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Sentaku Ramen Bar

Un autentico ramen bar, sotto i portici di Bologna

Arriviamo in due alle 19.30 di un venerdì sera di fine inverno. Ci sono tre persone in fila prima di noi, ma ci fanno accomodare immediatamente. Presto svelato l’arcano, scritto a chiare lettere all’ingresso del locale: hanno la precedenza i gruppi al completo.

La musica di sottofondo alterna l’elettronica al minimal e, in un battibaleno, via delle Lame trasfigura nel set di Blade Runner, con più calore, però, restituito non solo dai fumiganti vapori del brodo, ma anche da alcune accortezze, come quella dei lacci per i capelli per chi, avendoli lunghi, si senta limitato nella suzione del ramen stesso, “da consumare velocemente e, come da tradizione, rumorosamente”. Queste le prescrizioni.

Parole d’ordine: nitidezza e rapidità

Tutto, qui, appare regimentato. L’organizzazione di questo piccolo, urbanissimo ramen bar fila come un orologio svizzero: ci si accomoda, si ordina autonomamente, tramite un menu completo di glossario, tra i cinque ramen, quattro classici più un extra, e cinque appetizer a rifinire la proposta.

Per noi, tofu fritto con zenzero grattugiato, olio al wasabi e cipollotto, spugnoso e croccante e, ovviamente, molto piccante, e lo spicy karaage bao: un panino al vapore ripieno della polpa soda e croccantissima della panatura di un pollo umettato con l’immancabile maionese allo yuzu.

A seguire, il ramen Shoyu toriniku, con brodo a base di soia e sashi tradizionale, pollo sfilacciato,  bambù marinato, uovo e alghe e il Kinoko paitan, completamente vegetariano con funghi freschi, germogli di soia, cipollotti, uovo, tufo fritto e alghe. Sapori molto nitidi, riconcilianti col mondo, una panacea dopo una fredda giornata lavorativa. Da segnalare, la curiosa la consistenza amidaceo-viscosa del ramen vegetariano che, nell’insieme, sembrava più sostanzioso di quello al pollo.

Dulcis in fundo…

Quanto al giudizio, benché più lusinghiero, ci sentiamo di fare un appunto. Chiaramente, qui tutto è concepito per un consumo rapido, prescrizione che non intendiamo biasimare anche perché puntualmente dichiarata. Tuttavia, vedersi consegnare il conto, senza averlo chiesto, alle 20.30 e senza che nessuno fosse in attesa dopo di noi è una di quelle inezie in grado di mettere in discussione l’intera percezione dell’esperienza.

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Una sicilianità agreste e sincera in via San Vitale, a Bologna

Un’intima sala punteggiata di tavoli in legno scuro, ben distanziati tra loro, tra piante, cartoni di vino e l’affaccio sulla operosa sezione finale di via San Vitale. Questo, però, d’inverno. Perché in primavera e in estate sono soprattutto i 17 tavoli del cortile interno, tra l’edera e il portico del complesso di San Leonardo, a costituire l’attrattiva di Pane e Panelle, solida trattoria di quartiere, gestita con dedizione e buon gusto dalla pervicace Isabel Muratori. 

Lei che, nel tempo, ha optato per una formula più concreta e sbarazzina, benché di mare, e non è un caso che Pane e Panelle sia oggi la fucina, sempre mutevole, di una cucina umile e mediterranea; quella della costa siciliana che, come tale, contempla anche e volentieri elementi di provenienza agreste e rurale, come agreste è, del resto, l’indole stessa di Luca Giovanni Pappalardo che, qui dal 2017, si adopera nell’intento di utilizzare tutte le parti del pesce come dichiara nel suo “ricettario del mare segreto” Pesci Diversi. 

Il benvenuto della cucina, manco a dirlo, è a base di panelle farina di ceci, che sono l’unica costante di una cucina che non vuole adagiarsi su piatti fissi in carta perché il mare non offre certezze di questo tipo.

Pane e Panelle: una trattoria informale, e sempre cangiante

In menù campeggiano tutti i classici della trattoria informale: fritture, cotolette di sarde, molluschi gratinati e qualche intelligente crudo, come quello di seriola.

