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La cucina nell’Alma – Secondo Piatto

La cucina centrale e la vita di brigata

Dopo circa un mese dall’inizio del Corso Superiore di Cucina Italiana, già dalle 6.00 del mattino, i ragazzi popolano la Cucina Centrale: questo spazio, del resto, è operativo tutti i giorni e, dalla colazione alla cena, scandisce i tempi alimentari della scuola mentre provvede, tra l’altro, al rifornimento del bar accademico, all’organizzazione dei banchetti, delle feste, ed è decisiva in tutte quelle occasioni, istituzionali o meno, che vedono impegnata col mondo esterno La Scuola Internazionale di Cucina Italiana di Colorno.

Arriviamo nel bel mezzo del primo turno, quello che va dalle 6.00 alle 14.00 e, precisamente, alle 10.30 di un mercoledì mattina d’inizio estate: fuori, la colonnina di mercurio segna già 30 gradi mentre dentro, e nonostante i fuochi, i forni e le piastre accese, circola un’aria corrente fresca, foriera di tutti i profumi che si levano dalle preparazioni che già arrostiscono, sfrigolano, stufano, brasano, sobbollono: vellutata di sedano e patate; risotto al pomodoro e mozzarella di bufala; polpette al pomodoro; spaghetti coi moscardini; stinchi con gli asparagi; faraona al rabarbaro e tartufo nero; taccole in padella e patate arrosto sono solo alcune delle preparazioni presenti in menu nella giornata di oggi, 26 giugno 2019. 

Istinto

Lo chef presente stamattina, coadiuvato dai tre assistenti in grembiule bianco, ciascuno diviso per partita, è Giuseppe Pellegrino il quale ci spiega che una struttura tanto complessa come la Cucina Centrale si fonda invero forse su un’unica, semplicissima regola, da cui discendono tutte le altre: etica del prodotto e della materia, che hanno come immediato corollario l’esigenza di non fare sprechi e, in generale, rispettare l’imperativo del bello come sinonimo di buono che, come quasi tutto, qui, arriva da Gualtiero Marchesi. Tutto questo chef Pellegrino ce lo spiega dando le spalle alla cucina, eppure un istinto antico e primordiale gli dice quando girarsi, sempre un attimo prima che qualche alunno ne reclami l’attenzione. Come in ogni brigata che si rispetti, peraltro, i cuochi-alunni già si muovono nell’algoritmo di una coreografia collettiva scandita dalle lancette dell’orologio che ha una prima, temutissima dead-line: alle 11.20 il pass dovrà essere completamente libero per accogliere le pietanze sui vassoi di servizio: tre piatti caldi, una zuppa fredda e tre secondi, per tre turni di servizio: 12.00, 13.00 e 14.00 per un totale, oggi, di 385 persone da mettere a tavola che, nel fine settimana, con gli eventi e le ospitate, possono arrivare anche a 1000. 

Trasversalità

Alma è, del resto, un modo estremamente, eminentemente professionalizzante. Come tale, tutto ruota  attorno al prodotto e a una cucina cucinata che non è fatta di mere ricette, ma di metodi per realizzarle. È quanto ci racconta chef Laura Torresin, anche lei chef di Cucina Centrale, che argomenta insistendo  sul doppio binario tra teoria e pratica che alberga nella Scuola: “Benché la teoria venga sempre prima, nel mondo accademico di Alma ogni studente assiste alle dimostrazioni, che poi è chiamato a ripetere non solo individualmente ma anche collettivamente – ed empiricamente – nelle lezioni dell’aula Mater e, ovviamente, in Cucina Centrale, che è appunto l’anima di Alma“. È qui che si consuma la vita della brigata propriamente detta, quella che prevede dei ruoli e una gerarchia che però in Alma è più fluida, perché ogni studente deve imparare a coprire ciascun ruolo, trasversalmente. Ecco un’altra delle grandezze di Alma, far cimentare i ragazzi in tutte le partite in modo da cementare le competenze da ogni angolazione. “Per questo motivo il confronto coi Professori Di Malta e Pellegrino è quotidiano:  dobbiamo discutere in merito alle specificità di ciascun alunno, al fine di conoscerne punti di forza e di debolezza perché, non dimentichiamolo, Alma insiste molto sulla personalità di ciascun alunno. Chiaramente, dobbiamo confrontarci anche per provvedere agli ordini della Cucina Centrale, che affronta quotidianamente tante realtà – e tante criticità – oltre a dover assorbire tutte le preparazioni in programma nelle lezioni, nell’ottica di quella trasformazione e di quel riutilizzo che, del resto, è alla base della cucina non solo professionale, ma anche domestica italiana.”

