Passione Gourmet Bruno Petronilli Archivi - Pagina 3 di 4 - Passione Gourmet

Friday Five #13

(Una portata del Ristorante Sumire – Milano)

Tredicesimo appuntamento con il Friday Five! Continuate a mandarci le vostre segnalazioni: brevi, incisive, precise, nel puro stile Friday Five!
Scrivete all’indirizzo fridayfive@passionegourmet.it, vi invieremo le specifiche per la compilazione e il vostro pezzo sarà pubblicato nel Friday Five!

Daniel

Daniel Canzian dopo tanti anni alla corte del Divino Marchesi ha fatto il grande passo ed ha aperto il suo ristorante. L’ambiente è accattivante, in una delle zone più belle di Milano: un ampio open space con cucina a vista, arredamento contemporaneo, molta vivacità con i giovani cuochi che sostituiscono i più tradizionali camerieri (diventeranno una rarità?) e fanno la spola dai fornelli ai tavoli. L’estrema cortesia e buona volontà, però, non riescono a celare i limiti indiscutibili della cucina attuale del “Daniel”: piatti sulla carta minimali e ben definiti, ma ogni preparazione è priva di equilibrio (“minestrone alla milanese” e “quaglie laccate al limone”), complessità (“risotto al profumo di crostaceo” e “coregone alla saltinbocca”) o cotture a regola d’arte (“sella di coniglio ripiena con i suoi fegatini”). Certo sono passati solo due mesi dall’apertura, però i 18 euro per un “assaggio” di carciofi alla giudia, molto poco convincente per concezione e fattura, sembra già una caratteristica pretenziosa da ristorante navigato. La carta dei vini non consente di raddrizzare la serata. Peccato.
(Bruno Petronilli)

Via San Marco angolo Castelfidardo 20121 Milano
Tel: +39.02.63793837
www.danielcanzian.it

Massè

L’eccezionale maestria di Ciro Salvo ha reso questo locale nella splendida Torre Annunziata la Mecca degli appassionati di pizza napoletana di tutto il mondo. A soli 36 anni Ciro Salvo è già il re dei pizzaioli: il più preparato, il più talentuoso, il maestro indiscusso. Che classe! Ogni considerazione tecnica sarebbe inopportuna da parte nostra: sarebbe come se un appassionato di pianoforte ciarlasse della tecnica di Arturo Benedetti Michelangeli. Non c’è da parlare: bisogna solo assaggiare, ammirare e stare zitti. Ciro Salvo è La Pizza!
(Giovanni Lagnese e Valentina Nappi)

Corso Vitt. Emanuele III 429, Torre Annunziata
Tel: +39.081.5363382

Sumire

Un giapponese pieno di clienti giapponesi? Un gran bel segno. A prezzi concorrenziali, molto competitivi, una trattoria-sushi bar frequentatissimo e sempre fully booked. E’ fondamentale prenotare qui, in una traversa di largo la Foppa, in pieno centro di Milano.
Un sushi molto buono e ben fatto, in particolare il riso cotto e condito alla perfezione, con un unico neo: agli europei lo confezionano senza wasabi (ricordatevelo quando ordinerete). Gli Udon ottimi, solo forse un po’ troppo addolciti per i gusti occidentali, e tanta cordialità, gentilezza e dedizione, qualità tipiche del servizio giapponese. Buona selezione di sakè, immancabile trittico di birre giapponesi e ottimo the, sia verde che tostato a richiesta. Da non perdere, semplice ma di ottima qualità.
(Alberto Cauzzi)

