C’è una parola, una sola, che descrive l’esperienza di un pranzo da Angelo Sabatelli in Puglia, nella Monopoli delle cento contrade a ridosso degli scogli a mollo nell’adriatico.
Stupore.
Puntuale, ogni volta che ci torni.
Intanto la masseria, un ricordo di tutto quello che non è più: pietre vissute che resistono alle offese della zona industriale a ridosso del casello, fatta di lamiere e grandi insegne che forse sono messe lì apposta, come ad esaltare la meraviglia che poi, dietro di esse, si cela.
Poi per la cucina, che finalmente valorizza un territorio -di terra e di mare- generoso ed incompreso.
Infine per lo chef-patron, il suo sorriso incorniciato dalla barba, quel camice con la pinzetta infilata nel taschino quasi a voler estrarre con precisione le parole che sceglie per descrivere la sua storia, la famiglia, gli incontri ed i paesaggi, gli odori e i colori dei suoi piatti.
Venire qui sarà mettere in preventivo del tempo in più per quel viaggio nel viaggio, che a forchette ferme sarà ascoltare le sue esperienze intorno al mondo, a raccoglierle ordinatamente, resistendo alla tentazione di scrivere un romanzo e non più una recensione.
Sotto le volte e sopra le chianche che pavimentano la sala sarà subito manifesta la sua idea di accoglienza: un servizio efficace con tempi precisi, gentile e premuroso senza eccessivi formalismi governato dalla moglie con bel mestiere.
Una carta con tre degustazioni o una libera scelta, ampia quanto basta tra memorie di casa e suggestioni orientali, strepitose pagine di bollicine, poi vini bianchi e rossi tra territorio e penisola tutta. E stranieri a parte.
Pani di bella fattura con grissini e taralli. Prima di cominciare l’unico appunto possibile sarà per le luci, diffuse, disperse, forse suggestive ma periferiche rispetto alle sedute.
Subito una lunga serie di appetizer, quasi a sfogliare il block-notes dello chef. Idee, schizzi, intuizioni, sogni: quel datterino ad esempio, del quale vorresti cassette intere. Le chips di patate dolci, l’affumicatura della panna e il peperone crusco. E il fumo che torna nuovamente nella crema di melanzana con olive nere. E poi due piccoli capolavori con la zuppetta di pomodoro con fiori di begonia, pepe e caviale di salmone e l’allievo crudo, crema di mandorle e limone candito ammantati dal velo di seppia maculato di “liquirizia di mare” dove alghe, nero di seppia e riccio sono cristalli di purezza.
E’ l’inizio di un bel percorso, prima con antipasti di grande finezza come il piccolo filetto di sgombro ricco di suggestioni, l’interpretazione della melanzana nel suo caldo/freddo e i gamberi con una fantastica polvere di olio, poi con la certezza della pasta declinata nelle orecchiette, nei capellini ed in un risotto di grande fattura.
Dopo saranno pesce e carne: l’orata, dove le olive sono in salsa, la cicoria in olio e la curcuma in polvere, poi la pancia del maiale, con le rape in una ristretta salsa barbecue con caffè e senape e il vincotto sulla pelle.
Dopo tanto mestiere, qualche incertezza sui dessert, dove probabilmente si è ancora alla ricerca della giusta ispirazione, tra tentazioni dolci e derive salate. Qualche elemento si ripete ma solo a sottolineare una identità forte, una necessità proprio di chi ha vissuto a lungo altrove. Le olive innazitutto, icone del territorio pugliese, del suo paesaggio e dei suoi profumi. Il caffè poi, inteso come spezia con quella nota tostata, ed ancora i sentori arrostiti ed affumicati, a dare forza dove è richiesto un allungo di sapore. Una vera alchimia tra il territorio, questo del vicino oriente d’Italia, con gamberi rossi, ricci, olive, lampascioni, orecchiette e melanzane e gli echi di quello estremo, asiatico, con la curcuma, soya, daikon. Cucina a km zero comunque, non in senso geografico, ma intesa come elaborata con gli ingredienti che ti sono familiari, che appartengono alla tua storia
Ecco, Angelo Sabatelli è questa cosa qua. E avrà ancora molto da dire.