Senso del tempo

Controllo e comunicazione sono, in definitiva, i due motori propulsori di quell’organismo complesso che è la Cucina Centrale che è l’esatta materializzazione, benché in grande, di quello che avviene nella cucina di qualunque ristorante. La Cucina Centrale è, per certi aspetti, il luogo del vero o, come preferisce chiamarla Antonio Di Malta che la Cucina Centrale la pianifica, la organizza e la rende reale quotidianamente grazie anche alle preziose propaggini dei suoi assistenti (anche lui ha incominciato, in Alma, come assistente): “È il luogo dell’azione, il luogo del vero: la prova provata che stai lavorando bene con la tua classe.” È altresì il luogo del tempo: nel senso che in cucina il tempo ha un valore del tutto relativo: non bisogna solo rispettarlo, bisogna costruirlo materialmente, dilatandolo o al contrario contraendolo a seconda dell’intervallo che separa dal servizio. “Senza dimenticare – prosegue  Di Malta – di fare tesoro di ogni momento libero che, comunque, dovrebbe sempre essere un momento di apprendimento. Una cosa che non deve mai smettere di fare un cuoco è chiedersi il perché delle cose, è questo l’unico modo per trasformare la passione per la cucina – che, come tutte le passioni, è  passeggera – in un interesse che, per sua natura, è invece duraturo. È questo il segreto di un’esistenza felice e, forse, anche del concetto di evoluzione che riguarda l’individuo nel suo insieme”; un’evoluzione dove il concetto stesso di brigata altro non è che la metafora di una gerarchia cui si è sottoposti anche nella vita, e dalla cui struttura c’è solo da imparare.

Le Cene d’Autore

Cos’hanno in comune le capesante e il midollo? E qual è il legame tra le nocciole e i ceci? E ancora, cosa lega l’oliva taggiasca all’amarena?

Ci muoviamo in una sottile linea d’ombra, che è una linea di concordanza, o d’indeterminatezza, se vogliamo, che ci ha provocato più di un entusiasmo: tutto a un tratto, siamo di nuovo tutti bambini, bambini che, divertendosi, imparano. (Non è questa, forse, la chiave di volta dell’esistenza tutta?)

Ma, prima di arrivare alle risposte, vi dobbiamo almeno qualche altra spiegazione. Da qualche tempo ci siamo ripromessi di raccontarvi, qui su Passione Gourmet, i passaggi salienti del Corso Superiore di Cucina Italiana di ALMA, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana.

Quello che state leggendo è il resoconto di uno di questi passaggi: stiamo partecipando a una de Le Cene d’Autore: questa, in particolare, è realizzata sotto l’egida di Matteo Baronetto, Chef del ristorante Del Cambio di Torino. Gli allievi, sono quelli della 44° Edizione del Corso Superiore di Cucina Italiana, Sezione A.

Matteo Baronetto ad ALMA

Matteo Baronetto, classe 1977, comincia a cucinare giovanissimo dai pass della Scuola Alberghiera di Pinerolo. I suoi primi passi, professionalmente, li muove a Erbusco, da Gualtiero Marchesi, dove lavora con Andrea Berton, Davide Oldani e, soprattutto, con quello che diventerà il suo mentore, Carlo Cracco, con cui anni dopo inaugura Cracco-Peck a Milano. Quando capisce che i tempi per lui sono maturi, prende da solo le redini del ristorante Del Cambio di Torino, consegnando a nuova vita una delle insegne più prestigiose d’Italia. 