Via Varese 1, 20121 Milano
Tel. +39.02.91471595
www.ristorantesumire.it

Moma

Roma, Via Veneto, luogo che non ha bisogno di presentazioni: a due passi dall’Ambasciata USA c’e’ il Moma, un locale in cui si può assaporare la cucina tradizionale romana ma anche una cucina intelligentemente creativa che rende merito agli chef Alessandro Cannata e Francesca Fucci, due giovani “emergenti” che da anni hanno manifestato il loro talento, impressionando di recente anche in occasione dell’evento Taste of Roma 2013.
Ricerca delle materie prime e realizzazione dei piatti con approccio originale e innovativo: ne sono un esempio gli ottimi bottoni di pasta fresca farciti di agnello e mantecati con uovo di Parisi e carciofi, una esplosione di sapore e la dimostrazione che in cucina non manca la personalità.
Il tutto è abbinato a una location raffinatamente semplice, a un servizio curato e a una ottima carta dei vini. Una meta da tenere in assoluta considerazione.
(Marcello Stasi)

Via San Basilio, 42 – 00187 Roma
Tel.: +39.06.42011798
http://www.ristorantemoma.it/

Villa Crespi

C’è il tempo della rincorsa, dell’esuberanza e quello della Maturità. Tonino Cannavacciuolo è decisamente nella terza fase, che definiremmo però più dinamica, in continua evoluzione positiva. Preparazioni come le lumache in salsa inglese o l’imperioso piccione vi faranno sobbalzare sulla sedia. Goloso, persistente, elegante ma concreto. Una cucina ed un luogo, Villa Crespi, in cui dopo essere uscito sogni già di tornare un attimo dopo. Per rivivere un’esperienza folgorante ed illuminante. Una piacevolezza complessiva che passa anche attraverso un servizio di sala di livello assoluto, uno tra i migliori di casa nostra, supportato dalle figure chiave del maître Paolo Ciaramitaro e del sommelier Matteo Pastrello. Strasuperconsigliato!
(Alberto Cauzzi)

Via Fava, 18, 28016 Orta San Giulio Novara
Tel: +39.0322.911902
www.villacrespi.it

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(Tonno … “vitellato”: un piatto di Cannavacciuolo – Villa Crespi)

