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Lerchner’s in Runggen

Le tapas dei Lerchner in Südtirol

Prima di stelle, punteggi e chiocciole che molte guide negli ultimi anni validamente gli hanno assegnato, è bene parlare di riconoscenza umana e territoriale per Johann Lerchner e Sandra Lerchner, rispettivamente padre e figlia. Nel maso di famiglia, coloro che hanno il piacere di sedere ai loro tavoli, prima ancora del piatto apprezzano, senza iperboli, l’armonia. La parola stessa armonia, etimologicamente, rimanda al senso di connettere, collegare, presupponendo quasi direttamente all’ambito di cui raccontiamo oggi. Una relazione, quella tra cuoco e cliente e, non di meno, produttore, quale preludio di un alchemico legame. Accoglienza, prima ancora che eccellenza gastronomica, rigorosamente altoatesina, quella di una famiglia, una coppia di appassionati. Il format è chiaro: “Io mi prendo il tempo di cucinare per voi, voi vi prendete il tempo di mangiare da me. Il mio Slow è tutto qui“. Così recita l’incipit in apertura del menù, riprendendo questa frase di Johann Lerchner con l’imperativo, goloso, di rilassarsi.

Armonia

Le tapas tirolesi spaziano da Krapfen di segale ripieni di ricotta e graukäse alle frittelle di patate oppure all’ancestrale Mosa con farina di carruba. Elementi di una cucina agricola di montagna, materica nella sua forma ma non per questo semplicistica nella tecnica. Il margine di improvvisazione, o la copertura del difetto attraverso eccessi di burro o manciate casuali di erba cipollina, qui non sono ammesse. La Saure Suppe, inedita al nostro assaggio, la Minestra acida di trippa si mostra eseguita con inattesa eleganza, svelandosi come il piatto del viaggio. La trippa, nella sua lenta cottura in bianco, assorbe gli oli essenziali delle erbe aromatiche aggiunte in ragionata progressione. All’interno sono sapientemente aggiunti i cetriolini sott’aceto a donare ritmo all’esuberante untuosità tipica di questa frattaglia. Al tavolo viene rifinita con l’ultimo cucchiaio di aceto di vino bianco e una veloce grattata di pepe. Il gioco è compiuto, la grande zuppa pure!

Il versante proteico viaggia in parallelo con quello vegetale, come con Schlutzkrapfen dal panciuto ripieno di spinaci e lo stufato di lenticchie con verdure invernali. Sul quinto quarto ritorna la Salsiccia di sanguinaccio, con patate della Val Pusteria, crauti (immancabili) e mousse di mele. L’arcaico insaccato a base di sangue è valorizzato da una corretta cottura che ne esalta la fondente consistenza, e schiva agilmente derive ferrose. Fiore all’occhiello la mousse di mela in accompagnamento, a donare freschezza e nuova verve a un piatto imponente sia per materia che per quantità.

Una sessantina di coperti, per una sala teutonicamente impostata ma che non lesina sia per cordialità che per professionalità. A chiudere il cerchio, per assetati curiosi o neofiti, una proposta vini originale ed economicamente intrigante raccontata dal sommelier–micologo Jonny Ferrari. Credeteci, prendetevi del tempo per venire qui!

IL PIATTO MIGLIORE: Minestra acida di trippa.

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Un cuoco fra il Sassolungo e il Seceda

La Val Gardena, insieme all’Alta Badia, è il paradiso degli amanti della montagna che trovano, tanto in inverno quanto in estate, non solo paesaggi di struggente bellezza, ove praticare i propri sport preferiti, ma anche un’affascinante atmosfera alpina altrove ineguagliabile. Se le motivazioni sono molte (prima fra tutte il fatto che queste valli sono la culla dei ladini: unica popolazione europea nata e cresciuta fra picchi e crode, e le cui origini si perdono a oltre duemila anni fa), una di queste si può senz’altro ricondurre alle tante famiglie locali che, negli ultimi decenni, hanno investito con sagacia e lungimiranza nella hôtellerie e nella ristorazione di alta fascia cercando, giorno dopo giorno, da un lato di affinare la propria proposta e, dall’altro, di selezionare sempre più la propria clientela, spostando viepiù in alto l’asticella della qualità.