Ma la star non sono io – precisa subito lui – sono loro, i ragazzi che hanno lavorato con me in questi anni e quelli che lo hanno fatto stasera” dichiara perentoriamente. Chef e secondo sous-chef – Lorenzo Colombo, diplomato anche lui al ALMA, al 19° Corso Superiore di Cucina Italiana, per la precisione, 9 anni orsono – sono arrivati qui 12 ore fa. Coi ragazzi della sezione di oggi hanno lavorato ininterrottamente alla preparazione della linea per la cena di questa sera: “si tratta – secondo Matteo Berti, Direttore Didattico della Scuola – di didattica operativa, poiché fa vivere un’esperienza vera sotto l’egida di uno chef  come Baronetto” che, lo ricordiamo, è al vertice di un’azienda, il suo ristorante, dove operano circa 90 persone.

A scuola di pensiero…

Matteo Baronetto, come si faceva un tempo nelle accademie, che erano accademie del pensiero, prima ancora che della scienza, ha portato in ALMA un concetto, un filone che intende sviluppare al ristorante Del Cambio. Come si diceva in apertura, si tratta del tema della concordanza, spesso inaspettata, di sapori o consistenze tra ingredienti anche molto lontani tra loro. “Si tratta di un lavoro più sulla percezione che sulla materia stessa, e difatti uno dei temi più rilevanti, per me, è sempre stato il rapporto tra le aspettative del cliente e quelle di chi cucina per lui.” Ovvero, il punto di contatto tra due interiorità che si incontrano e, attraverso il codice comune del pasto, comunicano negoziando le rispettive aspettative. 

L’istituzione di un lessico comune

Secondo queste premesse, potremmo considerare il “fattore concordanza” come l’istituzione di un vocabolario,  un lessico condiviso, tra due interiorità, quella dell’autore (il cuoco) e quella del fruitore (l’ospite), d’accordo entrambi sul fatto che, per esempio, il cece e la nocciola concordano tra loro, ovvero comunicano, sul registro del legnoso, così come Matteo ci aveva pazientemente anticipato nel pomeriggio.

Lavorando sulla percezione, oltretutto, si spalanca quello che, in filosofia, è considerato il mondo della fenomenologia, ovvero il mondo del fenomeno – ciò che appare – in relazione al noumeno – ciò che è – di scuola kantiana.

Seguendo questo tipo di approccio, secondo Baronetto è più facile avvicinarsi al noumeno, ovvero all’essenza delle cose, compresa l’essenza dello chef che, così facendo, isola il proprio stile, trova la sua identità di uomo senziente e, in seconda istanza, anche di cuoco. “Ho scoperto tardi quanto fosse importante che la mia brigata assaggiasse ciascuno dei miei piatti finiti, ma quando l’ho scoperto è stata una rivoluzione, un approccio che mi ha insegnato a capire come venivano interpretati, e dunque percepiti, i miei piatti” e, per estensione, come era percepito lui come individuo.

La concordanza in cucina, e nella vita

È da questo scambio di percezioni che, in definitiva, s’impara. Quel che abbiamo imparato stasera è che l’oliva taggiasca e l’amarena rimano tra loro sulla base di una precisissima salienza percettiva: un’amarezza agrumata e salata, tanto divertente quanto irresistibile.

Ma non solo, perché s’è poi scoperto che il veicolo, il canale espressivo di questi sapori, tanto vicini quanto lontani tra loro, doveva radicarsi, per esprimersi, su una base lipidica che, in questo caso, era la tela di una semplice, virginale panna cotta. Per amore di cronaca, tuttavia, dobbiamo anche ammettere che non è la prima volta che Baronetto ci fa sobbalzare dalla sedia con link simili: lo aveva già fatto prima col veicolo lipidico del midollo che era anche l’elemento di congiunzione tra l’umami puro del brodo di fagioli con quello, più dolce, della capasanta, una combinazione che quasi ci aveva mandato in deliquio.