Angelo Sabatelli a parole.
Il lavoro in cucina visto dalla sala.
Particolare della mise en place.
I grissini.
Datterino, pane e pomodoro. Ricostruzione precisa. Un esercizio di stile già visto, ma qui portato alla perfezione assoluta. Polpa speziata di consistenza quasi liquida, piacevolissima. Sapore intenso.
Chips di patata dolce con crema affumicata e peperone crusco. Elegante presentazione, raffinata esecuzione.
Olive nere. Varietà mele. Fritte. Dolci. La Puglia e la sua materia prima.
Catalogna con maionese e latte di soya.
Crema di melanzana affumicata con olive nere. Il bicchiere della terra.
Zuppetta di pomodoro con caviale di salmone, fiori di begonia e pepe nero.
Velo di seppia con “liquirizia di mare” (alghe, ricci e nero di seppia in polvere) a celare allievo crudo, crema di mandorle e limone candito. Piccolo grande piatto.
Gamberi rossi con yuzu, polvere di olio ed erbe.
Sgombro marinato con salsa di limone arrosto, pomodoro arrosto, daikon e caviale affumicato.
Bianco e nero di melanzana arrosto. La voluttuosa polpa di melanzana glassata in una riduzione di olive nere impaginata tra i fogli di ricotta ghiacciata. Bella l’idea, perfetta la esecuzione.
Capellini spezzati, fagioli, cozze, farina di ceci e polpettine di seppia. Quasi una zuppa con una scelta di pasta adeguata.
Risotto con caciocavallo podolico, albicocche, polvere di caffè e di sedano. Mutevole al palato grazie alla dinamica degli ingredienti. Finale in progressione dell’amaro del caffè. Sabatelli con i risotti è a suo agio.
Orecchiette al ragout +30. Il numero è riferito alle ore di cottura. Le orecchiette sono opera di una delle ultime artigiane del territorio. La fonduta di canestrato compatta il tortino. La cucina di casa portata alla perfezione.
Orata con salsa di olive alla calce, olio di cicoria e curcuma. Una tradizionale concia delle olive con l’ausilio di calce viva per una salsa di straordinaria efficacia.
Pancetta di maiale su salsa barbecue e caffè, rape e semi di senape. La sua pelle e il vincotto.
Cialda di cipolla arrosto con fegatini di piccione, fieno greco e polvere di olive nere. La versione minimal del fegato alla veneziana.
Fragole al sambuco, panna e polvere di the verde.
Biscotto alle mandorle.
Bonbon di cioccolato fondente, lampascioni canditi e liquore di carciofo. Golosità, territorio e memoria in un piccolo gioiello per fine pasto.
Gelatine finali.
Eataly è l’esempio di alta imprenditorialità applicata. Oscar Farinetti, dopo la fortuna e il successo accumulato nella sua precedente esperienza, ha deciso di intraprendere una strada irta e difficoltosa con un obiettivo dichiarato: rendere il commercio del cibo di qualità un vero e proprio affare economico, sostenibile, ma sopratutto alla portata di molti.
E visti i successi collezionati nei punti vendita sino ad ora aperti in tutto il mondo, e la raffica di nuove aperture che lo attende, non possiamo che confermare questa affermazione.
Un grande imprenditore che, anche per passione, ha deciso di cavalcare un settore sicuramente a la pàge in questo momento. Riscuotendo non solo grandi successi economici ma anche curando, cercando di affiancarsi a loro, gli artigiani-produttori di questo incantato mondo fornendogli spesso la spinta propulsiva non solo per sopravvivere ma anche per crescere prosperosi e rigogliosi.