Ginza Ukai-Tei, Giappone, tokyo

Bastano solo un paio di giorni per orientarsi bene a Tokyo. La metropolitana è di un’efficienza disarmante e le indicazioni sono chiare anche per chi parla bene solo le lingue neolatine e non mastica altrettanto correttamente gli ideogrammi. Se poi avete la fortuna di soggiornare a Ginza tutto risulta più facile. Ovvio che un cellulare dotato di navigatore vi consentirà maggiore tranquillità, ma questo quartiere ha un aspetto simile alle moderne città occidentali, con i suoi grattacieli imponenti, i negozi lussuosi, i brand della civiltà consumistica a cui siamo abituati. Per strada la gente è in perenne e ordinato movimento, colpisce l’assenza quasi assoluta di bambini o anziani, ma forse il motivo è che siamo nella zona del business. C’è un silenzio irreale ovunque e il traffico delle automobili, discreto e privo di quella simpatica sinfonia di clacson tipica di Roma o New York, non disturba per nulla. Addirittura i cantieri sembrano lavorare con il silenziatore incorporato: è incredibile per la nostra cultura, ma qui a Tokyo è proprio così.
Girovagare a piedi senza difficoltà è quindi possibile, a meno che non abbiate prenotato un pranzo o una cena presso uno dei tanti leggendari maestri Sushi di Tokyo. Normalmente essi officiano in sconosciuti e anonimi building, senza targhe o insegne riconoscibili dalla quasi totalità della popolazione mondiale: in questi casi la situazione si fa più molto più complessa e dovrete ricorrere a tutta la vostra intelligenza e capacità intuitiva.
Non è così per l’Ukai-Tei di Ginza, uno degli indirizzi più rinomati della città in tema di cucina giapponese versante Teppan-Yaki. Dopo giornate intere a scovare con atteggiamento sospetto questo o quel recapito enigmatico, azione a cui abbiamo sacrificato i preziosi neuroni rimasti, ecco per fortuna un locale facilmente riconoscibile: anzi il suo accesso imponente e sfarzoso ci predispone immediatamente ad una inusuale serenità, anche se la piacevole sensazione dura solo pochi istanti, perché il sospetto che questa volta proprio non ci abbiamo azzeccato con la prenotazione, si tramuta quasi subito in realtà.
L’ambiente è curato, ma pomposo e opprimente. Dopo il portone in stile Las Vegas, osserviamo sbigottiti un arredamento tra il kitsch cinese e i vetusti ristoranti francesi di epoche passate. Per carità, sorrisi e gentilezze a profusione, ma mentre ci conducono nella nostra saletta riservata avvertiamo un sottile turbamento, quella sinistra convinzione di essere le vittime occidentali di turno della serata.
Ci accomodiamo nelle nostre eleganti sedie barocche, davanti a noi si svela in tutta la sua lucentezza metallica il mitico Teppan-Yaki. Propendiamo per un compromesso, scegliendo dal menù il percorso di degustazione chiamato “Lobster&Steak” a quasi 19.000 Yen (oltre 140 Euro). Il nome ci sembra una piccola garanzia che almeno qualche delizia l’assaggeremo, golosamente sfrigolante su quel piano rovente che abbiamo al nostro cospetto. E poco importa se intorno a noi di quel minimalismo giapponese cui siamo oramai devoti seguaci, non c’è neppure l’ombra.
Lo stile Teppan-Yaki non affonda nei secoli la sua tradizione. Fu inventato a Kobe solo nel 1945 da Shigeji Fujioka: il suo motto era “Let people taste truly delicious meat” e appare quindi chiaro che l’intento del buon Shigeji era quello di offrire ai suoi commensali il modo migliore per esaltare la preziosa carne che dalla sua città natale ha mutuato il nome. Negli anni lo stile Teppan-Yaki ha trovato una diffusione notevole, soprattutto negli Stati Uniti. E forse la sua fama ha subito troppe degenerazioni occidentali. Ma quale modo migliore se non quello di andare a Tokyo, in questo famoso ristorante, per scoprire la sua essenza più vera?
Con tutta sincerità non siamo riusciti a toglierci il dubbio: dove risieda il fascino di vedere davanti a sé uno chef che usa il Teppan-Yaki come una banale piastra qualsiasi rimane un mistero.
L’Ukai-Tei di Ginza è un buon ristorante a onor del vero, ma della cucina giapponese, di quello spirito seducente che ci ha folgorato in molti altri posti, non ha proprio nulla. E’ semplicemente un ridondante locale in stile francese per ricchi uomini d’affari e mascherato artatamente con un maquillage orientale, giusto per stupire incauti e sprovveduti turisti.
Un luccicante spettacolo circense insomma, tra l’altro costoso e pretenzioso, molto distante dalle legittime aspirazioni di una vera anima gourmet. Alle foto e alle rispettive didascalie lasciamo il compito di riportare fedelmente il resoconto di una serata andata storta a Tokyo.
Una cronaca a tratti autoironica e divertente, benché al momento dei dessert (e di fronte ad un inquietante Crème Caramel) lo smarrimento abbia preso decisamente il sopravvento sul sorriso.
Se vi capiterà una piccola disavventura come la nostra, nel cuore pulsante di Tokyo e in quella Ginza così scintillante e smagliante, non vi scordate mai che ci sono straordinarie pasticcerie ovunque con cui raddrizzare una serata.
Ah, dimenticavamo: straordinarie pasticcerie giapponesi.