A Selva di Val Gardena (1.563 metri sul livello del mare, si tenga a mente l’altitudine, ricorre esplicitamente in uno dei piatti che seguiranno), fra il Sassolungo e il Seceda, spicca l’hotel Granbaita, un cinque stelle da sogno appena ristrutturato. Da sempre gestito dalla famiglia Perathoner, l’albergo si distingue per la raffinata eleganza dal tratto caldo e contemporaneo, per le magnifiche zone Spa e fitness, per la cura nel servizio nonché per le tante cortesi attenzioni che la famiglia proprietaria, insieme ai loro gentili collaboratori, riservano ai loro ospiti. Uno dei fiori all’occhiello è poi il Granbaita Gourmet, il ristorante d’eccellenza della casa: una manciata di tavoli seduti ai quali è possibile gustare una cucina di grande impatto scenografico e gustativo. Alla guida di fornelli e forni c’è Andrea Moccia, aversano di origine e gardenese di adozione, il quale, dopo aver trascorso alcuni anni a fianco di Felice Lo Basso presso il quasi adiacente Alpenroyal hotel, è passato al Granbaita, riuscendo in breve tempo a elaborare uno stile proprio, peraltro assai differente da quello del maestro.

Sin da principio pienamente sostenuto dalla famiglia Perathoner (che ne ha intravisto da subito le notevoli potenzialità), Moccia ha avuto la libertà di concentrarsi pienamente nel mettere a fuoco una proposta gourmet d’alto profilo. Schivo quasi alla ritrosia ma animato da grande curiosità, il cuoco campano ha inanellato, durante i periodi di chiusura stagionale della struttura, numerose esperienze in locali blasonati sia italiani sia stranieri, aggiungendo così, alle sue solide basi classiche e alle già notevoli capacità tecniche, conoscenze e suggestioni ulteriori. Ne è nato uno stile composito (termine qui inteso non in modo riduttivo ma proprio in senso filologico: ovvero di sovrapposizione di due stili, al tempo quello ionico e quello corinzio) che da un lato porta avanti uno studio serrato sui prodotti, con una chiara predilezione per quelli più preziosi, dall’altro orchestra una danza di abbinamenti di notevole complessità aromatica, gustativa, di consistenza e pure visiva. Nessuna confusione né improvvisazione: al Granbaita Gourmet la coerenza regna sovrana, anche nei piatti più polifonici, e le piacevoli rotondità – qua e là vivificate da alcuni spunti acidi e da meditati tocchi amaro-clorofillici – paiono prendere per mano l’ospite, guidandolo nella degustazione delle ricche pietanze sin all’ultimo boccone.

La sontuosità del piatto

Una ricca curialità governa un pasto al Granbaita Gourmet. E Moccia ci mette molto del suo per fare in modo che il suo tratto rimanga ben scolpito. Sontuosi, generosi, barocchi i piatti colpiscono per le articolate architetture erette su una impressionante molteplicità di ingredienti, sulle loro continue variazioni e sui molteplici accostamenti. Ma colpiscono anche per la capacità di ricondurre a un’idea di base l’ostentata coralità. Per esempio il Wagyu con crackers al cumino, Grana Padano 30 mesi, cavolo rapa, caviale, chips di nervetti, radicchio, rucola, finger lime, mandorle pugliesi e gelato alla mostarda, può essere considerato una evoluta e ricca rilettura di quella che è una consueta tartare, con i suoi tanti tocchi speziati e aromatici. O il “Predator” (chips di plancton, gambero rosso di Mazara, alici di lampara fritte, acciughe del Cantabrico, calamaretti spillo, sfera nera ripiena di succo di sgombro, tartare di branzino) un perfezionamento di un ‘classicissimo’ antipasto misto di pesce. Ma entrambi questi piatti possono essere valido esempio di come Moccia al Granbaita Gourmet sia in grado di fare il ‘passo ulteriore’. Nel primo la carne – protagonista della normale tartare – ne resta sì l’attore principale ma la scena è in realtà delegata a quegli elementi che ne prolungano la gustativa nel piatto (lo speziato del cumino, l’acido del finger lime, l’amaro del radicchio e della rucola, lo iodio del caviale…). Nel secondo, quasi un trattato filosofico in nuce, il significato è da rintracciarsi nella ricostruzione della catena alimentare plancton-uomo. Dal brodo primordiale (i fumi che si agitano sotto il piatto di vetro) prende forma la vita: il plancton. Il quale è cibo del gambero rosso. Che a sua volta è predato dalle alici. Le quali sono mangiate dalle acciughe. Che sono gustate dai calamaretti. Che a loro volta sono sbranati dagli sgombri. Che sono il cibo delle spigole. Che, a loro volta, sono tanto amate da noi umani. Compreso chi, l’ospite seduto al tavolo, è l’ultimo anello della catena alimentare… Ospite che è poi gettato sulle montagne russe di «Altitude»: affogato a -2.000 metri per cercare il pregiato glacier 51, portato quindi a 1.000 metri per raccogliere zafferano, a 1.563 metri (Selva di Val Gardena) per prendere un cespo di bieta e quindi ai 1.600 del maso Pretzhof per una fetta del lardo che lì viene prodotto.

