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Piazza Duomo

Da dove iniziare per raccontare l’ennesimo strabiliante pranzo dal grande Enrico Crippa? Forse, per noi che abbiamo la pretesa di fare critica gastronomica assegnando dei voti, una strada potrebbe essere quella di partire da un numero.
Diciannove.
Quasi il massimo per PG. Anzi il massimo, dal momento che abbiamo deciso, per adesso, di lasciare inutilizzata la casella con il Venti. Cosa spinge un critico ad assegnare il massimo? Com’è un ristorante da Diciannove? Non è facile spiegarlo ma ci proviamo partendo da cose concrete, isolando tre piatti monumentali della nostra ultima esperienza.
Piatti non solo buonissimi, ma emozionanti. Ecco il Diciannove. L’emozione. Che ti accompagna anche nei giorni successivi in cui ti capita di ripensarci e ti tornano in mente sapori, sensazioni.
Diciannove.
Insalata di uova e uova. Ma che volete che siano due foglie di insalata? Piatto fenomenale, di rara eleganza, assoluta nettezza di sapori, esorbitante freschezza. Presentato da Crippa durante l’ultima edizione di Identità Golose, già si era capito che era stato concepito l’ennesimo capolavoro.
Diciannove.
Cavolfiori e animelle. Due caratteri assai difficili per il matrimonio del secolo. Piatto incredibile.
Diciannove.
Famolo strano? Ma no, facciamo un Risotto. Alla Piemontese. Da Diciannove. Salsa di fegatini, brodo di castagne, polvere di capperi, qualche porcino e una spruzzata di cacao. Semplice no? NO!
Per il resto solo una serie di piatti eccezionali, perfetti, con ben impressa la cifra stilistica del loro creatore.
Perché Diciannove significa anche cucina d’autore, in cui deve essere ben riconoscibile lo stile del cuoco.
Che nel caso di Enrico Crippa risiede nel sapiente e frequente uso degli elementi vegetali e floreali (questi ultimi reali o anche solo disegnati), nel rigore stilistico tutto marchesiano in quell’essenzialità per cui in un piatto è sempre meglio togliere che aggiungere fino ad arrivare ad esaltare l’Ingrediente che è al centro di tutto, in quel senso estetico, quel gusto marcatamente orientale che Crippa si porta dentro sin dalla sua fondamentale esperienza in Giappone.
Ma non basta avere uno stile riconoscibile e originale. Bisogna anche saperlo declinare in forme e modi diversi. Saper toccare differenti corde, con piatti che raccontano storie mai uguali. Non cadere mai nella monotonia. Non limitarsi mai a replicare se stessi.
Quanti pranzi in un pranzo al Piazza Duomo.
C’è l’omaggio al territorio delle Langhe con la crema di patate e tartufo bianco a cui viene aggiunto, immancabile, un pezzo di Oriente, il Tè affumicato Lapsang Souchong.
C’è la tradizione reinterpretata con grande tecnica ed originalità nel Cotechino racchiuso in un boccone e nel “bis di primi” Cannelloni e Malfatti di ricotta e bietole, in cui della pasta c’è solo la sensazione.
C’è l’Ingrediente assoluto in una fantastica Insalata di funghi e tutta l’essenziale eleganza di ispirazione marchesiana in un piatto come Rape e salsiccia.
C’è la Francia nella Torta di mele e indivie, che al gusto rimanda fortemente alla tarte tatin arricchita dall’indivia caramellata tanto presente nella cucina d’Oltralpe.
Non può mancare, poi, l’omaggio all’amato Giappone in un altro dessert: Caco, castagne e cardo.
Potremmo continuare ma rischieremmo di annoiarvi e di farvi perdere inutilmente tempo.
L’unica è venirci.
Almeno una volta nella vita.
Piazza Duomo: Diciannove.
Lunga vita al Samurai di Langa.
Ad Majora