Eataly è il simbolo dell’alta qualità del cibo italiano nel mondo, al punto che il negozio sulla 5th avenue di Manhattan pare sia tra le cinque attrazioni più visitate della grande mela.
E di tutto ciò siamo molto orgogliosi, come italiani e come appassionati gourmet.
Peccato però che non sia tutto oro ciò che luccica: in occasione di una nostra visita nel negozio di Eataly di Bari, ci siamo imbattuti in un’esperienza che, purtroppo, si è ripetuta anche in passato a Milano e a Roma. Luci -molte- su un progetto che però presenta anche qualche ombra.
La nostra esperienza all’Osteria di Eataly Bari è stata esclusiva solo nel conto. 68 euro per i piatti che qui vedete fotografati possono essere molti ma anche pochi. Se però la qualità attesa non è rispettata, se le cotture sono approssimate, se le preparazioni risultano in alcuni casi troppo distanti da quanto è stato promesso in un luogo che dovrebbe esprimere grande qualità a fianco di numeri e quantità importanti allora è forse giunto il momento di raccontarlo.
Noi abbiamo sfruttato la possibilità di sedersi ai tavoli esterni, e di scegliere alla carta tra alcuni piatti dell’osteria e tra tutti i ristoranti tematici presenti nel complesso. Dal fornello, al ristorante bottega di pesce, all’Osteria appunto.
Abbastanza buoni i prodotti caseari, buone le patatine fritte, non unte, ben cotte e croccanti, appena sufficiente la frittura, che non dava l’impressione di essere stata preparata con materia prima fresca bensì congelata. Bocciate le bombette, troppo cotte e legnose, e il polipo, gommoso e scarico di gusto e sapore. Totalmente scentrato l’hamburger della Granda, con una carne di qualità non eccelsa che non ha sopravvissuto al secondo omicidio: una cottura davvero troppo, troppo lunga.
Siamo certi che sia stato solo un episodio infelice, il nostro. Conoscendo l’estro, la capacità e l’intelligenza del grande capo e la voglia spesso dimostrata di mettersi in discussione, siamo certi che raccoglierà queste nostre osservazioni come uno stimolo ed una serie utile di informazioni utili per migliorare.
Partendo, a dire il vero, da un servizio che invece è stato veloce, impeccabile, gentile e gioviale, seppur costituito in larga parte da giovani e giovanissimi che, con il sorriso sulle labbra, hanno sempre fatto sentire la loro presenza discreta.
Ripartiremmo da qui.
L’ingresso, con i quadri dei presidi di qualità della Puglia.
Un bel biglietto da visita.
Uno scorcio del piano terra.
La stupenda vista dal piano superiore, direttamente sul lungomare di Bari.
Un dettaglio della carta.
Le ottime patatine fritte.
La frittura, che non ci ha entusiasmato.
Buone la ricottina, le mozzarelle fiordilatte e la burratina.
Primo alt deciso: le bombette.
Secondo passo falso, il polipo.
Il colpo di grazia, l’Hamburger.
Tuccino chiude. No, Tuccino è aperto.
E Tuccino c’è, malgrado tutte le difficoltà di cui Pasquale, figlio del fondatore, è, nel dramma della propria battaglia contro la SLA, la coraggiosa icona.
Una cena in questo ristorante, per chi per lavoro o passione scrive di ristoranti, rappresenta una fonte di notevole imbarazzo. Perché non è possibile tenere il conto di quante volte ciascuno di noi abbia infatti lodato ottime materie prime, ricercate e diverse da quelle dei soliti noti -alcuni comunque eccellenti- convinto che nessuno potesse sostenere di aver provato qualcosa di decisamente migliore. Ed è dura riconoscere di esser stati pesantemente nel torto. Nella nostra fiducia nell’eccellenza, che ci ha portato a cercare perfino in Giappone il meglio, Tuccino molto probabilmente rappresenta, relativamente a pesci, crostacei e molluschi, un punto di riferimento.