Ma non è finita. «Si mangia anche con gli occhi», recita un detto popolare. Moccia si diverte però a sovvertirlo, mostrando come occhi e palato siano strettamente legati, e come possa essere facile ingannare il secondo se privo dell’aiuto dei primi. Con gli occhi bendati si è invitati ad assaggiare la salsa che accompagna i golosissimi Spaghetti con basilico, aglio, caviale, cavolo rapa, fondo di triglia, trancio di triglia, foglia e polvere di cappero. A base di quale ingrediente è? Difficilmente lo si indovinerebbe: albiccoca fermentata. E indossando un paio di occhiali 3d si è invitati a gustare uno dei dolci: Ricotta di bufala, fichi, biscotto al burro, melissa limonata e polline. Il disegno tracciato sulla sua superficie balza in prospettiva, quasi amplificando la lunghezza gustativa di melissa e ricotta. Altri elementi entrano poi in gioco nello stile di Moccia: una certa attenzione per il Sol Levante, ben riscontrabile – per esempio – nel “Tannè” (tonno crudo laccato alla soia, tataki di tonno marinato allo zenzero, vitello della val Passiria, spuma di prezzemolo, capperi in polvere); un’altrettanta attenzione verso gli ingredienti e le tecniche delle cucine nordiche (l’ampio uso delle erbe spontanee e dei licheni, la perfetta conoscenze delle tecniche di fermentazione… con l’ingannatrice salsa a base di albicocca fermentata di cui si è appena scritto, che ricorda una altrettanto ingannatrice salsa di prugna fermentata di un notissimo cuoco altoatesino) e una profonda conoscenza delle basi classiche: la sublime interpretazione del Filetto alla Wellington del Granbaita Gourmet ben lo testimonia.

Ma tutto il pasto al Granbaita è governato da un rito coinvolgente orchestrato da uno staff assai preparato. La cena inizia ‘prima’ che l’ospite si sieda a tavola. Accolto all’ingresso del ristorante, viene inizialmente fatto accomodare nei salottini posti di fronte. Mentre il barman prepara l’aperitivo secondo indicazioni e preferenze, dalla cucina giunge una prima teoria di eleganti e golosi finger food accompagnati da una kombucha. Quindi viene accompagnato al tavolo, ove si ha la netta impressione di trovarsi a teatro. Il servizio, infatti, non solo si muove con classe e sollecitudine ma è continuamente ‘chiamato in causa’ nella messa a punto al tavolo delle pietanze (come, per esempio, per l’aggiunta delle salse) già dal primo appetizer: una fetta di speck del maso Pretzhof che viene affettata direttamente al tavolo, e posta una chips a base di farina di maizena e schüttelbrot.

A Maître e camerieri del Granbaita Gourmet spetta poi anche la preparazione di alcuni elementi: come l’infuso di brodo aromatico che accompagna il Tortellino di farina di castagne ripieno di pollo e maiale (una sagace rilettura dei tortellini emiliani), e addirittura la cottura in diretta, su BBQ, del Bisonte. Un elogio particolare meritano i dolci del Granbaita che, senza essere stucchevoli, viaggiano su un registro di bella dolcezza, resa viva da giusti tocchi acidi dati da frutta e latticini freschi. Menzione necessaria per la carta dei vini che, giustamente ampia, spazia con vastità e anche una certa profondità da proposte regionali alle etichette più blasonate d’Italia e di Francia.