Con ALMA – continua lo chef – c’è un rapporto di amicizia e collaborazione. Ma, come tutte le vere scuole, ALMA serve dopo. Serve tra 10 anni, ovvero quando cominci a rapportarti con te stesso criticamente, a mettere in dubbio chi sei e cosa fai. È lì che stai crescendo. È lì che ALMA ti assiste, mostrandoti che hai acquisito gli strumenti base necessari non solo a cucinare, ma anche a vivere.

La Galleria Fotografica:

I tre moschettieri di Lucca verso una roboante maturità, con vena classicheggiante

I tre moschettieri, il grande romanzo di Alexandre Dumas, racconta le vicende di tre personaggi carismatici – Athos, Porthos e Aramis – a cui poi si aggiunge il protagonista del romanzo, D’Artagnan. Caratteri sfaccettati, chi sornione, chi guascone, chi sciupafemmine impertinente. Tutti accomunati da  classe, eleganza, forza, fermezza e umanità.

Crediamo che nella nostra metafora i tre moschettieri siano Stefanini, Rullo e Terigi  e che D’Artagnan, il protagonista, altri non sia che la loro casa d’accoglienza: Il Giglio, quale summa di queste tre grandi individualità. E, per onorare il grande romanzo francese, cosa c’è di meglio se non una stupenda tourte de pigeon au foie gras?

Stile Neo-classico contaminato da avanguardia gustativa altisonante

Si riscontra chiaramente che i tre, dotati di forti basi fondamentali, provengono da una grande scuola, una scuola di cultura – e didattica di profondità – com’è l’Alma di Colorno. Un percorso che li ha segnati indelebilmente, fornendogli una cultura culinaria – e una tecnica – profondissime che, oggi, mettono al servizio di una cucina giovane, briosa, scintillante ma, al contempo, anche ricchissima di richiami classici e affondi nella storia.

Una cucina che fa del registro acido la sua cifra stilistica, della pressoché totale assonanza gustativa e della compenetrante uniformità uno stile unico e coerente, comune. Un percorso in cui ciascuno mantiene le proprie caratteristiche, e un pizzico di originalità distintiva, ma la mano sembra unica ed è così efficace da enfatizzare i pregi di ciascuno obnubilando i difetti, come accade nel capolavoro dei bottoni di lievito madre in brodo di radici.

In questo piatto si riscontra immediatezza di gusto, italianità che varca i confini sottilmente nonché stimoli multi-culturali continui. La cucina di questi tre baldi giovani ha assestato colpi di classe col piccione, la torta e un paris brest da antologia, affiancati a piatti più audaci come i succitati bottoni, il consommé di pollo, il fantastico asparago coi ricci e l’immensa minestra di triglia.

La valutazione, non piena, è assegnata per la prospettiva certamente felice: col nostro migliore augurio che diventi tale, e si consolidi, molto presto.

Ottimo il servizio, giovane, attento e spigliato; piacevolissima la cantina, studiata e alternativa, ricca di proposte originali, super-naturali o molto estreme, così come la cucina di questi tre giovani moschettieri, di cui sentiremo certamente parlare a lungo.

La galleria fotografica:

La cucina del Maestro

C’è un elemento che scandisce la vita accademica di ALMA. Inaspettato, spontaneo e liberatorio, è l’applauso che, levandosi, anima tanto i laboratori quanto la didattica. Lo stesso applauso che, stamattina, apre la lezione su Gualtiero Marchesi, al cui ritratto è precisamente indirizzato.

A condurla, una combinazione d’assi della didattica: toque bianca in testa l’uno, libro alla mano l’altro, Chef Bruno Ruffini e Professor Luca Govoni ricordano che, all’unisono, Gualtiero Marchesi fu, tra i tanti ruoli e le tante cariche ricoperte, anche Rettore di ALMA sin dall’anno della sua fondazione. 