Foto d’apertura: l’ingresso, facilmente riconoscibile…

La mise en place davanti al Teppan-Yaki: molto classica, almeno in Europa.
mise en place, Ginza Ukai-Tei, tokyo, giappone
Qualcosa d’italiano (e per fortuna…) non poteva mancare.
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Amuse bouche: flan di tartufi…
flan di tartufi, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Uno dei pochi meriti per essere un ristorante filofrancese: la carta dei vini…
vino, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Prima portata: un discreto dentice marinato (ma il Teppan-Yaki?)
dentice marinato, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Incominciano finalmente ad allestire il Teppan-Yaki, siamo fiduciosi. Finora abbiamo fissato il muro davanti a noi.
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Lo chef all’opera sulla seconda portata, ma il Teppan-Yaki è usato come strumento scenografico, anche un fornello da campo sarebbe stato utile per riscaldare un piatto già cucinato.
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Ecco il risultato: lingua di bue grigliata (sì, ma in cucina).
lingua di bue, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Dopo tanto Teppan-Yaki sempre dalla cucina arriva una zuppa di crostacei, giusto per darci tregua… (ma siamo a Parigi?)
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Ci presentano un astice crudo, non sarà che lo cuoceranno al Teppan-Yaki?
astice, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Eh, magari… Ecco che lo chef lo prepara seguendo una tipica ricetta giapponese: la fricassea.
astice crudo, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
astice, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Il risultato: ecco il nostro astice in fricassea. Bienvenue a Tokyò, Monsieur…
astice in fricassea, Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Il primo indizio che forse siamo veramente a Tokyo.
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
La conferma: il Teppan-Yaki funziona davvero e lo usano!
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Ginza Ukai-Tei, Tokyo, Giappone
Ci siamo quasi…
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Siamo commossi: Ukai Prime Beef Siliron al Teppan-Yaki!
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E vai, esageriamo con il Teppan! Riso saltato all’aglio…
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Abbandonato il Teppan-Yaki ecco la sala dove ci saranno serviti i dessert.
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Tra i quattro assaggiati riportiamo solo la foto di quello che ci è sembrato, all’Ukai-Tei, il più vicino possibile alla cultura giapponese: il Crème Caramel.
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Usciamo, c’è Ginza by night…
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Una straordinaria pasticceria giapponese…
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Adesso sì che siamo felici…
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Dieci giorni tra Tokyo e Kyoto per un totale di oltre trenta ristoranti visitati, molti pluri-stellati, qualche locale più semplice e tanto cibo da strada. Un’immersione in un universo affascinante e tanto distante da noi. Non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente. Un popolo, una terra ricca di suggestioni. Quale modo migliore per capire il Giappone se non quello di immergersi nelle sue strade, osservare i comportamenti di un popolo civile ed evoluto, i cui i treni non arrivano mai in ritardo, ma neppure in anticipo.