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Cook the Mountain

Non può che essere “Cook the Mountain” il titolo della recensione a proposito del ristorante St. Hubertus di San Cassiano, all’interno dell’Hotel Rosa Alpina (oggi partner della catena internazionale Aman), incastonato tra le splendide montagne della Val Badia. Pochi, infatti, sono i ristoranti al mondo col medesimo grado di fedeltà alla propria filosofia e con una così spiccata immedesimazione tra cucina e territorio. Per cui il motto “Cook the Mountain”, coniato dallo stesso Norbert Niederkofler, è il perfetto riassunto di tutto ciò.

La storia parte da molto lontano, da semplice ristorante-pizzeria dell’albergo, evolvendosi progressivamente in ristorante gourmet pensato per una clientela sempre più internazionale e di alto profilo, fino alla drastica decisione, presa nel 2011, di eliminare tutti i piatti basati su ingredienti non autoctoni per concentrarsi su tre elementi che diventeranno i punti cardinali del nuovo progetto: territorialità, stagionalità e, soprattutto, nessuno spreco. L’obiettivo è stato negli anni pienamente raggiunto e il risultato costantemente raffinato con una cucina che da un lato resta sempre pienamente fedele alla filosofia di fondo, rispettando in maniera quasi religiosa i predetti principi, dall’altro unisce golosità e ricchezza a una grande eleganza e freschezza, data da un sapientissimo uso delle innumerevoli erbe e bacche di montagna presenti nel corso della degustazione, il tutto presentato con un’estetica minimale, di chiara ispirazione nordico-scandinava.

The Nature Around You

Il menù (unica opzione disponibile), dopo una serie di amuse bouche di grande impatto, come la Tartelletta di cipolla, sangue di maiale pastorizzato, formaggio BergGenuss (stagionato dentro un vecchio bunker della prima guerra mondiale) e la Bruschetta di bernia (carne di pecora frollata marinata con sale, vino e spezie), entrambi caratterizzati da sapori decisi e da grande intensità gustativa, vira immediatamente verso due piatti di rara eleganza, paradigmaici della cucina del St. Hubertus, e divenuti veri e propri classici.

Il primo è l’Insalata dell’orto composta da più di 30 tipi di erbe e fiori autoctoni raccolti giornalmente e condita con una kombucha di sambuco nella quale si alternano continuamente note balsamiche, amare, floreali e ogni boccone risulta diverso dal precedente, complice anche l’acidità della kombucha e del succo di erbe e mela, da sorseggiare in accompagnamento: in poche parole, la montagna in un piatto. Segue quindi la Tartare di coregone condita con una salsa tiepida ottenuta dalle carcasse del pesce stesso e vino terlano, leggermente acida e dalle note erbacee, con le squame a dare croccantezza in uno splendido gioco di consistenze e temperature; piatto che evidenzia più di ogni altro il rispetto per la materia prima nella sua interezza, senza alcuno spreco.

Tra gli altri highlight presenti in menù si segnalano in particolare la golosissima Anguilla porchettata, con lardo, laccata alla soia accompagnata dal suo brodo affumicato, piatto dagli evidenti rimandi giapponesi realizzato con una materia prima strettamente locale e il Ditalino di farro con estratto di selvaggina, bacche di crispino e radice imperatoria, ma senza dimenticare la Lingua ai mirtilli rossi in cui l’intensità e la concentrazione del fondo di verdure viene splendidamente smorzato e al tempo stesso esaltata dall’acidità del mirtillo.

Il reparto dolci inizia con il fresco gioco di texture dello Yogurt e ribes con topinambur e sambuco per giungere a una imperiosa Tarte tatin, pur terminando con il Buchtel da intingere in una crema di cera d’api: una pasticceria conclusiva che qui risulta essere tutt’altro che “piccola”.