Quindi nessuna gonade di seppia, oggi, né centrolofo o lingua di baccalà bensì carnose alici marinate con schiacciatina di sedano-rapa e misticanza, tarte tatin di bietola e salsa allo yogurt e una sfiziosa pizzetta con trippa di baccalà, olive e ricotta salata tra i nicareddi, che non sono propriamente antipasti bensì assaggi dalla cucina. Tra i primi, optiamo per delle gustose reginette con cavolo Sprouting, lupini e scaglie di ricotta salata e, per secondo, l’ottimo spiedo di guancia di tonno, arancia arrosto e verdure di stagione tra cui le piccole, squisite patate novelle, cui si biasima soltanto il concentrato di spinaci alla base, dalla consistenza penalizzante. Istituzionale, ancorché impeccabile, il sorbetto all’arancia.

Si sta insomma assai bene, da Pane e Panelle, cui si fa solo un appunto, ed è sulla carta dei vini che presenta, secondo noi, ampi margini di miglioramento; s’è sentita la mancanza, in particolare, di una certa Sicilia naturale e iper-territoriale che, qui, avrebbe tutto il diritto di ricavarsi un suo degno spazio di rappresentanza. 

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Biancofarina: una enclave di napoletanità appena fuori dal centro di Bologna

La pizzeria Biancofarina sorge alle spalle della nuova stazione ferroviaria di Bologna, nel popolare quartiere della Bolognina, da qualche tempo oggetto di un ampio progetto di riqualificazione urbana, e di alcune interessanti aperture gastronomiche.

Pasquale Penne, partenopeo del Vomero, da dicembre 2017 gestisce questa pizzeria a spiccato peso specifico di napoletanità sia nel formato delle pizze proposte –  quello tradizionale col cornicione alto e soffice, senza concessione alcuna in carta ai moderni “spicchi” gourmet – che nell’attenta cottura al forno a legna, in cui vengono posizionate non più di due pizze alla volta per garantire la massima cura e attenzione al processo. Parla partenopeo pure buona parte delle materie prime utilizzate, Bufala dop di Aversano, Provola affumicata e Fiordilatte di Agerola, friarielli, pomodoro San Marzano dop, maiale nero casertano, e addirittura le birre in bottiglia.

Lunga lievitazione, idratazione e ottima proporzione tra base e farcitura

Particolare attenzione viene data alla lievitazione, di ben 36 ore (di cui 24 a temperatura ambiente e a temperatura controllata per le successive 12) e all’idratazione (dichiarata nel menù in quantità superiore al 70%), mentre l’impasto è ottenuto lavorando un blend di farine medio – deboli. In effetti le pizze assaggiate erano caratterizzate da notevole scioglievolezza e particolare sofficità; alto come da tradizione il cornicione, con un’alveolatura media in quanto a ampiezza.

Interessante la Cacio e Pepe rivisitata, in cui la nota di limone donava freschezza, ben eseguita la Napul’è: su base bianca di fiordilatte con abbondante farcitura di prosciutto crudo stagionato, parmigiano e rucola. Entrambe le basi ci sono parse lievemente insipide, probabilmente per bilanciare il tasso salino delle farciture e, difatti, la leggerezza delle stesse ci ha invogliato a provare la classica Margherita in una delle quattro versioni, con Piennolo del Vesuvio.

A chiudere, una cassatina di provenienza napoletana anch’essa, sebbene non ci sia stato possibile di soddisfare la nostra curiosità in merito alla pasticceria produttrice. 

Sicuramente Biancofarina rappresenta una comfort zone per chi fosse in cerca, anche a Bologna, dei sapori dal capoluogo campano!

Elogio della cucina imperfetta

Ovvero quella con eccesso di sapidità. Quella che reitera alcuni elementi, o alcuni concetti, e che non ha dosato, non millimetricamente, quantomeno, acidità o amarezze. La cucina che non è il frutto di un progetto studiato nei minimi dettagli e riprodotto perfettamente a ogni servizio ma che ha comunque gusto, solidità, guizzo creativo e, cosa più importante, energia.

La cucina che ti fa sentire le buone vibrazioni, un accumulatore di felicità che sale dallo stomaco e arriva al cervello perché ogni piatto, tra i suoi difetti, trova a suo modo un punto di perfezione. Perché è condita da un servizio col sorriso, valore inestimabile che, se la bottiglia che hai ordinato non è in temperatura, nel frattempo insiste per offrirti un calice di un altro vino. E che ritrovi in un locale che ha un suo ritmo, che riconosci nel saluto degli avventori abituali che stazionano al bar, da cui si deve passare per accedere alla sala. Un locale che è come un habitat e, come tale, è piacevolmente imperfetto, appunto, e quindi in grado di entrare in empatia col suo cliente. Del resto si sa che, come nella musica, alle volte conta più il ritmo, il groove più della tecnica di chi suona.

