Passione Gourmet Del Cambio - Passione Gourmet

Del Cambio

Ristorante
piazza Carignano 2, Torino
Chef Matteo Baronetto
Recensito da Claudio Marin

Valutazione

18.5/20 Cucina prevalentemente di avanguardia

Pregi

  • Una cucina che trasuda profondità di pensiero, unica.
  • La Table du Chef non si risolve in semplice voyeurismo, bensì offre un’esperienza gastronomica innovativa e sartoriale.

Difetti

  • La Table du Chef non è sempre disponibile ed ha un costo impegnativo (ma corretto).
Visitato il 02-2023

Matteo Baronetto: un cuoco sensibile

Nel panorama gastronomico italiano, Matteo Baronetto occupa un posto peculiare – fieramente periferico -, eppure così straordinariamente incisivo, grazie alla sua unicità. Un cuoco che ha vissuto la fase più luminosa della cosiddetta avanguardia – gli anni milanesi -, per prenderne poi le distanze, senza accanimenti, così da poter agire libero da condizionamenti esterni e guidato solo dalle proprie intuizioni, le quali lo conducono incessantemente alla scoperta – o ideazione? – di legami tra ingredienti distanti oppure a dare nuova linfa vitale a percorsi apparentemente già esauriti (la scaloppina, la salsa civet, il saltimbocca…).

Il talento del cuoco risiede proprio nella sensibilità e, quindi, nella capacità di rendere visibile l’invisibile o cogliere il mistero in ciò che è (a prima vista) conosciuto – con passaggi che a tratti varcano la soglia dell’onirico – : un approccio che porta con sé la tribolazione consistente nel prendere costantemente le distanze dalle strade già percorse, dalle tendenze, dagli infiniti dover-essere di cui la cucina è disseminata. Il risultato è una cucina di intelletto, in cui l’ingrediente e la tecnica diventano vettori, il substrato su cui poggiano le idee, poiché queste ultime sono il vero punto di contatto tra il cuoco e il commensale: con l’assaggio le menti delle due parti entrano in contatto e “vedono” la stessa cosa. Una cucina che non nega il gusto – non sempre quantomeno – ma che non si esaurisce in esso, prestandosi così a più livelli di lettura. Per questo motivo, i menù di Matteo Baronetto poco si addicono a venir rappresentati attraverso la fotografia (nonostante siano di rara bellezza): l’acme sta nell’assaggio, per l’appunto, l’istante in cui il cibo si fa idea e scatta la scintilla. Quel momento è difficilmente rappresentabile e intuibile (a differenza di piatti che, alla vista, già si prestano a essere “pregustati”). Allora, non è un caso se in “Iconiche similitudini” – il libro che il cuoco ha recentemente dato alle stampe – la fotografia abbia lasciato posto all’opera grafica, scelta che – in una logica corrispondenza – lo accomuna ad un altro cuoco-artista, quel Alain Passard i cui piatti, così semplici alla vista – quasi “banali” e, perciò, indecifrabili -, sono in grado di trasportare verso sensazioni prima sconosciute (e non preconizzabili). La profondità di questa cucina può essere colta nel suo pieno al “tavolo dello chef”, il luogo in cui le intuizioni di cui si è detto spesso nascono o vengono concretizzate per la prima volta, ove la sperimentazione ed anche l’errore – non necessariamente un disvalore – che ne può conseguire sono parte del patto cuoco-cliente: i risultati decantati di questa riflessione – non tutti – si ritroveranno, poi, a tempo debito, nei menù offerti in sala che, quindi, non sono affatto “altra cosa”.

Un’incredibile densità di pensiero

In occasione dell’ultima visita, abbiamo avuto modo di confrontarci con un percorso complesso e stimolante, un intreccio di diverse suggestioni, dall’utilizzo sapiente – ed acuto – dei grassi, alla celebrazione del gesto, passando per le assenze come strumento di riflessione, senza abbandonare la cifra stilistica delle “similitudini” che, anche per chi si è seduto più volte a questo tavolo, rappresenta un’inesauribile fonte di stupore. Le similitudini, per l’appunto, sono oramai la sineddoche della cucina baronettiana: una componente di un approccio complessissimo che a volte, erroneamente, viene “ridotto” ad una delle sue componenti. In realtà, la ricerca del simile non è l’obiettivo perseguito dal cuoco, quanto la leva, il punto di partenza, il cannocchiale, il metodo con cui approcciarsi alla realtà e da cui derivare infiniti risvolti e riflessioni. Ad esempio, in Albume, caviale e burro nocciola convivono la celebrazione dell’importanza del gesto – quello di racchiudere le uova di storione in un velo di albume, senza scorciatoie – e il parco utilizzo del burro nocciola (il grasso, per l’appunto) a stimolare il ricordo di un “uovo all’occhio di bue”. Un passaggio che fa inevitabilmente venire alla mente il Pachino di Disfrutar, il quale, tuttavia, è frutto di un escamotage “tecnologico”, dal  risultato certamente ludico e goloso ma meno “sottile”.

Un’immagine fedele del Baronetto di ora si ritrova, poi, in Espardenya (cetriolo di mare) di seppia e foie gras, in cui la seppia viene tagliata a strisce e cotta versandovi sopra dell’acqua bollente non salata – ancora, la gestualità – : la texture rimanda immediatamente al cetriolo di mare mangiato al Nerua pochi mesi fa. A lato, viene servito del foie gras sciolto in padella da cospargere sul boccone bianco: la golosità – e quel sapore tipico del pesce cotto in padella – grazie ad un solo accenno di materia grassa. In Albume d’uovo come una steak tartare, una mirepoix d’albume viene condita come fosse una classica tartare: in questo caso, il gioco di corrispondenze non funziona – mancano cremosità e parte ematica – ma non lascia indifferenti poiché “l’errore” consente di analizzare la genesi del piatto e il meccanismo di funzionamento delle similitudini. Un passaggio straordinario – forse quello più incisivo – è Verza e civet di radicchio, in cui la salsa civet è preparata con radicchio e sangue di volatile (rispetto alla tradizione francese la carne scompare dalla salsa e dal boccone): la lucidità della salsa è quella che conosciamo e la complessità gustativa rara, tra l’amaro e l’acido del cioccolato (che non c’è), oltre a quella nota ematica che ci era mancata nel piatto precedente. In Gianduiotto di gelatina di brodo di manzo e maionese al sugo di carne la texture del nervo bollito o stufato viene riprodotta con una gelatina di brodo di manzo (qui, però, il gusto della carne è presente, a differenza della tradizione, dove si mangia “la consistenza”): un piatto che fa venire alla mente “Gnocchi and parmesan sauce“, servito da Aduriz proprio in questa cucina, in un rapporto di specularità (lì il tendine c’era ed era dissimulato sotto la forma di uno gnocco ricoperto di salsa al parmigiano). Da ultimo, la “memoria storica” di Passione Gourmet deve necessariamente tenere traccia di Animella e mozzarella – un piatto assaggiato nella precedente visita di luglio -, uno dei più straordinari dello scorso anno (e non solo): due ingredienti distanti – ma dall’identica testura – e un assaggio sorprendente, che sfugge alla razionalità. La cucina di Matteo Baronetto è una voce solitaria – unica -, attualmente una delle più fertili nel panorama europeo, insensibile al contesto gastronomico attuale, inespressiva di tendenze e, per questa ragione, tremendamente affascinante.

IL PIATTO MIGLIORE: Verza e civet di radicchio.

La Galleria Fotografica:

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