Nota di merito, infine, a una sala che unisce rigore teutonico e calore italico, magistralmente gestita dal maître ed head sommelier Lukas Gerges, che amministra pure una carta vini di rara profondità.  Unico appunto che, a questi livelli, crediamo sia lecito fare, verte sulla staticità della proposta gastronomica, non prolifica come dovrebbe in termini di inventiva, la quale, anche considerata la scelta di proporre un unico menu degustazione, dovrebbe investire maggiormente, almeno ogni anno, su creatività e sperimentazione.

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Una panoramica

Laghi, montagne spettacolari, flora e fauna prospere e condizioni climatiche ideali sia in estate che in inverno. È una terra baciata dalla dea bendata l’Alto Adige, non c’è che dire. E se la felice combinazione di tutti questi elementi la rende una meta prediletta del turismo, nostrano e straniero, ciò che a noi qui più importa è come quest’area si riveli feconda dal punto di vista enologico.

A voler tracciare una rapida panoramica del territorio si vede infatti come qui vengano allevati oltre 20 vitigni diversi, sparsi tra il fondovalle e quote che raggiungono anche i 1000 m.s.l.m. A proteggere le viti dai freddi venti del nord ci pensano infatti le Alpi, che tuttavia non ostacolano l’arrivo da sud delle brezze proveniente dal Lago di Garda e dal Mediterraneo. Il sole risplende in media per 300 giorni all’anno, lasciando il giusto spazio alle precipitazioni, con un accumulo medio di 800 mm. Il suolo è estremamente variegato, con oltre 150 minerali diversi presenti tra i suoi meandri e matrici che mutano di zona in zona. Porfido vulcanico nella conca di Bolzano, roccia sedimentaria con quarzo, scisto e mica nella Val d’Isarco e nella Val Venosta, roccia calcarea e dolomia nella zona meridionale dell’Alto Adige.

Il risultato è un territorio estremamente variegato dal punto di vista paesaggistico, come sa bene chi sceglie di visitare queste valli, ma soprattutto ideale in termini di biodiversità. Il tutto ricompreso tra le ampie maglie di due denominazioni di origine controllata: Alto Adige Doc e Lago di Caldaro Doc; con la prima che si articola poi in sei diverse sottozone: Valle Isarco, Santa Maddalena, Terlano, Merano, Val Venosta e Colli di Bolzano.

Gli assaggi delle ultime annate

La parola chiave, insomma, è varietà. Varietà a livello di vitigni, di suolo, di territorio e ancora a livello di produzione, poiché sono oltre 5000 i vignaioli altoatesini. Non potendo parlare di ognuno di loro, abbiamo però voluto proporre uno spaccato dei loro vini, ripercorrendo l’Alto Adige in lungo e in largo.

Pinot bianco Weissburgunder 2021 – Himmelreich-Hof

Tanto frutto, con la mela verde e la pesca tabacchiera in evidenza, fiori bianchi. Qui troviamo una bella componente sapida ad accompagnare la freschezza e un complessivo timbro fine e sottile che è evidentemente il tratto distintivo dell’azienda.   

Riesling 2021 – Himmelreich-Hof

All’occhio un bel giallo paglierino carico con riflessi verdastri, al naso note dolci e agrumate che vanno verso i freschi sentori del pompelmo e del fico d’india. In bocca si potrebbe definire croccante. Un vino che scatta sul palato seducendolo con eleganza.

Sylvaner 2021 – Cantina Valle Isarco

Maestoso nella sua acidità, questo Sylvaner dalla fermentazione a temperatura controllata e maturazione sulle fecce nobili in serbato in inox, esprime appieno le sue potenzialità di invecchiamento grazie ad una buona freschezza. I sentori al naso sono di frutta gialla, una nota citrica ed erbacea. La sua spiccata sapidità lo innalza ad un vino di grande bevibilità, fresco e affilato al sorso.

Sauvignon “505” 2021 – Von Blumen

Di fronte abbiamo un vino intenso, di carattere. Nel calice si notano riflessi verde chiaro sul colore giallo paglierino predominante. Al naso, oltre alla nota di pesca bianca, è un’esplosione di sentori di foglia di pomodoro e peperone. L’acidità è sostenuta da una buona sapidità e nel complesso risulta persistente.