L’insuperabile sequenza degli appetizer. Un vero e proprio festival di tecnica e sapori. Amaretto e Umeboshi.
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Gauffre di parmigiano.
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Nuvola di cioccolato.
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Finto peperone.
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Foie Gras e Ginger.
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Rape marinate.
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Sgombro e Alghe.
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Spugna ai porcini.
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Si parte davvero. Con una splendida Tinca in carpione.
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Insalata di funghi.
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Insalata di uova e uova: l’insalata è rosolata in un burro aromatizzato alla salvia. Quindi caviale, tuorlo d’uovo e panna acida.
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Capesante Ricci di mare e Pecorino.
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Rape e Salsiccia. La salsiccia è quella di Bra (a base di carne di vitello si mangia fresca ma cruda). L’amaro della rapa si armonizza perfettamente con i cubetti di foie gras.
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Mandorle e Merluzzo. Ancora un grandissimo piatto di contrasti con il brodo di merluzzo e i capperi a bilanciare il dolce delle mandorle.
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Omaggio al territorio e alla stagione: Crema di patate e Lapsang Souchong Tartufo bianco.
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Si gioca: Cotechino e Lenticchie.
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Cavolfiori e Animelle. Chapeau!
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Risotto alla piemontese.
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Cannelloni e Malfatti di ricotta e bietole. Il bis di primi. Da una parte il cannellone costituito da una pellicola ottenuta dalla lavorazione di un ragù napoletano. Dall’altra la sfoglia è pura bietola. Si gode!
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Compagni di viaggio.
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Cavoli e Piccione. Il cavolo è nero, il piatto è grandioso.
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Torta di mele e indivie.
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Caco Castagne e Cardo. Un omaggio al Giappone dove castagne e cachi (quelli vaniglia, più duri) sono assai amati. Notevole la nota aromatica di Tè verde.
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Qualche piccolo coccola finale così, tanto per gradire.
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La Morra è meta ambita per gli enoturisti, per gli amanti della trifola e unanimemente riconosciuta come una delle più belle terrazze affacciate sulle Langhe.
Un indirizzo affidabile per chi si trovasse a transitare da quelle parti all’ora del pranzo o della cena è sicuramente l’Osteria del Vignaiolo.
Situata nella frazione di Santa Maria, da ormai tredici anni propone una rassicurante cucina di territorio in un ambiente rustico con possibilità, nella bella stagione, di desinare nell’adiacente dehors, e nel caso non aveste voglia di rimettervi subito in viaggio c’è anche la possibilità di soggiornare in una delle cinque stanze dell’osteria.
Come dicevamo, la cucina è di stampo prettamente tradizionale e quindi largo spazio a tutti i grandi classici di Langa: il vitello tonnato, la carne cruda battuta al coltello, gli agnolotti del plin, i taglierini al ragù di salsiccia, gli gnocchi al castelmagno o al raschera, lo stracotto al nebbiolo, ma non disdegna qualche incursione nel mondo ittico né qualche piatto di stampo moderatamente creativo per accontentare i gusti e le esigenze di tutta la variegata clientela.
Tutti i piatti sono ben confezionati e ben presentati, le porzioni sono adatte a pance capienti e stomaci forti e, caso piuttosto raro per questa tipologia di locale, viene servito sia l’appetizer a inizio pasto che la piccola pasticceria alla fine.
La carta dei vini consta di oltre 300 etichette, con naturalmente il Piemonte in primo piano, e permette di bere anche molto bene senza dissanguare il portafogli.
Il servizio è sbrigativo, come è normale quando si fanno grandi numeri, ma cordiale e sorridente quanto basta.
Un indirizzo sicuramente da segnare sul vostro personale taccuino se desiderate provare una cucina semplice, ma ben fatta, al giusto prezzo.

Benvenuto dell cucina: una discreta insalata russa con salmone (?)

Ottimo il pane fatto in casa ed i fragranti grissini.


Ravioli del plin burro e salvia

Gnocchi al Castelmagno.

