Una delle domande più frequenti tra gli appassionati di cucina è: “Come sarebbe stato El Bulli oggi, nel 2017?“
La risposta è Disfrutar, il ristorante creato a Barcellona da Mateu Casañas, Oriol Castro e Eduard Xatruch, per anni al fianco dei fratelli Adrià ed oggi nel loro ristorante, appunto, aperto nel 2014. Una grandissima ed intensa esperienza vi attende, l’evoluzione, la continua crescita delle tecniche, dell’esperienza culinaria del Bulli di cala Montjoi, inderogabilmente fedele ai suoi principi e alle sue fondamenta. Vi sembrerà di rientrare in quelle sale, non solo per la cucina che i tre esprimono. I muri, l’aria, il senso dell’imediatezza, dell’istante rubato in molti piatti e preparazioni e, se volete, anche il profondo sentimento, parlano a tutti di quella rivoluzione che, negli anni ’90, portò frotte di Gourmet al pellegrinaggio nella punta più estrema della costa catalana.
E’ bello vedere, e a dire il vero rende un po tristi perché purtroppo da noi in Italia non è così, il ristorante completamente pieno al sabato pomeriggio, con tavoli occupati in larga misura dalla ricca borghesia barceloneta. Un’età media che ci ha stupito, ci saremmo aspettati più giovani un tantino estremi piuttosto che l’avvocato o il professionista di grido, alle soglie della pensione.
Ma è anche questa la forza dirompente di ciò che il movimento del Bulli ha creato e continua a generare. Un coinvolgimento in uno stile di cucina che ha indiscutibilmente segnato, e continua a marcare, la storia della cucina contemporanea.
La vibrante e frenetica attività in cucina, con un numero pressochè infinito di cuochi all’opera, è l’emblema di una proposta che ha mantenuto tutti i capisaldi, anche le piccole imperfezioni, della geniale macchina da guerra di Cala Montjoi.
Consistenze e texturas al limite, spesso bocconi che si rompono, temperature in equilibrio precario costante, un percorso snodato su molteplici e variegati assaggi di sapori, di abbinamenti stravaganti, di grande ed estrema personalità. Lo studio sull’istantanea immediatezza dei prodotti, questa volta operata su una variazione di mandorle che solo in una finestra di pochi giorni si possono gustare così: con quella consistenza e quella lavorazione, e quei sapori. Un lavoro sulla tradizione, stravolta e non semplicemente rivisitata nelle consistenze e nelle temperature, come purtroppo accade ai tanti maldestri copiatori seriali sparsi per il mondo intero.
Una rilettura del Laksa Malese seguita a stretto giro da una altrettanto intensa e pervasiva, nonché affine, proposizione della bouillabaisse a fare da contrappunto. Un piccione in stile marocchino che strizza l’occhio in un paio di passaggi prima ad una caprese profonda e golosa. Un lavoro per lo più nascosto su cappelonghe macerate e cotte al sale, tradizione atavica spogliata e destrutturata, non solo nel piatto ma anche nelle tecniche di cottura e lavorazione.
Una cucina che fa pensare, fa ragionare e che qualunque cuoco dovrebbe una volta nella vita esplorare. Il fascino che la ricerca e la profondità di analisi di ogni singolo dettaglio dell’opera si porta appresso non può affatto passare inosservato. Ma anche se non sarete così attenti, così tecnici, così curiosi del percorso, il risultato vi sembrerà ben riassunto in un paio di soli aggettivi: è tutto incredibilmente e tremendamente buono e gustoso.
I detrattori potrebbero portare ad istanza il fatto che si tratta di una cucina sostanzialmente di assemblaggio, che il 90/95% dei piatti è prodotto in catena di montaggio prima e poi costruito all’atto del servizio. Che di cucina “cucinata” nel senso tradizionale del termine c’è ben poco. In realtà, questa eventuale analisi si rivelerebbe una visione miope e riduttiva del capolavoro rivoluzionario e innovativo promosso dal team del Disfrutar.
La fantastica esperienza vissuta allontana ogni tipo di perplessità. I discepoli del Maestro sono in piena forma e continuano per la loro strada, crescendo ed evolvendo. E anche questo è un segno della grandezza di ciò che è avvenuto a Roses.
Intelligente e studiata operazione commerciale, o ennesima grande tavola firmata Adrià?