La storia della Cucina Italiana

“Nella vita, se si è fortunati, si ha più di un Maestro; ma è una parola, questa, da non usare a sproposito: perfino per me, che non ho mai voluto essere cuoco, era lui il mio Maestro”, confessa Luca Govoni, Docente di Storia e Cultura di Cucina Italiana che, prosegue, insistendo sui molteplici modi che aveva lui d’esser tale: perché Marchesi ha formato una generazione di cuochi la cui mano – marchesiana – è riconoscibile in tutti i piatti e, cionondimeno, ha anche fatto in modo che ciascuno di questi cuochi prendesse la sua strada e, nel corso della Storia, imprimesse il suo segno: la sua storia. “Però vi devo anche dire che, negli ultimi tempi,  ero riluttante a utilizzare la mia macchina per le nostre trasferte: era molto malato e io già vedevo i titoli sul giornale Professore di Storia della Cucina Italiana uccide la Storia della Cucina Italiana! Risate. Ride lui, rido io, ride tutta l’aula.

A spezzare l’attenzione, ad ALMA, non sono solo gli applausi…

Arte & Cucina

E difatti si dirà che nell’unica pausa prevista, in una lezione di quattro ore, invece di uscire al sole, già primaverile, di questa giornata di metà marzo un nutrito gruppo di alunni si è invece riunito attorno al pass dove Chef Ruffini ha appena realizzato alcuni dei piatti più iconici del Maestro. “Ma proprio i suoi piatti più iconici – precisa – sono anche impossibili da realizzare in maniera fedele: il motivo, lo si evince facilmente ma prima devo fare una digressione: io non sono tra quei cuochi che crede che la cucina possa essere arte. Non ci ho mai creduto. L’unico cuoco per il quale sono disposto a rivedere questa mia posizione è, però, proprio Marchesi che era, a modo suo, un artista. Per cominciare, faceva parte del tessuto culturale della Milano di Arnaldo Pomodoro e Piero Manzoni e, difatti, questi piatti gli erano stati commissionati dalla rivista Stile Arte per cui lui traduceva le opere d’arte in cucina. Così, dall’opera di Caravaggio aveva creato Riso Oro e Zafferano, mentre la Seppia al nero era d’ispirazione fiamminga e il Teatrino di Lucio Fontana aveva invece dato origine a il Rosso e il Nero. Era un processo creativo trascinante, il suo, tanto che se oggi possiamo permetterci di pensare “avrei potuto farlo anch’io, è solo perché l’ha fatto lui, prima di tutti noi!”

Lo potevo fare anch’io!

Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte di Francesco Bonami è anche il libro che Luca Govoni stringe tra le mani, e che legge agli alunni, mentre su un maxischermo si susseguono le immagini delle tavole imbandite della Eat Art di Daniel Spoerri, le performance di Jannis Kounellis e quelle del situazionista del Pad Thai Rirkrit Tiravanija accanto agli affreschi del Pontormo, alla Merda d’artista del già citato Piero Manzoni, alla Mozzarella in Carrozza di Gino De Dominicis – altre risate… – alla Vucciria di Renato Guttuso fino allo straniamento indotto dalla performance This is so contemporary di Tino Sehgal.

Dripping di pesce e libertà

Ci si nutre d’arte, a lezione di cucina con Ruffini e Govoni e, così facendo, ci si sente liberi. E difatti dopo la realizzazione del Dripping di pesce parte un altro applauso: “si tratta di una tecnica anti-tecnica – spiega Ruffini – che sovverte anche le regole della cucina perché, differentemente da qualunque altra ricetta, non permette a nessuno di riprodurre il piatto in serie. I gesti, che poi sono gli stessi gesti di Jackson Pollock, non sono codificati, tanto che lo stesso Marchesi poteva rifarlo, certo, ma mai uguale al precedente.