Asparagi gratinati con fonduta.

Costolette di agnello alla griglia

Il semifreddo al torrone.

Piccola pasticceria.

Guido e Costigliole sono stati per quarant’anni un binomio indissolubile e, ancor oggi, ogni volta che si passa in paese l’emozione sale ripensando a quel tempio che tante gioie ha regalato.
Un luogo mitico, creato con lungimiranza e in controtendenza alle mode del momento da Guido e Lidia, che gettò le basi per il rinnovamento della ristorazione nelle Langhe: era il 1961 e da allora Guido da Costigliole divenne un punto di riferimento per i buongustai di tutto il mondo.
Da Guido si poteva solo cenare e solo su prenotazione, vi era un unico menù degustazione, una carta dei vini formidabile, una grande cucina, ma soprattutto una splendida famiglia al lavoro, gli Alciati: ambasciatori insuperabili della grande cucina italiana e maestri nell’arte dell’accoglienza.
Dal 2002 il ristorante si è trasferito nella nuova sede di Santo Stefano Belbo nelle cantine del Relais San Maurizio, un ex monastero Cistercense del diciottesimo secolo sapientemente ristrutturato e adibito ad albergo di charme.
Purtroppo, dopo Guido, anche Lidia ci ha lasciati, e la sua eredità è stata raccolta da Luca Zecchin in cucina, mentre in sala il figlio Andrea, valente sommelier e grande appassionato d’arte, si occupa della cantina con Monica Magnini che dirige la sala.
Oggi, a fianco ai grandi classici della casa, hanno fatto capolino diversi piatti di concezione moderna, molti dei quali dedicati al pesce.
Certo, qualcosa dell’atmosfera di un tempo si è persa nel passaggio di consegne generazionale: ci si sente più clienti e meno ospiti rispetto a una volta, i coperti sono molti ed il servizio, seppur cortese ed efficente, non può più essere sartoriale come prima.
Dalla cucina qualche alto e basso: fenomenali come sempre gli agnolotti ai tre arrosti, sia nella versione al sugo d’arrosto sia quelli semplicemente serviti nel tovagliolo, molto buoni anche i “capunet” foglie di cavolo verza ripieni, e goloso l’uovo fritto con salsa al tartufo.
Poco saporito invece il risotto con le spugnole e poco convincente il brasato cotto a bassa temperatura, eccessivamente sfibrato, quasi “bollito”, con una salsa di scarsa incisività e troppo pepata.
Splendida la carta dei vini, che conta oltre 2.500 etichette, con in evidenza il Piemonte e la Francia, ma in cui è ben rappresentato anche il resto del mondo; il tutto proposto a prezzi più che ragionevoli.
Nonostante tutto, una tappa imprescindibile per chi voglia provare alcuni classici di Langa ai massimi livelli e rendere omaggio a una famiglia che molto ha dato e molto ancora darà al mondo enogastronomico nazionale.

Sala e mise en place.


Merluzzo, tartufo e funghi.

Vitello tonnato.

Terrina di coniglio marinato.

Tagliatelle al tartufo nero.

Ravioli al nero di seppia.

Lonza del coniglio grigio di Carmagnola.

Panna cotta.

Le viole sono nell’aria.

Ah, le Langhe!
Croce e delizia di ogni gourmet, ogni periodo dell’anno è buono per un passaggio da queste parti. La vendemmia, i tartufi, le nocciole, i formaggi… è sempre una festa per i sensi, 365 giorni all’anno. Grazie ad una serie interminabile di prodotti tipici e una cultura votata alla valorizzazione degli stessi come risorsa, è questa una zona dove anche giocando a mosca cieca con i campanelli c’è il serio rischio di un pranzo di qualità.
Al netto degli onnipresenti indirizzi acchiappaturisti, ben ripartiti tra improbabili agriturismi e dubbie cantine, la qualità media food&wine è decisamente alta, con indirizzi capaci di accontentare un’ampia fascia di palati e le relative potenzialità di spesa.