Il giusto ritmo

Marco Cavalli, lo chef della Locanda Pincelli, ha un po’ di tutto questo: ritmo, gusto e, pure, ammettiamolo, una certa dose di sfrontatezza. Del resto quando, a 34 anni, uno chef ha palato, lo si evince da preparazioni prima di tutto buone, testimoni di come costui abbia canalizzato il suo talento sulla giusta strada.

Alla Locanda Pincelli la cucina di campagna viene proposta in una veste originale e personale e, pur con ovvi margini di miglioramento, ci convince a pieno. Ogni ingrediente trova la sua dignità in una evoluzione sensata di quella che è la classica cucina familiare della Bassa in piatti come il cavolfiore servito con la besciamella gratinata nel bricco da versare a pioggia, o la Faraona ricoperta di briciole di bacon con salsa di rafano, ovvero un würstel agreste, concentrato di gusto e intelligenza.

L’atmosfera, vagamente nostalgica, aiuta di certo disegnando il profilo di un’identità da preservare nel nome di quella genuinità e spontaneità tanto reclamata ma assai di rado invero raggiunta. E tutto questo può darsi a soli 35 euro: un rapporto felicità/costo decisamente alto. Ci è rimasta comunque una voglia: fermarci al bancone del bar dopo la cena, berci qualcosa e scambiare due chiacchiere con chi vive la Locanda in modo non occasionale. Chissà, magari la prossima volta…

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Oltre: atmosfera metropolitana nel centro di Bologna

Vicino alla  gastro – movida del Mercato delle Erbe, in una parte non memorabile del centro di Bologna di recente valorizzata e restituita alla città, da un paio d’anni Lorenzo Costa in sala e Daniele Bendanti in cucina hanno dato vita a Oltre.

Entrambi con importanti esperienze alle spalle – la famiglia di Lorenzo è proprietaria dello storico “Battibecco” e chef Bendanti ha diretto per anni le cucine dell’Osteria Bottega – hanno dato oggi vita a un locale stiloso che si caratterizza per la piacevole atmosfera metropolitana d’insieme, grazie all’accurata scelta degli arredi, dei colori, delle luci di design, alle graziose e griffate divise del personale di sala e, ultimo ma non ultimo, all’accattivante menù, impaginato come un fumetto. La scelta del nome, denota sicuramente lo sforzo, riuscito, di andare “oltre” l’offerta canonica, purtroppo sovente stantia e stereotipata, che si trova in città.

Tradizione bolognese, che ammicca alla modernità 

Appena conquistato l’ingresso, tempestato di adesivi quasi a celare il locale nello stile degli speakeasy, l’ambiente ha l’arredamento trendy e frizzante di un locale di una capitale europea e difatti, al momento della nostra visita, gli avventori erano quasi tutti stranieri. Peccato solo, a questo proposito, che manchi una selezione di aperitivi…

L’offerta si caratterizza prevalentemente  per la presenza di piatti della tradizione bolognese alleggeriti e modernizzati secondo le tendenze della neo-tradizionale cucina italiana (vedi Trippa o Santo Palato, tra i più noti). La scelta del pane e delle carni denotano cura nella scelta delle materie prime.

Alla sfoglia tirata al mattarello è dedicata una parte del menù, quella che ci ha convinto di più: eleganti i tortellini al brodo chiaro di cappone, tra migliori in città, in cui svettano la noce moscata e il parmigiano del ripieno; ottima la fattura dei ghiotti Balanzoni burro e oro, dalla farcia di mortadella e ricotta; golosi i rigatoni al torchio con la salsiccia, che grazie alla tiratura trattengono tenacemente la salsa al burro; ben eseguite le tagliatelle accompagnate da un ragù tagliato grossolano al coltello, piacevolmente nodoso.

Sempre a tema tradizione i due antipasti: uno sformatino di pancotto al ragù, recupero del pane vecchio rappreso col latte, lardo e aromi,  e un roll di polpettone fatto col ripieno dei tortellini, servito con cavolo nero, friggione e maionese all’erba cipollina.

Solo delicata la guancia di manzo brasata al Sangiovese, in cui l’acidità del melograno dona sì croccatezza ma si perde, a scapito della salsa. Nel solco della tradizione anche la piacevole zuppa inglese, arricchita da un croccante crumble di biscotti. Ci ha colpito invece, per eleganza, la panna cotta al pane raffermo.

Menzione speciale per la carta dei vini, studiata e con un occhio alle etichette naturali, e il servizio agile, attento e premuroso.

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