Non è poi così facile delineare il confine tra un aspetto e l’altro e, forse, nemmeno così importante. Perché se si raggiunge un livello di qualità come quello del Pakta, allora tutto il resto è chiacchiera da bar.
Certamente qui si ha avuto l’occhio lungo, aprendo in tempi non sospetti (nel 2013) un locale di cucina Nikkei.
Cosa c’è di più fashion, oggi, di una cucina che mischia il mondo giapponese con quello Sud Americano?
E infatti il locale va che è una meraviglia, grande successo di critica ma anche di pubblico, perché questa non è una enclave per appassionati, il bacino d’utenza può essere (ed è) decisamente più ampio.
E anche noi siamo tornati più volte a visitare questo locale.
Eppure non sono pochi i fattori che potrebbero smorzare gli entusiasmi: solo due menù degustazione, da scegliere possibilmente in anticipo, all’atto della conferma della prenotazione; prenotazioni non agevoli (online, due mesi prima della data di interesse, vengono aperte le prenotazioni: molto difficile trovare posto nell’orario preferito); una rigidità nel servizio dei piatti quasi esasperata (viene indicato l’ordine con cui mangiare gli ingredienti, con quale stoviglia e in che modo!).
Allora perché venire qui?
Perché, nonostante tutto, qui si fa una grande cucina fusion.
Forse una delle sue migliori espressioni europee, non possiamo che ribadire quanto già espresso nelle nostre precedenti visite.
Non c’è la profondità di sapori di un grande kaiseki di Kyoto, o la precisione di un sushi master di Tokyo, ma quella Nikkei è una cucina interessantissima (che speriamo di provare presto in Perù) e qui viene interpretata ad altissimi livelli.
Tecnica impressionante, mix di ingredienti riuscitissimo: la freschezza e la tecnica della cucina giapponese incontrano il carattere più speziato di quella peruviana; lime, mais, peperoni, patate, si uniscono a miso, alghe, tosazu, dashi, in un vortice di sapori sorprendente.
Non una sbavatura, non un tentennamento: difficile trovare qualcosa di meglio nel vecchio continente.
Allora l’unico interrogativo che ci sentiamo di porre non è legato alla cucina (splendida) ma alla modalità di offerta: menù fissi chilometrici, tempistiche registrate al secondo, fruizione dei piatti rigida… ha ancora senso tutto questo nel 2015? E’ questo il futuro della ristorazione che vogliamo?
Dove sta la carta? Dove sta la libertà di mangiare prima la salsa e poi il pesce se così ci va? Quanto avanti è stato portato (soprattutto nei grandi ristoranti spagnoli) il confine tra ristoratore e cliente? Quanto quest’ultimo deve sottostare a regole indicate dal primo?
Sono domande che lanciamo sul tavolo, per ragionare e ragionarci insieme, come già abbiamo fatto in passato.
E chissà se una risposta c’è davvero…
Per cominciare, un ottimo Pisco Sour e un Lurasnu.
Abbiamo scelto il menù Machu-Picchu.
Mangiando al bancone si possono vedere in diretta le preparazioni dei piatti.
Honzen Ryori.
Nigiri di calamaro con caviale.
Corn surinagashi (zuppa di mais con dashi).
Tamago-dofu (crema d’uovo), salsa tosazu (salsa a base di fumetto di tonno bonito, alga kombu, salsa di soia e hon mirin) con alga nori e uova di salmone.
Sugarello con cetriolo, gari (sottaceto) e salsa sumiso (salsa a base di miso, pasta di fagioli di soia fermentati e aceto).
Polpo con olluco (un tipo di tubero), edamame and kimchi (verdure fermentate con spezie).
Daikon (ravanello cinese) con “ají amarillo” (peperoncino)
Kumquats con gelatina “leche de tigre” (il succo del ceviche)
Un goccio di sake a ripulire il palato.
Shimesaba (sgombro e aceto) con alga wakame e salsa di soia bianca (shiro-shooyu).
Vegetariano abalone “tiradito”: un fungo, ma la consistenza è molto simile a quella dell’abalone.
Tomato ponzu “leche de tigre” con cozze bouchot (mais tostato e mais).
Usuzukuri di lampuga con yuzukosho (una pasta fermentata fatta con peperoncino, scorze di yuzu e sale).