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Città in cui ci sono pochissimi cestini per i rifiuti lungo le strade, perché tutti si portano i rifiuti appresso, pragmatismo ecologico (si riducono i rifiuti prodotti) e organizzativo (non si debbono svuotare cestini che per un qualsiasi imprevisto potrebbero rimanere pieni). E per le strade sono una rarità anche le panchine, qui si corre dalla mattina alla sera, spesso ci si addormenta stremati nei metrò, in sostanza non si spreca il tempo, un bene prezioso come l’aria. In questo paese una richiesta fuori programma, che sia un piatto in più o una variazione su una prenotazione, pone l’interlocutore di fronte all’ignoto, al non conosciuto, all’indecifrabile e all’ingestibile. Tutto sembra perfetto, catalogato, certo e sicuro, anche nella baraonda e nella confusione apparente che affascina durante una visita ai mercati, pieni di rituali a noi sconosciuti, ma ricolmi di civiltà, storia e cultura.
Un popolo si comprende molto meglio osservandolo a tavola, e anche immerso in uno dei nostri compiti primari per la sopravvivenza, vero a qualsiasi latitudine, la conquista del necessario per sfamarsi. Almeno due volte al giorno. E’ atto di sopravvivenza qui svolto, come tutto il resto, in maniera responsabile, attenta, sottile, finanche maniacale.
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I mercati ricchi di freschissima materia prima, a tutte le fasce e a tutti i livelli. Solo in Giappone può esserci chi si impegna a coltivare 10 meloni per raccolto, a cesellarne e scolpirne le forme, quasi come un bonsai, per ottenere una stratosferica e straordinaria materia prima, a oltre 100 euro al pezzo. Solo in questo luogo si può incontrare un maestro di sushi che apre 24 tonnetti per sceglierne uno solo, il migliore e il più fresco, che i suoi 6 commensali di quel giorno avranno l’onore di assaporare. I mercati strabordano di verdure e alghe fermentate, componente base per una cucina povera di grassi, sana, ma gustosa e persistente. In cui l’umami è ricercato attraverso mille componenti e sfaccettature differenti.
Qui in Giappone c’è la grande industria, vanto di questa terra, precisa nella sua seriale ed elevata qualità, ma c’è anche la somma espressione dell’arte artigiana, purtroppo destinata – e lo sappiamo bene – a pochi o meglio dire pochissimi eletti.
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La ripetitività del gesto, infinita, che qui è considerata maestria. Un solo atto da ripetere e perfezionare per tutta la vita. Al bando la creatività, la variabilità, l’istinto e l’improvvisazione. Qui si è considerati grandi se si persegue per tutta una vita lo sviluppo di un solo gesto, di un solo atto, di un solo e unico modello. All’infinito curato e migliorato, giorno dopo giorno, nei minimi dettagli e particolari.
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Ecco quindi emergere i maestri di tempura, che vi doneranno una frittura che non sarete più in grado di chiamare tale. Eterea, praticamente inesistente, che ha il solo significato funzionale di sigillare la materia, semplicemente straordinaria, dal veicolo di cottura, l’olio. Per rendere una melanzana, un fungo, un gambero apparentemente crudo ma al contempo cucinato, dolcemente cullato dal calore, preservando però all’interno dell’involucro tutti gli umori dello stesso. La sublimazione di un atto, come la preparazione maniacale di un pezzo di sushi, in cui tutto è fondamentale. Dalla scelta della materia prima, dalla cura del riso e della sua preparazione, dal confezionamento.
E non stupitevi se voi, quasi attoniti, vi sentirete dire con perentoria decisione che il melone che state acquistando deve essere consumato entro 2 giorni, o che i dolcetti che volete riportare alla vostra amata non potranno essere consumati oltre la sera stessa.
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Non dimenticando i riti e ritmi kaiseki, qui scanditi ovunque. Vi pervaderanno con attenzione estrema all’estetica, considerata parte integrante del senso gustativo, mai fine a se stessa. Il dettaglio, la bellezza, che riprende un concetto caro a Marchesi. Ciò che è bello non può che essere anche buono. Estetica e gusto: la bellezza della forma non è mai comprimaria del gusto, ne è struttura indivisibile (principio kaiseki).