Sauvignon “Indra” 2021Girlan

Il profumo intenso e caratteristico di questo Sauvignon, ottenuto da vitigni sulle colline tra i 400-500m di altezza, restituisce aromi erbacei di ortica, e di fiori di sambuco, in concomitanza alla nota di frutta esotica croccante, al naso. L’ottima struttura si delinea in una buona freschezza al palato e nella concordanza conferma del frutto vendemmiato a maturazione ottimale.

Chardonnay 2021Terlan

Nel suo colore giallo paglierino brillante racchiude un bouquet dall’impronta riconoscitiva di sentori di frutta esotica e allo stesso tempo la mela, e le note più agrumate del lime. In bocca risulta morbido, arrotondato dunque dalla lunga sosta sulle fecce e allo stesso tempo fresco, con una buona nota minerale e sapida sul finale.

Gewürztraminer “502” 2021Von Blumen

Questo Gewurztraminer è l’equilibrio perfetto tra note sapide e fresche, morbido ma non eccessivamente, con una buona struttura. Il vitigno aromatico, da cui il nome, spicca donando un’importante nota aromatica di frutti esotici di cui il litchi si riconosce chiaramente. Persistente, di ritorno si ha un piacevole sentore di erbe aromatiche come la salvia.

Gewürztraminer “Concerto Grosso” 2021Elena Walch

Per il Gewürztraminer, come per altri vini bianchi alta atesini, la 2021 si è dimostrata un’annata particolarmente felice per la maturazione delle uve e la sua concentrazione di aromi. Nei suoi riflessi dorati, “Concerto Grosso”, esprime tutti i suoi sentori di note d’arancia candita, di miele e speziati di cannella e chiodi di garofano. Piacevole e di buona struttura all’assaggio, termina in un finale persistente e sapido. Un “concerto” appunto dalle varie sfaccettature del suolo da cui proviene e di una vendemmia “straordinaria”.

St. Magdalener Huck Am Bach 2021San Michael-Eppan

Dagli omonimi vitigni tra i 250 e i 500 m di altitudine, le uve Schiava e Lagrein si fondono nel tradizionale S. Maddalena Classico. Il color rosso rubino risplende dei sentori floreali di rosa, frutti di bosco, e di frutto croccante come la ciliegia matura. La succlulenza del frutto si conferma in una buona rotondità al palato, i tannini paiono vellutati e di levigata acidità.

Pinot Bianco “511” 2020Von Blumen

Affina, dopo la fermentazione, a contatto con i propri lieviti in recipienti in acciaio inox, per circa 6 mesi. Fresco e beverino, dal giallo paglierino vivo con riflessi verde chiaro, al naso rivela la croccantezza della mela e dei fiori bianchi, che si completa alla bocca con una buona fresca sapidità che lo rende perfetto per accompagnare piatti leggeri senza sovrastarli.

Pinot Bianco 2020Bessererhof

Un Weissburgunder, questo, beverino e piacevole, senza difetti. Il colore è un giallo paglierino scarico e nel calice si notano alcuni riflessi verdi delicati. Molto espressivo nelle sue note fresche di fiori e frutti bianchi che ricordano la mela verde, è rafforzato da una acidità equilibrata. Al palato presenta un buon attacco sapido che termina in una rotondità golosa.

Ploner Sauvignon 2020Plonerhof

Un bel giallo paglierino alla vista, con qualche riflesso verdognolo a fare capolino. Il naso è molto ricco, con la foglia di pomodoro seguita da note di fiori, ananas e fieno. Anche qui troviamo una bella nota sapida al palato, una struttura consistente e una generale piacevolezza che lo rende un vino gastronomico a tutto tondo.

Ploner Sauvignon “Exclusiv” 2020Plonerhof

L’Exclusiv accresce in positivo tutte le caratteristiche del fratello minore. Alla foglia di pomodoro si uniscono le note delle erbe aromatiche, la sapidità è ancora più evidente, la persistenza ancora più lunga.

Sylvaner Valle Isarco 2020 Bessererhof

Il suo è un colore lieve, un giallo paglierino stinto, che nel profumo delicato, poco presente al naso, sorprende al palato rivelandosi di carattere. La succosità della pesca e dell’albicocca si alternano ad una nota citrica che alla bocca si conserva donando struttura. La bella nota sapida e appuntita lo rende un vino piacevole, beverino e di buona fattura.