Seduti a questa tavola ci si rende conto di quale sia la distanza fra una materia molto buona e la vera eccellenza, che colpisce ad ogni boccone con una sferzata di sapore, con un’intensità che non avevamo mai riscontrato altrove. Un gambero crudo (violetto di Gallipoli) con una complessità gustativa degna di un grande boletus edulis, una seppia di Porto Cesareo con una carica amara ai limiti del sostenibile, una triglia di incontenibile intensità, sono solo alcuni fra i bocconi che hanno costretto una tavolata di appassionati non certo nuovi a prodotti non convenzionali a pronunciare troppe volte per il proprio orgoglio la frase “questo è il migliore che abbia mai provato”. Il percorso gastronomico più lungo, impegnativo non solo per le porzioni abbondanti ma anche per le tante emozioni forti, è un vero ottovolante ittico che porta in tavola il meglio del meglio che il mercato (pardon, i mercati, perché la spesa viene fatta uscendo spesso perfino fuori regione) possano offrire. Peccato solo, in occasione di questa nostra visita, per ricci sottotono rispetto al livello qualitativo medio, serviti ugualmente malgrado la stagione non ideale.
Se il livello complessivo dell’esperienza gastronomica fosse quello della materia prima staremmo ovviamente parlando di un ristorante top a livello non solo nazionale, ma perfino mondiale. Invece sull’altro piatto della bilancia troviamo una cucina che, lungo gran parte dell’itinerario, sceglie la strada del profilo basso. Soluzione che appare non solo prudente ma anche saggia alla luce dei risultati che abbiamo riscontrato in un paio di portate più elaborate, in cui abbiamo constatato invece una certa difficoltà nell’andare oltre gli abbinamenti collaudati in modo convincente. Da registrare una correzione rispetto alla precedente recensione: la cantina, la cui carta abbiamo trovato in fase di -assai confuso tanto per noi quanto per il personale- aggiornamento, è prezzata in modo piuttosto corretto ma non in assoluto indimenticabile, in particolare al capitolo champagne.
Mousse di salmone su pane russo. Incipit non memorabile, ma avremo modo di rifarci.
Pane e taralli (confezionati).
Arrivano le dotazioni per il crudo. La prima rimarrà ovviamente inutilizzata sul tavolo.
Carpacci e tartare da leggenda. Triglia e scorfano in particolare. Pazzeschi.
Crostacei e frutti di mare, con cozze pelose e gambero un’incollatura davanti agli altri.
Ricci di mare, non al loro meglio.
Scampo in ghiaccio, gambero al sale. Si torna su. Ma tanto tanto.
Polpo al Primitivo con zenzero in agrodolce, cappesante al ginepro: passaggio assai poco convincente tanto nelle singole preparazioni quanto nel loro accostamento.
Un assaggio di fritto. Si torna a volare.
Intermezzo vegetale.
Orecchiette impastate al nero di seppia con vongole veraci, gamberi rossi, fiori di zucchina e pomodorini. Preparazione ghiotta, dall’esecuzione opulenta ma non stucchevole.
Spigola in crosta di patate, insalata di stagione. Buon secondo, anche qui molto ‘concreto’ nella realizzazione. Non chiarissima la relazione gustativa con le insalate scelte, ma son dettagli, davanti ad una materia prima e, in questo caso, anche a una cottura di ottimo livello.
Sorbetto di limone e mandarino. Assai dolce.
Millefoglie e insalata di ananas. Nella millefoglie meglio la sfoglia di una crema davvero troppo carica di amidi.
I vini della serata.
Dettagli del magnetico banco del pesce.
Visitare un ristorante in un periodo come quello natalizio non è, notoriamente, la maniera migliore per conoscerlo: menù unico e pance già piene dei bagordi familiari non sono sicuramente il viatico per una valutazione oggettiva.