The Nigiris.
Pauro con alga kombu.
Acciuga fresca con sedano, umeboshi e rocoto (un tipo di peperoncino).
Tartare di ventresca di tonno con chips di yucca.
Questa tipo di cucina si abbina benissimo a tea e infusi, molto buono questo allo zenzero e verbena.
Gambero grigliato.
Ceviche di spigola con “leche de tigre” e mandorle verdi.
The Causas.
Causa floral di tonno con maionese “acevichada” e wasabi kizami.
Causa fritta con pollo and huacatay (pianta della famiglia delle Asteraceae).
Ravioli Xiao Long Bao ripieni di maialino da latte con olio “ají limo” (peperoncini peruviani).
“Sanguchito” (sandwich) di guancia di maiale fritta con sottaceti.
Pesce pappagallo fritto con sale andino.
Soba Cancha chulpi (un tipo di mais) con “leche de tigre ají amarillo” e bottarga.
Per finire:
Lumaca di mare con brodo di pollo e huacatay.
Rock fish con salsa nikkei “escabeche”.
Aged rib eye steak con polvere all’aroma di griglia e salsa béarnaise con chincho (una erba aromatica).
La preprazione di…
…melanzana arrostita con miso e crema di fegato.
Sorbetto Huacatay.
Desserts Honzen Ryori.
Melone con frutto della passione.
Lime con pisco e miele di zucchero di canna.
Sashimi di mango con shiso verde (perilla).
Pesca con miso bruciato.
Insalata di cocco e daikon.
Patate dolci “picarones” con fichi secchi al miele.
Cioccolato Pakta.
Divertente: in questa unica e semplice parola si potrebbe racchiudere il Tickets.
E non crediate sia poca cosa, che sia un aggettivo sminuente per il lavoro che viene fatto qui: un’attività ristorativa che sa divertire il cliente, ha in mano le chiavi del successo.
Ed infatti il pubblico qui non manca, mai.
Nonostante i turni multipli, nonostante le difficoltà di prenotazione (l’apertura delle stesse avviene solo due mesi prima della data, e alle 00.01 i posti vengono bruciati in poche ore, con il sito web in tilt quasi sistematicamente), nonostante tutto: locale sempre e inesorabilmente pieno.
E questo apre uno spunto di riflessione sulle capacità imprenditoriali dei fratelli Adrià, che non solo hanno saputo rivoluzionare la storia della gastronomia, ma contemporaneamente sono riusciti probabilmente anche a fare un pozzo di soldi, circondandosi di soci illuminati e realizzando idee quasi sempre vincenti.
Si possono fare tanti soldi con la qualità: date un’occhiata qui dentro, e provate a fare un rapido calcolo di quale possa essere l’incasso settimanale.
La genialità la si coglie anche nel modo in cui viene data forma alle idee: Tickets è indubbiamente l’evoluzione gourmet del Tapas Bar, una taperia con il vestito della festa, colorato, bello e luccicante, studiato in maniera millimetrica per piacere e fare parlare di sé.
Ma non è l’unico locale di questo tipo di Barcellona, in altri hanno cercato di rendere più modaiolo quello che a Barcellona è più uno “state of mind” che un modo di mangiare.
Ma l’unicità, la chiave del successo, è che Tickets, in questa sua evoluzione, non ha perso l’anima del Tapas Bar, non ne ha perso l’essenza. Che è fatta di amici, di convivialità, di libertà, di bevute anarchiche passando andata e ritorno da cocktail a vino, a birra, di comande sempre troppo corte o sempre troppo lunghe, di aggiunte, di cancellazioni, di “porta pure tanto non rimane sul tavolo”, di confusione di gusti e sapori, di innamoramenti gustativi e profonde delusioni. Il Tapas bar ci concede di tornare bambini per due ore, di mangiare con le mani, di prendere qualcosa dal piatto del vicino, di spezzare i conformismi.
In un tapas bar c’è tutto un mondo, al Tickets anche di più.
I riferimenti al mondo di Alice, al Circo, ai cartoni animati vanno tutti in questa direzione: una ambientazione al limite del kitsch, eppure stranamente piacevole e azzeccata anche quando volutamente eccede.
