Milano e la cosa non è certo passata inosservata. Ci aveva abituato bene nelle cucine dell’hotel Bulgari della città e, dopo una breve parentesi sarda, ha preso in mano le redini del nuovo ristorante all’ultimo piano del quartier generale di Dsquared, in zona porta Volta.
Impossibile non parlare di questa spettacolare e unica location, più newyorkese nell’aspetto che milanese.
Complici il panorama, con la nuova skyline di grattacieli mai esistita prima, e le due scenografiche piscine esterne ai lati del ristorante, ti aspetti da un momento all’altro di vedere Carrie Bradshaw di Sex and the City spuntare da dietro l’angolo con un Cosmopolitan in mano.
Ambiente sofisticato, atmosfera Bobo-Chic e pubblico ultra modaiolo sono gli ingredienti che hanno permesso al Ceresio 7 di imporsi, a un anno dall’apertura, come uno dei locali più gettonati della città, totalizzando quasi sempre il tutto esaurito.
Milano si sa, come capitale indiscussa della moda, non è nuova ad aperture di questo tipo, ristoranti nati come spin-off delle case di moda che vedono in questo tipo di business non solo un luogo di prestigio e di rappresentanza dove accogliere i propri ospiti, ma anche la possibilità di reinvestire i grossi utili generati con il loro core business.
Purtroppo però questo genere di locali sono sempre stati (e lo sono ancora nella maggioranza dei casi) deludenti e carenti sia sulla qualità della materia prima che sulla cucina, per non parlare del servizio.
Invece, a un anno dall’apertura, possiamo affermare che il Ceresio 7 è riuscito senza dubbio a sfatare il mito che non si potesse avere un ristorante di questo taglio con una cucina di qualità e un servizio di un certo tono. Il merito è senza dubbio di Elio Sironi che, con un grande bagaglio di esperienza alle spalle, insieme ad uno staff giovane ma molto professionale, attraverso un lavoro encomiabile, è riuscito là dove quasi tutti hanno fallito.
La carta studiata dallo chef è divertente, mai sofisticata come del resto richiede la clientela di questo tipo di ristorante.
I prodotti sono di grande qualità, lavorati il minimo possibile. Niente di eccessivamente elaborato.
Qui si viene per cenare ma non solo; si può prendere un aperitivo ma anche venire per il dopo cena sicuri di trovare sempre la compagnia giusta. Una bella carta dei coctkail e dei vini completano il quadro che ovviamente non è a buon mercato ma nessuno dei clienti di questo ristorante si aspetterebbe il contrario.
La mise en place
Il pane e la foccaccia fatti in casa
Abbiamo deciso di iniziare con il grand buffet a tavola che cambia ogni giorno secondo la fantasia dello chef. Per noi: tartare di salmone, capperi e guacamole in sfoglia, crudo di tonno e carciofi, salicornia e bottarga di muggine, calamaro alla plancha e insalata cotta di porcini, centrolofo agli agrumi e puntarelle all’acciuga e culatello Spigaroli con melone. Chi ben comincia…
A seguire abbiamo provato le linguine all’astice peperoncino e zucchine in fiore
Di secondo il pesce sulla brace olio e fior di sale
Ai dolci ci saremmo aspettati qualcosa di più; noi abbiamo scelto Opera cioccolato e caffè.
Se davvero esiste una quarta dimensione, ci piace credere che essa possa manifestarsi varcando la soglia del ristorante Le Louis XV di Monaco.
L’Hotel de Paris di Monaco è un luogo non luogo ai confini della realtà e il ristorante di Alain Ducasse, che si trova al suo interno da ben 25 anni, ne segue le orme.
Pranzare o cenare qui è una vera e propria esperienza che tutti, prima o poi, dovrebbero fare, perché arricchisce dentro e resta per sempre nel cuore.
“L’ambience”, come lo definiscono i francesi, è veramente unico: sfarzoso, fuori dal tempo e dalla vita che scorre al di fuori di questo pezzo di storia. Una sorta appunto di quarta dimensione che ti fa sentire lontano anni luce da chi sta solo al di là di quelle vetrate affacciate sulla stupenda piazza del Casinò. Si ha la sensazione di essere entrati in una sorta di macchina del tempo che ti catapulta in un’epoca che, ahimé, non tornerà più.