Ci siamo sentiti di fare un ulteriore passaggio da Angelo Sabatelli in una giornata di Santo Stefano solo perché l’ultima visita era abbastanza vicina e aveva dato ancora una volta prova della solida consistenza dello chef e di tutta la sua équipe.
Alla prova dei fatti, solidità e consistenza confermatissime, perché anche in questo passaggio l’esperienza è stata assai piacevole, senza sbavature, quella che ci si deve (e fortunatamente ci si può) aspettare in un ristorante di alto livello.
A chi non conosce questi territori sembrerà strano, ma solo dieci anni fa augurarsi di trovare un ristorante “gastronomico” da queste parti era pura utopia: a fronte di materie prime formidabili, la Puglia era dominata da una ristorazione fatta nel migliore dei casi di buone trattorie e, più spesso, di logore proposte concentrate su decine di antipasti e riproposizioni di piatti tradizionali (o, peggio, maldestre fughe in territori ignoti). Le rarissime eccezioni (su tutte, il mai troppo lodato Franco Ricatti) erano spesso costrette a ricercare altri lidi o a servire una nicchia di fedelissimi.
Oggi non è più così e ci pare questa una delle prove della vitalità della cucina italiana che rincuora, soprattutto in un periodo non particolarmente florido per il paese.
Il menu natalizio è stato davvero un bel viaggio tra territorio e contaminazioni, molto misurate, senza vette altissime ma senza cadute, con un avvio che entusiasma per la cura messa anche nei dettagli (mai mangiati taralli così buoni) e una grande continuità, con la nostra comprensione per la prudenza seguita (un menù che deve essere capito e apprezzato da nonne e nipoti, viste le circostanze, non può che essere così).
Sala guidata con professionalità e cortesia dalla moglie dello chef, bella la carta dei vini (separata in due tomi –bianchi/champagne e rossi- e ricca di referenze italiane ed estere) ma troppe le etichette “sbianchettate” perché esaurite: da appassionato, non c’è niente di più frustrante, anche perché spesso sono vini tra i più interessanti.
Voto confermato, con arrotondamento per eccesso, ripromettendoci nelle prossime visite di testare anche piatti in cui lo chef decida di dare più spazio a idee e ambizioni più alte.
Gli “stuzzichini di benvenuto”.
Gamberi rossi affumicati, cavolfiore arrosto e caviale vegetale: materia prima esaltata dalla mano sapiente. Nessun volo pindarico, ma piatto difficilmente migliorabile.
Zuppa di cicerchie e baccalà, con cicoria e capocollo appena piccante: il territorio nel piatto.
Risotto al limone, con crudo di tonno rosso e liquerizia di mare: la “liquerizia di mare, ottenuta con alghe e nero di seppia, potrebbe essere più incisiva, ma il risotto è cucinato alla perfezione (foto in apertura).
Guanciotta di maiale, sedano rapa e tartufo nero: certo non è il piatto che stravolge il gourmet più smaliziato, ma la realizzazione è impeccabile.
Bottoni di cioccolato con pere, whisky e panettone.
Frivolezze di fine pasto: torrone (superlativo), gelato al panettone, sfoglia croccante alla nocciola, cartellate (solo buone), in un piccolo sunto dei dolci natalizi pugliesi.
Primo piano (dopo primo morso) dell’inarrivabile tarallo, che ricorderemo a lungo.
Monopoli-Roma-Jakarta-Hong Kong-Shangai-Mauritius-Monopoli.
Questo l’esordio quantomai azzeccato, sintetico e puntuale della scorsa scheda scritta su Angelo Sabatelli. Un concentrato della sua cucina, del suo viaggio e del suo ritorno in patria.