Nel girone tuteliamo-le-cardiopatie-del-tuo-direttore-di-banca rientra indubbiamente la Trattoria della Posta, storico indirizzo a Monforte d’Alba che propone una cucina della tradizione, dalla staticità del menù altrettanto storica, seconda solo ai nomi dei panini in Autogrill.
Attenzione a non farsi confondere però dal nome o dall’esecuzione piuttosto basic dei piatti: il servizio, la location, la sua impostazione e la relativa cucina non sono da trattoria, bensì ben più affini all’ideale di ristorante. Una bella sala in stile classico con un ampio camino in centro accolgono il cliente in un ambiente rigoroso, silenzioso e tranquillo ma mai freddo, senza ostentazioni né particolari eccessi.
Sulla cucina, una volta chiarita la volontà di proporre la versione strettamente langarola, non c’è sinceramente troppo da dire. I piatti sono, come oramai quasi sempre accade, riproposti più alleggeriti e quindi più adatti alle necessità ed ai gusti dei nostri giorni, ma le basi sono quelle tradizionali da generazioni e non c’è, per scelta, alcuna volontà di stravolgerle.
Quindi, al netto di un paio di veniali imprecisioni di temperatura, è una cucina che fa virtù della sua semplicità, e grazie alle materie di buon livello e ad accostamenti affidabili come un cane guida, tutti i piatti risultano correttamente eseguiti e piacevoli.
Il rovescio della medaglia è il rischio della percezione che ha il cliente, al momento della scelta del ristorante: offrendo cucina che apparentemente quasi non si distingue, se non per la raffinatezza delle materie, da quella di una buona trattoria, in una terra dove l’offerta è così ampia e variegata, dalla bettola al tristellato, c’è il rischio concreto di passare per un’osteria dalle inarrivabili ambizioni, troppo cara in relazione alla modesta offerta.
Da parte nostra sappiamo bene che non è così, tant’è che possiamo serenamente consigliare un passaggio. Se siete in cerca di un sobrio pranzo (visto che la zona ben si presta, magari come nel nostro caso nel trasferimento da una cantina all’altra), non eccessivamente impegnativo sotto tutti i punti di vista, soprattutto da quello economico, la Trattoria della Posta è una valida scelta, non ve ne pentirete.

Una bella carta dei vini, come giustamente ci si aspetta in Langa, è a disposizione del cliente, con una buona panoramica dai prezzi mediamente corretti sulle proposte della zona, con qualche ricarico più marcato sulle bottiglie extra-Piemonte. Plus per l’interessante offerta di mezze bottiglie e di vini al calice

Il pane ed i grissini.

Benvenuto dalla cucina. Freddo, nella temperatura e nell’aspetto.

Il vino, una delle proposte al calice.

Il rotondino di vitello cotto nel sale con salsa tonnata. Un buon vitello tonnato, ottima carne e salsa ben eseguita.

La carne cruda battuta al coltello con Tondo di Macra (e tartufo nero disidratato, uovo e senape).

Gli agnolotti del Plin al burro fuso. Senza troppi giri di parole, molto buoni.

Lo stinco di vitello al vino Barolo, accompagnato da verdure al vapore.

Predessert. Un piccolo tiramisù.

Il dolce di nonna Tilde (Bunet, torta di nocciole , gelato al caffé, pera madernassa cotta nel vino). Aspetto tristino, in realtà un dessert molto piacevole.

“Nella piazza principale di Alba si mangia meglio al pian terreno che al primo piano…”
Prendendo atto che di burloni ne è pieno il mondo, questa frase, sentita un po’ di tempo fa, ovviamente risuona come una boutade, una comica affermazione sulla cucina di Enrico Crippa, all’unanimità ritenuta una tra le migliori a livello europeo.