In questo paese vige il culto dei dettagli: la bellezza è spesso nascosta. Un fiore, un vaso, uno scorcio infinitesimale di un giardino interrompe la monotonia di cemento in alcune periferie spesso anonime, in cui si incontrano maestri che officiano nascosti in cantine di palazzi grigi, ma che sfiorano l’arte con le loro preparazioni. Senso civico senza pari, rispetto dei codici e dei formalismi, rispetto dell’ospite e massima attenzione al servizio, qui considerato un’elevazione verso il divino.
Un paese, una terra molto affasciante e intrigante, che noi cercheremo di raccontarvi attraverso l’occhio curioso di 6 appassionati gourmet, sperando di riuscire a trasferirvi il senso profondo di questo popolo, della loro cultura e civiltà, attraverso il cibo, fonte di vita primaria ed energia che muove il mondo intero.
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A Cagliari sembra imperversare una sorta di buonumore coinvolgente. Ce ne siamo accorti subito dal tono curiosamente cordiale del tassista che ci conduceva in centro città. Ci ha accolti con un “Benvenuto a Cagliari, signore” che tanto stride con l’asprezza delle imprecazioni (causa traffico e stress) dei suoi colleghi di Milano o Roma. Qui tutto sembra filare liscio, pacato, sereno. Passeggiando nel cuore di Cagliari, attorno al maestoso bastione di Saint Remy e in attesa di cenare nel ristorante omonimo, la gente che incontriamo sorride, scherza, sembra allegra e spensierata. E questa è la sensazione principale che ci accompagnerà per tutta la serata, anche in questo intimo ristorante di Cagliari, città oramai orfana da tempo della sua stella Roberto Petza.
A pochi metri dall’ingresso del ristorante non possiamo non notare la bottega di Bob Marongiu, famoso artista sardo autodidatta: dalla prima volta che ammirammo una sua opera sono passati molti, forse troppi anni, ed eravamo coccolati nella sala multicolore di un certo Igles Corelli in quel di Ostellato.
Varcato l’ingresso ecco un altro sorriso: questa volta è quello di Marino Cogoni, patron del St.Remy. Lunga e luminosa carriera nel mondo dell’alta hotellerie, barman in luoghi di mondanità e lusso, Marino da neppure due anni ha scelto di ritornare nella sua Sardegna e assieme alla moglie Silvana di iniziare una nuova avventura a Cagliari. Il locale è uno storico indirizzo ristorativo fin dagli anni ’70 e le sue mura sono state utilizzate in passato come rifugio antiatomico, convento di suore di clausura e deposito di prodotti farmaceutici. Insomma la storia c’è.
Il presente parla invece di molta semplicità e desiderio di far bene. Silvana è autodidatta ed è entrata per la prima volta in cucina all’apertura del locale. Una bella sfida per lei, ma anche per Marino, che la aiuta con la sua esperienza in abbinamenti e creazioni.
La materia prima è di qualità, la lista “taylor-made” sulle potenzialità della cucina: pochi piatti, ispirati per lo più dal mercato, versante ovviamente mare.
Le ricette migliori arrivano quando la volontà di esagerare non prende il sopravvento, valga su tutti l’esempio poco felice del Dentice sfumato al vermentino, capperi, olive, pomodoro secco, porro e spicchi di limone: come diceva il mio illustre maestro di nome Enzo, il classico piatto in cui se togli a caso due o tre ingredienti il risultato migliora.
Ma nel complesso è giusto guardare al St.Remy con occhio benevolo, arrotondando per eccesso la valutazione di un locale in cui si sta bene a prescindere da qualche piccolo intoppo che, con il tempo e i giusti consigli, sarà facilmente eliminato. Ci hanno insegnato che a un sorriso si risponde sempre con un gesto d’affetto e dopo aver trascorso una serata in questa città meravigliosa, non possiamo certo tirarci indietro.

