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Australia Gourmet – Attica

di Leila Salimbeni

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

I suburbs nel piatto

Quello che inizialmente mi stupì di Attica, oltre all’affabilità dello chef Ben Shewry, fu la colonna sonora scelta per l’occasione: oltre alla sottoscritta, c’erano critici e chef provenienti da tutto il mondo (Yannick Alléno e consorte pranzavano al tavolo accanto al mio) e mai, in un ristorante e in un’occasione simile, mi sarei immaginata di prendere posto al mio tavolo sulle note di “See No Evil” dei Television.

Ecco dunque il benvenuto con il pungente e salino Metodo Classico Yarra Valley Miss Mass 2008 di Mac Forbes appena degorgiato, per accompagnare un’Insalata raccolta al momento nell’orto dietro al ristorante. Siamo in una parte periferica di Melbourne e il concetto di suburb è molto caro al giovane chef che sulla “etno-botanica” sembra aver edificato la sua fortuna. Accanto all’insalata, l’immancabile Panna acida con oli ed essenze instillate col contagocce e, appena dopo, il Melone St. Claus ricoperto della adorabile digressione di un frizzy pazzy di colore rosa. C’è la tovaglia,  ma non ci sono le posate, e non ci saranno per un po’ se è vero, com’è vero, che la carrellata continua con un Pomodorino che gioca a nascondino – tanto mi tocca di frugarlo con le dita – nella foresta in miniatura che Shewry ha piantato nel piatto e  dietro al ristorante. Non appena lo trovo, lo mordo e una deflagrazione dolce-acida-umami-mediterranea mi esplode nelle fauci. Sto masticando un iper-pomodoro crudo, senza nemmeno l’ombra di un condimento. Eccola qui la vera anti-cucina, le manipolazioni inesistenti e gli impiattamenti grezzi di cui tanto si era sentito parlare.

Con il piatto successivo l’articolazione è solo minimamente maggiore e consta di una Galletta di avocado pestato con la forchetta, caviale di limone e menta. Al giro di boa del vino, il livello di manipolazione sale e mi ritrovo un trittico di tartine che rappresentano ciascuna la storia di un’etnia differente, all’anagrafe An imperfect history of Ripponlea. La prima è un involucro di pasta ripiena di crema aromatizzata con ingredienti aborigeni di Bunurong, come foglie di peperone nativo e lime rosso. La seconda – la Torta Sargood – prende il nome dall’uomo che ha costruito il suburb, e vanta un anglicismo ben riuscito: un ripieno di formaggio fresco alla maniera di un pudding. La terza tartina, invece, parla della grande popolazione ebraica che anima il sobborgo: l’involucro di matzah (pane azzimo) racchiude un ripieno di schmaltz  (grasso chiarificato di oca o di pollo) coronato da una gelatina di brodo di pollo che luccica di vivo gusto. Il vino, versatile al bisogno, è l’etereo, idrocarburico e affumicato Riesling noble dry 2011 di Crawford River. 

Prima di procedere, però, è necessario dire due cose: la prima è l’assenza di posate fino a questo momento del pasto; la seconda è la perfetta centratura degli abbinamenti, indizio di una consapevolezza che, da entrambi i fronti, raramente m’è capitato di lodare con così forsennato entusiasmo. Una consapevolezza tale, quella di Shewry, che riesce perfino a farmi piacere la Vegemite (crema salata a base di estratto di lievito di birra) nella Polpetta di Vegemite e carne di capra cosparsa di formaggio di capra grattugiato. Un’esplosione di sapori seguita dalla timida carezza di Carotina dell’orto cotta 12 ore su una brace lentissima, con cui il vino flirta che è un piacere. 

L’anti-cucina trionfa violentemente, quindi, con l’arrivo di un Abalone intero, nel suo splendido guscio, da staccare con un coltello sistemato sul piatto. Il primo utensile servito in quasi un’ora di assaggi, che si concludono con quello che, senza iperboli, mi appare il consommé più buono della mia vita. Servito tiepido con il sapore di pollo e il profumo di tutte le erbe aromatiche in sospensione, è l’esatto punto di congiunzione tra un brodo e una tisana. 

È quindi il momento del pane, della cui esistenza m’ero completamente dimenticata: una sorta di pagnotta araba di farina integrale accompagnata dall’immancabile burro “maison” e fiocchi di sale. Arriva poi un altro vino, il Pinot nero 2014 Tout Près by Farr, apparentemente offuscato dal legno, sebbene abbia apprezzabili note di eucalipto (tanto tipiche dei Pinot nero australiani), fiori blu e spezie. Infine – evviva – le posate, con cui mi approccio a un abbondante Red Kangaroo con semi tasmani, detti Truganini in onore degli aborigeni della Tasmania. Il pasto continua in maniera sorprendente con l’idillio dell’Amontillado di Penny Weight, che tanto splendidamente si sposa con un Trionfo di zucca che, da solo, risulterebbe invero assai faticoso. 

Prima del servizio del dolce, a tutti i tavoli viene riservato un omaggio: una visita in cucina e un cocktail nell’orto. Qui, oltre alla leggendaria griglia dove 24 ore su 24 vengono cotte le carote, ho modo di constatare che il pollice verde di questo incredibile chef riguarda anche un gruppo di virili tulipani. Una volta tornata al tavolo, mi viene servito un indecifrabile predessert a base di mela Granny Smith con salsa di succo d’ananas leggermente fermentato, olio di mirto, anice e lime e per finire, il primo dolce propriamente detto di questo mio viaggio in Australia: l’Uovo di Emù (una sorta di zabaione selvaggio e salato, per intenderci), servito in un letto di erbe locali che, invero, non riuscirei a mangiare (per l’eccessiva presenza di uovo e di sale) se non fosse per l’ottimo Altus 2011 di Ngeringa e la sua geniale emulazione di un Vin Santo. 

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