Ha coraggio questo cuoco, che ha fatto esperienza in terre lontane e torna a casa per riproporle e contestualizzarle in maniera mai banale e a tratti molto originale. Siamo di fronte ad un grande interprete che, in quello che, probabilmente, in questo momento è il miglior ristorante di Puglia, declina la sua storia in una maniera tutt’altro che scontata, vista anche la difficoltà del contesto.
Ci sentiamo di applaudire a questo coraggio ma anche alle indubbie qualità nella ricerca di equilibrio, la giusta definizione di questa cucina. Che insegue contrasti lievi, sussurrati, eleganti ma molto persistenti.
No, qui non siamo al cospetto di una cucina dolce ma di una cucina dall’equilibrio trovato all’interno di una timbrica delicata e avvolgente. Che intreccia l’innovazione, quella sana, con la tradizione di una terra che ha tanto da offrire in termini di prodotti e materie prime. Tutte ben rappresentate da questo ristorante che può essere giustamente considerato un vanto della terra pugliese. Questa è la vera fusion, per niente confusion.
Prendiamo la variazione di gamberi: l’uno tagliente e pungente, a cui lo sprint è dato da capasanta essiccata ripassata in aglio, olio e peperoncino e crema di nocciola. L’altro delicato e rotondo, con latte di mandorla, caviale affumicato e funghi secchi. Un rincorrersi di sapori, sensazioni d’oriente e prodotti local, di profumi e di consistenze davvero formidabile.
O come il formidabile riso alla salsa di cipolla e anguilla laccata, in cui il bilanciamento delle sapidità e delle acidità, non scontate, ha donato ad un piatto di marcato imprinting grasso-dolce una persistenza ed una lunghezza infinite.
Sì, lunghezza, persistenza. Come quella di un grande e fine vino di Borgogna, forse più Chablis in realtà… sussurrato e quasi etereo, ma emozionalmente lungo e persistente agli occhi attenti e non sprovveduti.
Un plauso alla sala, capitanata dalla moglie di Angelo e dal valido sommelier, che saprà accudirvi e accompagnarvi in questo viaggio intorno al mondo, che parte ed arriva in Italia, pardon in Puglia.
Una carta dei vini dalle referenze importanti e tutt’altro che banali, con una attenzione ai vini naturali e sopratutto ai vini buoni, completano il quadro di questo delizioso ristorante che, non dimentichiamolo, è immerso in un resort di lusso in questa fantastica terra del nostro sud.
Qui Monopoli, avamposto di avanguardia culinaria pugliese.
I fantastici taralli ai 5 cereali, le dita degli apostoli e i grissini al grano arso e mosto cotto di fichi.
Il compagno della degustazione.
La puglia contaminata nel piatto.
Riccio al naturale
Rocher di tonno crudo, polvere di pop corn e salsa rosa
Gambero fritto con salsa di uva passa e gamberi
Macaron al foie gras e mandarino candito
Capocollo di Santoro su pane soffiato ripieno di cicoria
Sfoglia tartufo nero pregiato burro e alici di Cetara
La fantastica variazione di gamberi, qui il dettaglio.
Crema di fave bianche, cicoria ostriche e pane.
Definito da un giornalista il negativo dell’omaggio a Monk. Liquerizia di mare (salsa ottenuta con alghe, nero di seppia e ricci di mare), spuma di mare, canocchie gratinate e funghi cardoncelli.
Melanzana fondente, maialino allo zenzero, foie gras.
Riso al succo di cipolla e anguilla laccata.
Raviolo di pomodoro con burrata.
Orecchiette con ragù cotto 30 ore e canestrato.
Ombrina, carciofi, menta e salsa d’ostrica.
Maialino, puntarelle e crema di patate tartufate.
Incredibile sorbetto alle spezie orientali.
Gelato di zabaione al moscato di Trani e mandorle.
Ottima prova di pasticceria: lingotto al cioccolato.
Dolce non dolce da fondo scala. Liquore ai carciofi, lampascioni canditi e bon bon di crema gianduja.
Piccola pasticceria.