A tutto questo è dovuto numeretto lì in alto, all’inizio della recensione: forse c’è solo qualche preparazione che valga quel numero, o forse no.
Ma questo posto è unico.
E noi ci torneremmo ancora, e ancora, e ancora.
Che teste questi Adrià…
Il locale si sviluppa in diverse aree di lavorazione: crudi, salumi, piatti caldi.
La carta delle bevande si presenta così:
Un Mojito favoloso, giusto per scaldare i motori.
Le olive del Tickets: nel nostro caso, varietà Gordal, con cannella, anice stellato, pepe nero e buccia di limone.
Jamón Ibérico Joselito Gran Riserva.
Pane e pomodoro, semplice e immancabile. Per chiarire meglio il concetto, per capire come la qualità si basi sui dettagli: questo è il pane al pomodoro più buono che troverete girando per tapas bar.
Rubia gallega in un Air Baguette: grande classico che merita tutta la sua fama.
Tonno in cornetto di alga nori: assemblato al tavolo. Stupefacente la profondità gustativa.
Ventresca di tonno, grasso di prosciutto e caviale: come si può spiegare una cosa come questa se non definendola capolavoro? Noi giriamo locali per cose come questa. Da lacrime. E da bis, ovviamente.
Ostriche!
Viaggio a Parigi: con aceto di vino al dragoncello.
Viaggio a Barcellona: con brodo caldo di pesce. Molto interessante.
Pomodoro e pomodoro: acqua di pomodoro, cuore di pomodoro, crema di mais e huacatay.
Polpo croccante e piparra (un tipo di peperoncino) sottaceto: polpo impanato con panko, bietola fermentata.
Anche questo ha richiesto il bis, senza nessuna discussione tra i commensali.
Pollo marinato, aria di lime, pane imbevuto nel suo succo di cottura.
Gamberi al carbone.
Accompagnati da una salsa olandese e da brodo di pesce.
Salsicce e seppioline, mare e montagna: la tradizione attuale. Spettacolo.
Per i dessert ci si può spostare in un’altra sala, decisamente “singolare”.
Il soffitto…
Le preparazioni.
Alle pareti video famosi…
Al Tickets i cucchiaini crescono sugli alberi.
La singolare carta dei dessert.
I Dessert sono tecnicamente perfetti, ma gustativamente non hanno la complessità della parte salata.
La Rosa, sfera di litchi e fragola con gelatina di acqua di rosa.
Air-pancake, spuma di yogurt, wafer caramellizzato, sciroppo d’acero e composta di ribes nero.
Cono di carota, yogurt al cardamomo, sesamo, gelato di mango e carota.
Éclair al cioccolato, nocciole e royaltine.
Millefoglie verticale coon una base di cioccolato, crema di burro di nocciole e fragoline di bosco.
Il cheese cake di Tickets: crema di formaggio “coulommiers”, cioccolato bianco, nocciola e frolla.
La forma: la compostezza ed il rigore di un kaiseki.
La versatilità: gli intriganti sapori ancestrali e l’incredibile biodiversità del cibo peruviano.
È una ”unione” perfetta tra due culture agli antipodi. Purezza da un lato, generosi condimenti e diversi comprimari dall’altro. Parliamo naturalmente della cucina “nikkei”, una delle più in voga oggi.
Pakta, la più rappresentativa tavola a tema dei fratelli Adrià, è probabilmente il miglior ristorante in Europa a proporre questo tipo di cucina.
Il menu Machu-Picchu, il più esaustivo tra gli unici due percorsi proposti, ha due anime. Si apre con assaggi all’insegna della pulizia e dell’estetica degli ingredienti e poi vira, fino a straripare nei colori vivaci, nei profumi e nei sapori pungenti, aggressivi e aromatici del Sudamerica, domati e controbilanciati con intelligenza e bravura.
Rispetto all’altrettanto divertente Tickets, in cui il connubio tra ingredienti e sapori è altrettanto studiato, al Pakta la combinazione dei prodotti presenta un coefficiente di difficoltà decisamente più elevato, considerata la tassatività di dover utilizzare, per la causa, i prodotti peruviani più rappresentativi, come i peperoncini, le patate, la cipolla, il mais, la manioca, il platano, senza però tralasciare i crismi della filosofia estetica, naturale e cerimoniale del kaiseki.