In questo piatto la linea è come la tavolozza dei colori: come fosse un pittore, lo chef lavora con una campitura di maionese – diluita con acqua – perché fondamentale è la densità degli ingredienti, che sono i nostri colori: la salsa di pomodoro è setacciata e ristretta, quella al nero di seppia idem, così come la salsa al prezzemolo, deve esser materica. Abbiamo poi bisogno di vongole, meglio se vongole grigie, o poveracce, e dei calamaretti spillo, appena sbollentati, e poi scolati.”

Applausi, risate, e domande…

Quel che si evince subito è che questa lezione non vuole chiudere il discorso, vuole aprirlo. Non propone una risoluzione ma domande che, appunto, si tengono e s’inanellano l’un l’altra: nel momento in cui Marchesi usciva in carta con questi piatti – chiede un alunno – l’idea era quella del cuoco, o dell’artista? C’è un collegamento tra gli artisti che seguiva Marchesi? chiede un altro… Perché mettere un bordo ai confini del piatto, quando Pollock non ha mai messo una cornice? E, ancora: in questo piatto è venuta prima l’idea o la materia? “Ecco, nel caso dell’Insalata di animella con soia e sesamo – spiega Ruffini – nasce prima il piatto e poi l’opera, nel senso che è il piatto ad esser stato accostato all’opera di Jean Fautrier Otages, ovvero, ostaggi: si trattava di un pittore francese che impresse le sue sensazioni su tela, dopo aver assistito alle torture dei prigionieri uccisi dai nazisti: erano opere cruente, che mostravano la violenza, la crudeltà e, in ultima analisi, liberavano un espressionismo astratto potentissimo.” 

È una lezione di vita, questa, prima ancora che d’arte, o di cucina. È una lezione in cui, con mano leggera, docenti e alunni esplorano le categorie estetiche e semiotiche del buono e del cattivo, dell’utile e dell’inutile, del pieno e del vuoto, del presente e dell’assente come nell’Achromes di branzino, “che Marchesi realizzò riprendendo una serie di opere di Piero Manzoni dove, per esprimere una certa sensazione di vuoto, o di assenza, l’artista comprese di dover aggiungere l’immateriale”.

Una lezione, insomma, che è stata mille lezioni in una e, per noi che l’abbiamo vissuta, e assaggiata, un piacere, nonché un onore, da raccontare.

C’è fermento in ALMA

La volta scorsa vi abbiamo parlato del grande buffet allestito dagli studenti in occasione della fine del Corso Superiore di Cucina Italiana. Quel giorno, facemmo anche irruzione nelle tre aule dove questi lavoravano, e dov’era tutto un brulicare di preparativi che alle pietanze sembravano mescolare l’adrenalina tangibile. In una di queste aule, i ragazzi lavoravano sorridenti muovendosi al ritmo virile e rullante del Rock & Roll. Era l’aula di Fulvio Vailati Canta, docente e responsabile di Pasticceria del Corso Superiore di Cucina Italiana.

Identikit:

Fulvio Vailati Canta, lodigiano, in ALMA da quasi 5 anni. Prima? Avevo una laurea in veterinaria, che non esercitavo, per dedicarmi, da autodidatta, alla cucina professionale. Ero un cuoco di circa tre anni quando realizzai, dopo la mia prima partita di pasticceria, che era una materia che eseguivo senza capire: fu così che mi iscrissi al Corso Superiore di Pasticceria di ALMA; lo stage che seguì, dagli Alajmo a Le Calandre, si trasformò in un’esperienza lavorativa di oltre tre anni.  

Perché la pasticceria?

Perché un quarto dei piatti sulla carta, è rappresentato dai dolci. Perché il dolce è l’ultima cosa che serviamo al cliente: il suo ultimo ricordo. Perché in Italia abbiamo cuochi di grandissimo spessore e gusto, ma la pasticceria parte da un presupposto diverso: non ha niente a che fare con la nutrizione, non deve sfamare, è pura astrazione. Oltretutto, a Le Calandre ho capito che si può estrarre la dolcezza da un ingrediente senza aggiungere nulla; il suo livello di trasformazione, pur restando altissimo, ma non deve mai snaturare.