Kerner Valle Isarco 2020 Bessererhof

L’aroma vegetale di questo vino è spiccato, con note di pesca bianca e fiori di sambuco. C’è anche un residuo carbonico, che da una leggera e piacevole effervescenza. Kerner Valle Isarco sostiene bene l’accostamento ad un piatto leggero, a primi delicati, di pesce o insalate. Ha una buona persistenza e rimane gradevolmente in bocca.

Riesling “Geieregg” 2020 – Himmelreich-Hof

Si distingue dal fratello minore per il bouquet maturo, che richiama soprattutto l’ananas e la pesca gialla. Al palato si presentano evidenti vene sapide e il tutto fluisce in modo più corposo, ma con l’onnipresente piacevole freschezza che contraddistingue i vini di questa azienda.

Pinot nero Blauburgunder 2020 – Himmelreich-Hof

Rosso rubino tenue, brillante nel calice. Molto sottile, di grande finezza, a tratti ricorda i noti Pinot Noir di Borgogna, ma si distingue per un’evidente nota speziata che lo riconduce negli italici confini. Lampone, ribes rosso, un po’ di sottobosco e rose fresche. Media bocca esile, con una bella acidità e una generale gran bevibilità. Davvero piacevole.

Pinot Nero “514”2020 – Von Blumen

Procedente da un vitigno tra i più nobili e difficile, si riversa nel calice con un rosso rubino scarico, con un leggero riflesso violaceo, e preannuncia un bouquet di frutto rosso, lampone e amarena, che si impreziosisce di una bella nota speziata. Il tannino robusto tipico del vitigno si fa meno spigoloso nell’avvolgente morbidezza in chiusura di palato, confermandone una buona piacevolezza.

Pinot Bianco “Flowers”2019 – Von Blumen

Giallo paglierino scarico, al calice, la selezione “Flowers” di Pinot Bianco, esprime le sfumature di uno dei vitigni più rappresentativi dell’Alto Adige . L’aroma al naso è intenso, con sentori di fiori d’acacia e pesca bianca. Di buona freschezza e sapidità, la fermentazione in tonneaux per 10 mesi con frequenti batonnage ne imprime una piacevole nota tostata.

Sauvignon “Flowers” 2019 – Von Blumen

Il vitigno è originario della Loira, ma è coltivato in Alto Adige ormai da più di un secolo, potendolo definire un classico. Si riconosce dal colo giallo paglierino con delicati riflessi verdognoli, l’aroma di foglia di pomodoro, e ancora il bouquet polposo e rotondo tra note vegetali e fiori bianchi. Fine ed elegante, alla bocca risulta minerale e fresco, di buona piacevolezza.

Sauvignon 2019 – Bessererhof

Un Sauvignon molto convincente, che richiama lo stile francese. Si presenta di un giallo paglierino scarico e un leggero sentore di foglia di pomodoro, che rimane però delicato. Tra gli aromi, spiccano anche l’ortica e il mango con sentori meno netti che rimandano a fruttati esotico. Salato e dritto al palato, nella sua succosità di frutto è un vino completo e versatile.

Ploner Riesling 2019 – Plonerhof

Giallo paglierino carico con riflessi dorati. Una bella veste quella con cui si presenta agli occhi questo Riesling renano, che al naso esprime tutto il carattere del territorio dal quale si origina. Note di agrumi e pesca gialla, mentuccia e un accenno di miele. Il tutto articolato con grande freschezza e sapidità al palato, sul quale restano impresse a lungo le note gusto-olfattive di questo vino.

Ploner Pinot Nero 2019 – Plonerhof

Alla vista il classico rosso rubino con una delicata nota granata, ma qui c’è più estratto, il colore è più intenso e carico. Il naso è dominato dalla frutta, con note di lampone e ciliegia matura e una nota di rafano fresco; al palato appare evidente una decisa nota sapida, con una bella acidità di sottofondo e tannini per nulla invadenti.