Un paio d’anni fa ci colpì parecchio il fascino di questa fusione di culture gastronomiche, nonché l’incredibile cifra tecnica con la quale veniva messa in pratica. Non un boccone che presentasse difetti, banalità o déjà vu, ad eccezione di alcune tecniche “made in elBulli”, comunque marchio di fabbrica di quello che, per noi, è uno dei più geniali e prolifici cuochi in circolazione.
Albert Adrià con i suoi nuovi progetti ha dimostrato di essere una mente brillante, anche sfuggendo dall’ombra del sommo fratello, attualmente impegnato su altri tavoli, più teorici. Del resto, come ha affermato l’ex sommelier Kristian Brask Thomsen a proposito di Albert Adrià e del Pakta, inserito da Forbes nella stretta cerchia dei 12 posti più “cool” dove mangiare nel 2015: “quell’uomo può prendere qualsiasi cucina e farla sua”.
A distanza di due anni dalla prima visita, i ricordi e le aspettative sono stati confermati, con un percorso quasi tutto nuovo con il quale abbiamo scoperto numerose tecniche o condimenti giapponesi di epoche antiche.
La struttura del menù non è mutata rispetto al passato, sebbene le composizioni differiscano integralmente in base alle stagioni. Jorge Muñoz e Kyoko Li sono a loro agio nell’interpretare le rispettive cucine, peruviana e giapponese, e approfondire l’aspetto creativo, innestando la materia prima locale in piatti che restino quanto più aderenti alla tradizione. E il risultato è sempre sorprendente.
La declinazione in stile street food sul pollo, con il “sanguchito” con maionese di “aji amarillo” e i gyoza piastrati, in una manciata di morsi ti porta da Lima a Kyoto. Parimenti il “calçots” (cipollotto) in tempura da intingere in una salsa romesco o il Gindara “añejo”, un baccalà nero, il cui intenso sapore resta integro al cospetto di miele di carruba, puré di patata, peperoncino giallo e cipollotto, offrono continui rimandi all’Asia e all’America con un’alternanza senza soluzione di continuità.
Abbiamo trovato interessantissimi anche gli abbinamenti di cocktail, birra, vini, sakè e the, studiati con l’obiettivo di allungare il sapore di molte portate.
E visto che, come spesso accade a questi livelli, trovare un pelo nell’uovo diventa una sfida, nel caso del Pakta può essere messa in discussione la politica, o meglio la “cortesia”, di dover avvertire i camerieri ogni qual volta si ha la necessità di dover allontanarsi dal tavolo per le più disparate esigenze. Più di trenta assaggi vengono infatti serviti con ritmi tutt’altro che biblici, ma per consentire che tutto ciò sia possibile, il maître, prima di avviare le danze, vi avvertirà di questa circostanza per poter interrompere le tempistiche della macchina della cucina.
Può essere un problema? Decidete voi.
La postazione per sushi e crudità. Chiedete un posto al bancone per apprezzare la gestualità dei cuochi.
Il menu si apre con il Pisco Sour,con lime, zucchero e albume montato.
Come da tradizione giapponese: Honzen Ryori, composto da:
Tofu di avocado con ricci di mare;
Vongola con salsa al tamarindo e alga nori;
Insalata di olluco (un tubero peruviano) con piselli, brodo di fagioli e kimchi;
Manioca croccante con salsa “huancaina” (fatta con una varietà di peperoncino piccante, latte, olio e formaggio fresco);
Kumquat con gelatina di “leche de tigre” e daikon con “ajì amarillo”;
Il primo sakè servito è il pluripremiato Dewazakura Dewano Sato.
Viene grattugiato del wasabi cristallizzato sulla stracciatella di yuba con tartufo nero.
Si tratta di una pellicola ricavata dal tofu. Piatto neutro che sarebbe stato perfetto con un tartufo più profumato.
Sashimi vegetariano di abalone (fungo ostrica).
Urakasumi Zen.
Un sakè servito freddo.
Temaki di tonno, sichimi (tradizionale mix di spezie tipica delle cucina giapponese) e riso tostato. Il cono croccante è ottenuto bagnando l’alga nori in salsa di soia e zucchero e poi messo nell’essiccatore.
Il duo:
Chips di patata con crema di tartufo nero;
Riccio di mare con salsa ponzu.