La sala
sala, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Iniziamo con lo splendido Vermentino Is Argiolas 2012
vino, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Tartare di Gamberi rossi di Mazara del Vallo con fragole.
tartare, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Calamaro al vapore, con emulsione di aceto di mele, salsa di avocado e zenzero.
calamaro, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Fico nero, ricotta affumicata, bottarga e riduzione di aceto balsamico.
fico, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Pani: su tutti ovviamente il Guttiau di cui abusiamo sempre.
pani, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Laganelle al limone, julienne di zucchine, vongole e bottarga.
laganelle, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Macarrones casarecci con fiori di zucca, pomodorini saltati e ricotta mustia.
maccarones,Da Marino al St.Remy, Cagliari
Il sorriso contagioso di Cagliari: alle pareti riproduzioni delle opere di Bob Marongiu.
bob marongiu, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Dentice sfumato al vermentino, capperi, olive, pomodoro secco, porro e spicchi di limone.
dentice, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Mousse di ricotta, pinoli e saba.
mousse, Da Marino al St.Remy, Cagliari
Chiusura: Argiolas Angialis 2009.
vino, Da Marino al St.Remy, Cagliari

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Il Faro Verde potrebbe essere la classica bella scoperta in una calda estate di vacanze. Spesso si vaga nei paesini marinari senza una meta precisa, buttando l’occhio nei menù appesi fuori dai locali, sbirciando nei piatti degli avventori già intenti a cenare, facendo appello a decenni d’esperienza per azzeccare una cena di qualità. Anche quando il critico veste i panni del turista non può prescindere dal suo tirannico animo gourmet.
E se ci fossimo capitati per caso a Porticello avremmo senza dubbio scelto questo locale tipico, proprio di fronte al mare.
Ma al Faro Verde non ci siamo capitati per sbaglio, ci siamo andati appositamente per mantenere una promessa fatta qualche mese prima a Milano. Era passata da poco la mezzanotte in Piazza della Scala, eravamo gli ultimi clienti rimasti estasiati dalla sorpresa di scoprire un Trussardi e un Luigi Taglienti in stato di grazia. Ma non eravamo gli unici. Intenti a gustarci un meritato sigaro un simpatico signore dall’aria affabile si avvicinò presentandosi così: “Sono Francesco Balestrieri, sono un ristoratore siciliano vicino a Palermo. Ho intuito che siete degli appassionati gourmet, vi volevo raccontare del mio locale”. L’entusiasmo e la franchezza con cui Francesco ci ha parlato, raccontandoci la sua vita e le sue esperienze, ci ha colpito e ci ha insegnato una lezione importante. Ha dimostrato in pochi minuti quanto sia fondamentale nella nostra epoca l’etica e l’orgoglio del proprio lavoro, ma anche quello delle proprie passioni. Davanti ad un santuario dell’alta cucina Francesco descriveva una semplice realtà a noi sconosciuta.
Nell’era di internet e della comunicazione globale, l’approccio diretto e sfacciato ha ancora il suo fascino.
Ed eccoci dunque pochi mesi dopo a Porticello, piccolo borgo marinaro che in realtà risulta essere il secondo porto della Sicilia con oltre 400 barche registrate.
L’aria è densa e sapida, sa di mare, di bontà. Il Faro Verde fu fondato nel 1974 dal padre di Francesco, Benito, e l’insegna è ancora lì a ricordarlo. Si cena ovviamente nella bella veranda, ma il locale ha anche ampie sale interne, calde e ben arredate.
Qui una volta si inscatolavano le acciughe, ancora prima addirittura c’era una chiesa. Francesco è in cucina, assieme al giovane fratello Maurizio, in sala gli altri due figli di Benito, Marcello e Stefano. Lasciate il menù ai turisti dall’idioma straniero e chiedete a Francesco & Co. di condurre il gioco (privo di sorprese perché superare i 50€ qui è impresa difficile).
Solo il meglio che i pescherecci hanno da offrire entra nella cucina di Francesco e Maurizio: la loro idea di ristorazione travalica, ma con giudizio, la semplicità e la tradizione. Qualche ricetta si spinge più in là, si avverte la curiosità nel proporre qualche accostamento inusuale, la presentazione è curata, chiaro indice di vivacità, buon senso, desiderio di uscire dagli schemi ferrei della frittura, del sauté, della grigliata. Nel complesso oggi la cucina del Faro Verde si distingue meritatamente per elevarsi dalla macchia indistinta che fagocita i molti locali marinari della penisola, le molte fotocopie di un’offerta banale e poco stimolante. E la prossima volta di sicuro troveremo novità e miglioramenti. Ne siamo certi.

Alici marinate all’aceto, olio e miele d’acacia. Ottima materia prima, buon contrasto agrodolce.
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Primo vino consigliato: un buon Grillo, sapido e minerale.
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Il classico pane che dà dipendenza. Provenienza: forno Valenti a Bagheria.
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Variazione di tonno: Tagliata, prosciutto affumicato e tartare. Eccelsa materia prima, su tutti la tagliata ma anche la tartare ha una buon equilibrio aromatico.
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Gambero rosso di Palermo e Porticello. Anche qui ottima materia prima, centrato il condimento.
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Buone bollicine siciliane.
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Sformatino di pesce spada, salsa di erbe aromatiche. Molto goloso, molto siciliano.
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Calamarata con pescatrice. Cotture perfette, buon piatto in cui spicca il gusto dei ricci dosati con buona mano.
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Ravioli di ricotta al nero di seppia. Piatto dai sapori intensi ma centrati.
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Polipo lesso. Più semplice di così… eppure ecco come far felice un gourmet.
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Chiudiamo la cena con l’acqua di cottura del polipo, che ci assicurano essere uno straordinario digestivo. Confermiamo in pieno.
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L’ampia veranda del Faro Verde.
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Uno dei tanti pescherecci che fanno ritorno al tramonto: un ottimo indizio…
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