Perché ALMA?

Ho due risposte a questa domanda. La prima, e lo compresi immediatamente, è che ALMA riporta il vero: codifica e rappresenta la realtà culinaria contemporanea e fa continua ricerca su essa. E questo ci porta alla seconda  risposta: in ALMA mi sono ritagliato un mio spazio di approfondimento, “la mia gabbia dorata”, la chiamo, perché mi permette di continuare a indagare tutto quello che mi interessa. 

Come?

Ti faccio un esempio: due anni fa ALMA fu chiamata per una consulenza in Sud America. Lavorammo a stretto contatto coi coltivatori di cacao e di canna da zucchero e visitammo le rispettive piantagioni. Si tratta di due lavori simbionti perché poi lo zucchero viene utilizzato in differenti percentuali per ottenere, dalla pianta del cacao, quello che noi chiamiamo “cioccolato”, che è un semi-lavorato nonché un’invenzione europea. Prima però, la fava del cacao viene tostata e lavorata di modo che la polpa dolce che sta intorno funzioni da starter per la fermentazione. Il cioccolato è un prodotto fermentato, realizzai, e da quel momento mi prese il pallino delle fermentazioni.

E cosa c’entra con ALMA?

Centra tutto, perché ALMA è sì una Scuola, ma è soprattutto un ambiente di ricerca e condivisione della conoscenza, un ambiente dove tutto si tiene: cucina, pasticceria, panificazione… Così capii che tutto il nostro mondo ha a che fare con la fermentazione, che è alla base della vita stessa. Non è solo l’ambito in cui operano i grandi professionisti, poniamo, della pasticceria, come quello dei grandi lievitati, vedi il panettone, ma riguarda la scienza della vita tutta. In cucina, la fermentazione non conferisce solo un gusto ulteriore, ma allunga la shelf life degli alimenti. Per questo, col patrocinio di ALMA, sono stato un mese al Noma di Copenhagen dove stanno facendo grandissime scoperte sull’Aspergillus oryzae, pietra miliare di tutte le tecnologie di trasformazione e conservazione del cibo della cucina asiatica. Ogni paese ha le sue tecniche, i suoi fermenti e le sue muffe: in Italia utilizziamo da sempre il Penicillium candidum, che presiede alla nostra tradizione casearia. 

Si tratta di ricerche fine a se stesse o è in cantiere qualcosa?

In ALMA è sempre in cantiere qualcosa (ride). In primo luogo, stiamo lavorando alla stesura di un libro sulle fermentazioni tradizionali italiane: in pochi sanno che i capperi sotto sale fanno circa 40 giorni di fermentazione; per le olive in salamoia, invece, si va dalle due settimane fino a un mese. Poi, c’è tutto il mondo dei salumi e dei formaggi, di cui ho già detto, con le loro muffe e i loro acari. La fermentazione è la base di ogni grande tradizione culinaria e, oltretutto, spalanca scenari di grande rilevanza, perché consente di conservare più a lungo gli alimenti: il ché sarà importantissimo alla luce dell’inarrestabile aumento demografico. Insomma, c’è materiale per almeno un intero ciclo di lezioni….

ALMA è diventata, in Italia e nel mondo, uno dei poli di riferimento in termini di apprendimento e di condivisione delle conoscenze culinarie. Qui, operano docenti e ricercatori e si formano cuochi pensanti, per dirla con Matteo Berti, che operano per il 70% in Italia e il 30% all’estero. La mappa dei diplomati è disponibile su almalink, una piattaforma che rappresenta un’occasione di crescita e di lavoro perpetui per tutto coloro che hanno fatto di ALMA non solo una scuola ma anche uno strumento del pensiero.