Usuzukuri di branzino tagliato sottilissimo con yuzukosho (una pasta fermentata fatta con peperoncino, scorze di yuzu e sale).
I fantastici Nigiri:
Seppia con salsa “acevichada”. Favoloso boccone.
Tonno marinato nello Zuke, una antica tecnica risalente alla metà del XIX secolo con la quale veniva preservata la parte grassa del tonno (ventresca) al momento in cui il colore rosso iniziava ad ossidarsi. Il pesce viene immerso per pochi secondi nel “nikiri shoyu”, una miscela fatta da salsa di soia e sakè, portato ad ebollizione, e poi tuffato in acqua fredda. Quindi riportato a temperatura ambiente e lasciato riposare per mezz’ora, per poi essere tagliato. Secondo il mitico Jiro Ono lo Zuke dona l’umami ed arricchisce il sapore del pesce.
Eccezionale zenzero marinato.
Chicha Sin, un soft drink peruviano fatto con il mais viola.
Il fantastico cheviche invernale: paradigma della cucina nikkei. L’equilibrio fatto a piatto. Un gioco di contrasti terreni tra l’ingrediente giapponese (fungo shitake), quello peruviano (mais croccante e crema di patata) ed il freschissimo branzino locale. Davvero eccellente.
La Causa:
Calamaretto, salsa all’ostrica e lime con “mentaiko”, ovvero uova di branzino marinate con elementi piccanti.
Pollo fritto e “huacatay”, una maionese alle erbe (tipiche del Perù).
Una eccellente IPA olandese, Amarillo del birrificio De Molen. Si sposerà a meraviglia con…
…la variazione sul pollo tra Perù e Giappone.
Il “sanguchito” di pollo grigliato. Un tipico sandwich dello street food peruviano, servito con maionese di ajì amarillo si alterna..
..ai fantastici gyoza con pollo stufato, in uno dei passaggi più entusiasmanti del menu. Un piede a Lima ed uno Kyoto.
Si passa alla tempura. In questo caso si tratta del “calçots”, un cipollotto autoctono, da intingere nella salsa romesco.
Chulpe soba. Ancora una volta una concretissima fusion: gli spaghetti sono di mais
e la salsa è fatta con soia, limone e olio al coriandolo.
Piatto da autopreparare al tavolo.
Per finire: ceviche amazzonico. Un piatto caldo, con il pesce cotto velocemente dentro la foglia di banana. La croccantezza finale viene dagli arachidi tostati. Grandissima variante invernale del famoso piatto peruviano.
Un buon Gewurztraminer austiaco Nikolaihof accompagna il…
…Gindara “añejo”. Altro piatto di grande equilibrio.
Il piatto principale di carne: costata di vacca galiziana con polvere di “grigliata”. Nella sua semplicità, favolosa materia prima e grandissima cottura.
Un altro piatto popolare giapponese. Il “Furofuki”, ovvero un daikon bollito con alga kelp e miso, con crema al foie gras. Un sorbetto più dolce che acido.
Per i dessert, si riparte da dove si è cominciato: Honzen Ryori.
Nel dettaglio, Meringa allo yuzu;
Sandwich di mango;
Mochi con more selvatiche e panna;
Flan alla salsa di soia;
Tronco di cannella con crema al mais.
A chiudere i golosissimi “ningyo-yaki” alla crema di banana;
Piccola pasticceria: wild quinoa al cioccolato;
Ultimo abbinamento: Umeshu Choya, liquore di Ume (una prugna giapponese);
Pakta bonbon al the verde e yuzu. Eccellenti.
Le tapas non sono solo cibo, ma una filosofia di vita.
Partiva da questo concetto l’idea di Albert Adrià per quel posto che oggi è il Tickets. Un progetto creativo che andava ben oltre la concezione del miglior tapas bar al mondo. Perché, ancor prima di aprire i battenti, il Tickets era stato concepito come il luogo ideale per tutti.
È iniziato tutto in modo assai curioso. Era il febbraio del 2010 quando Albert festeggiava con amici di famiglia il terzo compleanno del figlio in uno dei suoi ristoranti del cuore. Prima della torta ricevette un regalo inaspettato dal suo amico Juan Carlos Iglesias, attualmente suo partner in affari. Si trattava di un mazzo di chiavi di un immobile le cui mura ospitavano una concessionaria di auto.