Chiariamo subito: nessuno potrebbe azzardare un paragone tra le due cucine, dalla concezione diametralmente opposta. In realtà però La Piola si è rivelato un indirizzo realmente notevole, un piccolo baluardo della ristorazione sul modello della trattoria di paese, quella fatta di tovagliette di carta su piccoli tavoli, dalla proposta giornaliera variabile, vini al calice, servizio giovane, educato e disinvolto e, cosa non sempre scontata ma in questo caso fiore all’occhiello, piatti davvero di alta qualità.
Un’osteria (Piola, in dialetto piemontese, significa proprio questo) dall’aspetto semplice, con qualche lieve concessione stilistica contemporanea, dal format popolare ma al contempo sintonizzata sui canoni dell’alta ristorazione e con una cucina diretta con gli occhi, la testa e il cuore da un grande chef.

Appena varcata la soglia, lo sguardo volge in automatico all’imponente lavagna sulla parete, che presenta in tono informale la proposta del giorno. Ed è un elenco che predispone bene l’animo, che sciorina un’importante sequenza di piatti esclusivamente della tradizione, come ogni vera trattoria che si rispetti. Il resto lo fa il territorio stesso, Alba, la capitale morale di Langa, nonché luogo di perdizione per tutti coloro che non mangiano per vivere, ma vivono per mangiare.
Una differenza sostanziale, rispetto alla media dei locali di pari livello, è la ricerca di una notevole finezza comune a tutte le portate. Spesso le osterie, anche quelle qualitativamente rilevanti, basano le loro preparazioni principalmente sulla gustosità, chiudendo un occhio sul conseguente impatto calorico/digestivo, o comunque proponendo piatti per i quali, nel descriverli, difficilmente utilizzeremmo termini riconducibili all’eleganza.
Nel caso de La Piola viceversa, l’approccio è speculare: la gradevolezza delle preparazioni spinge comunque la lancetta in prossimità del limitatore, ma è tangibile una cura nelle realizzazioni di un altro livello, più rivolta alla raffinatezza del complesso: una pasta fresca, non eccessivamente spessa e ruvida ma callosa alla perfezione, condita con un ragù bilanciato e saporito; la faraona, dalla carne succosa ma tenera da non richiedere quasi il coltello, o ancora i dessert, semplici nell’aspetto ma rigorosissimi.

Quindi alla prossima occasione in cui passerete da Alba, non snobbate la piazza infilandovi direttamente nella “viuzza laterale” per prendere le scale. Certo godrete sensibilmente di più, è innegabile, ma è altresì innegabile che perdereste un’occasione per provare una vera chicca, altrettanto degna del viaggio.

Vitello tonnato. Sembra prosciutto cotto, in realtà è una carne di vitello rosa e tenera in una maniera imbarazzante, accompagnata da una salsa tonnata praticamente “al cucchiaio”.
Vitello tonnato, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Carne cruda. Carne giustamente poco condita per farne risaltare l’ottima qualità. Per l’apporto di sapidità viene delegato il Parmigiano (notevole), piacevoli le verdure croccanti.
Tartare, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Agnolotti del plin al sugo di arrosto. In una ipotetica gara di plin, sicuramente a podio.
Agnolotti del plin, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Faraona, salsa al barbaresco con purea di patate. Cottura davvero accademica della carne, che la restituisce morbida e succosa. Puré in accompagnamento dalla notevole compattezza, più che purea praticamente una patata schiacciata rimodellata.
faraona, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Crostata di fragole con gelato al fiordilatte. Elogio della semplicità: una pasta gustosa, una marmellata concentrata e di qualità, un sublime gelato.
crostata di fragole, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Bonet al cioccolato. Presentato in maniera poco invitante, al palato in realtà si rivelerà fedele alla tradizione.
Bonet, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Il Carrello dei formaggi, Arbiora addicted.
Carrello Formaggi, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
Il caffè, servito con delle piccole praline.
caffè, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba
La spartana tavola.
tavola, La Piola, Chef Dennis Panzeri, Enrico Crippa, Alba