Tutto all’interno del ristorante scorre più lento, ma in armonia, come in una sinfonia di un grande compositore.
Dal momento in cui si viene accolti a quello in cui si viene congedati alla fine del pasto ci si sente un re e il merito è tutto dello staff che è veramente straordinario. Ecco che viene fuori tutta l’importanza della sala e del suo personale, perché quando il servizio, come qui, è di altissimo livello, ne beneficia anche la cucina benché essa sia già sublime.
Ogni tanto è bello esigere ed avere il massimo sotto ogni aspetto: materia prima, servizio, cantina, ambiente – TUTTO.
Tornando al nostro pranzo sarete viziati da subito con il carrello del pane che non dimenticherete facilmente e dal burro 100% panna che vi verrà servito sia in versione naturale che demi-sel.
A pranzo al Louis XV oltre alla carta tradizionale c’è un menù del giorno che noi abbiamo voluto provare.
Abbiamo così assaggiato le verdure in pinzimonio con un’emulsione a base di olive, giusto per preparare il palato. Una specie di warm-up.
Poi è cominciato il divertimento con degli straordinari ravioli di foie gras con zucca e castagne del Piemonte. Contrasti perfetti. Cotture divine.
La sinfonia è proseguita con un branzino all’amo del Mediterraneo (fuori menù) con finocchio, radicchio e agrumi.
Non contenti abbiamo voluto assaggiare la sella di daino con pepe e ginepro, polenta gratinata e barbabietola all’agro. Cottura perfetta.
Tre piatti straordinari, che sono tali non solo per la qualità dei prodotti e per le cotture perfette, ma anche per quelle salse che i francesi sanno tirare in modo sublime e sanno rendere un piatto già perfetto eccezionale. E’ ovvio che qui si viene a provare la più classica delle cucine fatta in modo ineccepibile, ma cos’altro potrebbero fare o cambiare? Nulla. Punto.
Se non foste già satolli ecco arrivare in pompa magna il carrello dei formaggi. Vero capolavoro per gli appassionati del genere. Unico a rappresentare l’Italia: il Parmigiano Reggiano. Ma non siamo qui per questo.
Prima del dolce ci sarà, come è giusto che sia in queste occasioni, il cambio del coperto con nuovo sottopiatto, posate e tovagliolo. Altrimenti che sovrani sareste!
La nostra scelta è caduta ancora una volta sul babà al rhum scelto fra vari Rhum da uno strepitoso vassoio dove non avrete che l’imbarazzo della scelta. Il babà arriverà al tavolo in pompa magna, tagliato in due davanti ai vostri occhi, innaffiato di rhum e accompagnato da panna montata. Di più a noi non verrebbe in mente.
Come non spendere due parole sulla straordinaria qualità della piccola pasticceria e cioccolatini di fine pasto. Qualità come sempre estrema.
Per terminare il lauto pasto potrete scegliere dall’apposita carta fra diverse varietà di caffè, di tè o di tisane fresche preparate in infusione al Vs. tavolo scegliendo da un intero carrello di piante fresche.
E se tutto questo sogno fosse vostro per soli 145€, non ci penseremmo due volte a partire subito in direzione di Monaco.
Il tempo al Louis XV sembra essersi fermato. Oggi, come venticinque anni fa, si viene qui per avere delle certezze che inevitabilmente vengono sempre confermate. E come sempre bisogna dire “chapeau M. Ducasse”. Ristoranti del genere si possono contare sulle dita di una mano.
A ottobre inizieranno i lavori di ristrutturazione dell’Hotel de Paris che dureranno qualche anno per rendere questo monumento dell’hotellerie mondiale veramente immortale, rilanciandolo nel futuro, ma tranquilli, il Louis XV sarà sempre lì ad accogliervi non curante del tempo che scorre solo per noi comuni mortali.
E ora di svegliarsi e di tornare in questa dimensione purtroppo!
Sagge parole di Alain Ducasse che molti chef hanno dimenticato.
Il vino scelto fra quelli proposti nel menù di mezzogiorno: Chateau Mont-Redon 2011 Lirac – M.Abeille-Fabre.
Affresco al centro del soffitto della sala.