Albert si soffermava spesso davanti quella bottega, affascinato dalla spaziosità di quegli interni. Un luogo ideale in cui, un giorno, avrebbe potuto trasferire il suo Inopia Classic Bar. Ma non era soltanto una questione di spazi. Quello era solo un pretesto.
Da quel momento, infatti, i concetti di tapas classici e dell’Inopia si persero tra le mille idee partorite in innumerevoli brain storming, fatti tra le cucine di elBulli e il Taller di Barcellona da quelli che erano le colonne portanti della fucina d’avanguardia di Roses: Albert e Ferran, Oriol Castro, Eduard Xatruch, Andrés Conde e Miguel Estrada.
Nasceva quindi l’idea del Tickets, alla base della quale c’erano due simboli del Bulli: l’oliva sferica e l’air baguette. A seguire, il lavoro sulle ostriche e un altro paio di centinaia di ricette tra tradizione e pura sperimentazione, perseguendo un (ennesimo) nuovo linguaggio gastronomico.
L’obiettivo era diventato sempre più preciso, anzi, non era mai mutato: si continuava a perseguire la ricerca dell’intrattenimento guardando al futuro.
Il Tickets è la dimostrazione di come i parametri culinari degli Adrià siano in continua evoluzione.
Tra queste mura è racchiuso un mondo su di giri, una sorta di automobile con cui, allacciate le cinture, il passeggero fa un viaggio a due velocità. La guida è sicura ma non mancano i grandi virtuosismi. Il pilota conosce come pochi le tecniche di avanguardia e di molte ne è anche l’inventore.
Dai primi snacks, fino ai dessert, si ha sempre l’impressione di oltrepassare il muro del suono, ma pian piano ci si stabilizza, con sorpresa, in una più rassicurante andatura di crociera.
Si fanno i conti con tanta modernità, ma dietro l’angolo, ad attendere il palato, ci sarà spesso il baluardo della tradizione, con la rivisitazione delle tapas che incontra i ricordi di luoghi lontani. Sapori decisi, dall’impronta catalana marchiata a fuoco, si avvicendano alla strabiliante capacità di far viaggiare il commensale con la mente oltre i confini della Spagna. Sensazione che qualcuno aveva già provato a Roses, poi al 41° e che può ritrovare, in un contesto più limitato ma forse più meditato, anche all’eccellente Pakta.
Fa tutto parte di quella marcia in più che contraddistingue da sempre i fratelli Adrià, capaci di racchiudere una miriade di sapori in pochi assaggi.
Il Tickets, il primo dei ristoranti de “elBarri” (ovvero il “quartiere” degli Adrià, come è stato definito), è come un parco di divertimenti in cui l’avventore ha la possibilità di scegliere la giostra che vuole, quando vuole. Senza vedersi imposte sequenze di sorta o particolari restrizioni. Su qualsiasi cosa ricadrà la scelta, si avrà la certezza di mangiare qualcosa di immediata piacevolezza che appagherà repentinamente il palato.
Difficile assoggettare a critiche un luogo così, perché da due assaggi a trenta che siano, ci si trova sempre al cospetto di qualcosa che stupisce.
Ci si sforza anche nel trovare i difetti (!?): forse il fatto che manchi l’identità di un percorso degustazione? No, quello ve lo fanno se lo chiedete. Anzi ve ne fanno di diversi tipi visto la vastità della carta.
E allora è forse il livello di raffinatezza dei piatti che muta alla velocità della luce, passando da armoniose complessità gustative a più semplici bocconi di rassicurante goduriosità, che, molte volte, tendono a lasciarsi alle spalle la componente raffinata e più cerebrale? Si, forse è proprio questo il rischio: di avere troppe idee e di sfornarle tutte nello stesso momento. Si, probabilmente è forse questo l’unico limite del Tickets.
E se invece fosse la sua imprescindibile chiave del successo?
Chi ha cenato a elBulli avrà sicuramente un ricordo straordinario del servizio, replicato perfettamente, con le dovute proporzioni, anche al 41°.
Al Tickets invece non ci sono particolari formalismi e la macchina della sala è particolarmente amichevole, coerentemente con l’ambiente ed il concetto di locale.