Pinot Nero Riserva “Flowers” 2019 – Von Blumen

Brilla nel calice di rosso rubino, con riflesso granato, questa selezione della cantina Von Blumen. Presenta un’acidità equilibrata con un aroma complesso ed espressivo. Fruttato e speziato – di cui la permanenza per 12 mesi in tonneaux di rovere francese – ha una buona persistenza condotta dalla nota sapida.

Gewürztraminer 2018 – Bessererhof

Nel calice si apprezzano i riflessi dorati su di un giallo dorato di base. Il vitigno aromatico per eccellenza dell’Alto Adige si esprime a pieno e predomina, con sentori di ananas, litchi e altri frutti esotici. Al sorso risulta complesso, di acidità è gradevole terminando in una nota dolce di gustosa morbidezza.

Chardonnay Riserva “Fellis” 2018 – Bessererhof

Dei 10 mesi passati in botti di legno ad affinare, questo vino non conserva note di legno, vanigliate e balsamiche. Alla vista è un giallo dorato intenso con toni verdi mentre il naso risulta complesso e di struttura. Al palato emerge il tipico tratto distintivo dello Chardonnay, che si presenta grasso e polposo, con un’elegante acidità e una nota salata sul finale.

Ploner Pinot Nero “Exclusiv” 2018 – Plonerhof

Ancora un po’ più di estratto, ancora un po’ più di complessità. Qui fanno il loro ingresso le note legate all’affinamento in legno, con un leggero tocco di vaniglia e frutti dolci quali la fragolina di bosco. Al palato è avvolgente e setoso, acidità e sapidità continuano a essere presenti, la persistenza aumenta.

Viaggiare nella Storia, confortevolmente seduti a tavola

Il ristorante Apostelstube, una stella Michelin dal 2019, guidato da Michael Falk e dallo chef Mathias Bachmann si colloca al primo piano dello storico Hotel Elephant di Bressanone. Le mura, pressoché cinquecentenarie, incorniciano la sala in stile art déco che ospita in tutto quattro soli tavoli e dà luogo a un ambiente raccolto ed elegante. Una storia con la S maiuscola, questa, che diviene componente fondamentale della stessa esperienza gastronomica, in ottemperanza al luogo che lo ospita e al credo dello chef, secondo il quale: “il menù dovrebbe essere un viaggio dei sensi che lascia un segno indelebile nel tempo”. Ed è proprio con un viaggio che inizia l’esperienza, con un aperitivo servito in giardino che ripercorre le quattro tappe dello storico viaggio tra il Portogallo e l’Austria dell’elefante Soliman nel 1551, illustrate – e quasi recitate – dal personale di sala.

Un’esperienza cucita su misura, in base alle preferenze dell’avventore

La cena vera e propria prevede obbligatoriamente un menù degustazione ‘componibile’ che va dalle cinque alle sette portate e, accanto all’ampia carta dei vini, si completa con la possibilità di optare per l’accostamento al bicchiere, anch’esso modulabile. La scelta ricade sulle sette portate, che in molti casi prevedono un susseguirsi di ingredienti locali accostati a brevi fughe esotiche, per piatti del respiro più internazionale.

Non è il caso de i Fagottini ripieni di faraona, radicchio di montagna e nocciole, dove l’escursione culinaria si limita a reperire le – ottime – nocciole in Piemonte, rimanendo però nell’ambito dei confini nazionali. Fino al paese del Sol Levante vola invece il Piccione royale con spinaci, mandorle e jus di oni-yuzu: la cottura del piccione è magistrale, racchiusa da una crosta dorata e croccante; l’acidità dell’agrume nipponico è ben stemperata dall’avvolgenza della mandorla, in una triangolazione di ingredienti davvero ben riuscita. La Crema al latticello con rabarbaro, lampone e cioccolato Ivoire gioca con le sfumature acidule e chiude la cena riportando il palato al perfetto punto di equilibrio.

Una cucina estremamente precisa che, tuttavia, talvolta pecca, benché sottilmente, della componente emozionale. Non stupisce con colpi di scena, è più focalizzata nel proporre piatti rigorosi ed equilibrati e, in una parola, eleganti. Eleganza che si ritrova anche in sala, nel savoir-faire di Michael Falk, e che costituisce il fil rouge di tutta l’esperienza all’Apostelstube.

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