Ciò detto, resta comunque un servizio di rara puntualità e cortesia, come quasi tutti i ristoranti visitati a queste latitudini, in cui è facile constatare un livello medio sempre altissimo.
Gli snacks.
L’albero del Tickets.
Goliardica presentazione con tanto di forbicette per tagliare il picciolo ricostruito.
Geniali meringhe al mirtillo (c’è probabilmente del rafano nell’impasto che dona una lieve nota piccante)…
…da inzuppare in una intrigante crema al rafano.
Le abbiamo provate e riprovate. Un po’ ovunque…
…ma vi assicuriamo che qui sono uniche.
Le (super) olive elBulli. E’ facile che ve ne rifilino di diversi tipi in diversi ristoranti e in altrettanti continenti, ma nessuno ha la concentrazione di queste. Un gusto lunghissimo, forse anche migliore di un’oliva di qualità assoluta. Quando la tecnica potenzia la qualità di un ingrediente.
Questa è la varietà Verdial…
…ma abbiamo assaggiato e percepito le differenze con la varietà Gordial, più forti e aromatizzate all’anice stellato e cannella.
Crostino di acciughe con semi di pomodoro e cristalli di olio.
Dalla sezione “Pura Razza”, è il momento di Joselito. Pata negra Gran Reserva.
Accompagnato da pane al pomodoro.
Sezione “Finger Food”.
Tonno in tartare con mille-feuille di alga nori croccante. Boccone strepitoso.
Incredibili gamberi rossi crudi con panatura al “mojo” verde (tipica salsa delle Canarie, a base di coriandolo e prezzemolo). Spettacolo.
Le ostriche: sulla sinistra con kimchi di yuzu e sulla destra, con salsa ponzu e uova di salmone.
“Rubia gallega” arrotolata nella leggendaria air baguette.
“Jowl & Panceta”
Una succulenta brioche al burro con testina di maiale, mozzarella, mostarda, paprika e “ras el hanout”.
Ed ecco i piatti principali del Tickets: le tapas, all’insegna della tradizione.
Insalata di pomodori Raff, straciatella di bufala e aria di basilico. Sotto la schiuma degnamente concentrata si nasconde una caprese, ma non solo. Prima i pistacchi, poi delle fragoline di bosco generano una divertente alternanza di sapori e tonalità di raro equilibrio. Geniale semplicità.
Strepitosi cannolicchi con salsa al cocco, funghi e arachidi. Siamo in Thailandia o a Barcellona?
Carciofi, crema di sedano rapa e vinaigrette al tartufo. Notevole piatto di matrice francese.
Piselli di Maresme (una delle Comarche della Catalogna) con jus di finocchio e pancetta croccante. Piatto da trattoria o preparazione di alta scuola con tecnica sopraffina?
Un altro piatto cult: spalla di maiale con patate confit e salsa di ossa di costine di maiale. Piatto di estrema golosità il cui abuso rischia di saturare le papille gustative. Ne bastano un paio di bocconi.
Il pollo in due sequenze. O meglio, il piatto del viaggio.
Una favolosa variazione del volatile che fonde al meglio lo spirito di questa cucina: tradizione e innovazione.
La schiuma di lime da’ profondità al saporito boccone e il cubo di pane imbevuto nella salsa del volatile creano dipendenza.
Ma il colpo di grazia arriva con il brodo di pollo. Un consommé degno del miglior tristellato francese. Talmente chiarificato da sembrare acqua. È il caso di dire, uno di quei piatti indimenticabili.
Variazione di Payoyo, tradizione e evoluzione.
I dolci. Dai quali, francamente, ci aspettavamo un coinvolgimento emotivo maggiore. Comunque iper tecnici e anch’essi golosi, ma da un grandissimo pasticcere come Albert Adrià ci aspettavamo molto di più.
Mini cheesecake, meringhe al limone e crema di formaggio con composta ai frutti rossi.
Pancake con yogurt, sciroppo d’acero e composta di more. Questa volta il tasso di stucchevolezza va oltre il nostro gradimento.
Altro dessert, spuma di panna e cioccolato.
Tickets’ “crazy coconut”, gelatin alla menta, crema al frutto della passione e stracciatella di cocco. Da mangiare con le mani.
Uno dei tavolini.
Gli interni.
Alcuni banconi.
Merchandising.
Insegna.